Titolo: As we go down this unfamiliar road
Fandom: Slam Dunk
Beta:
vedova_nera ♥
Personaggi: Kaede Rukawa, Hisashi Mitsui; apparizioni di Kiminobu Kogure, Ryota Miyagi e nominati tipo tutti gli altri.
Pairing: Mitsui/Rukawa
Rating: Pg15
Conteggio Parole: 5.128 (W)
Avvertimenti: Sono ghei e fanno porcherie. Ah, future!fic anche. Credo. Si dice così? Va beh, è ambientata dopo la fine del manga per intenderci.
Disclaimer: I personaggi della storia appartengono ai rispettivi proprietari e creatori, che ne detengono i diritti. Nulla di ciò è scritto a scopo di lucro.
Note:
• BUON COMPLEANNO, LOVVA ALEEEEEEEEEEEEEE!!!!!!!!!! Amata!!!!!!!!!!!!!! Spero che tu stia passando un compleanno stupendino, pieno di tanti regali, tanto booze, tanta gioia e tanti dolci. Tutte cose molto importanti, chiaramente. ù_ù MILIONI DI AUGURI, LOVVA LOVVISSIMA, MILIONI.
• Detto ciò, POSSO SPIEGARE!!!!!!!!!!!1111!1UNO!!!
Perché ecco, tu devi sapere che io questa idea l’avevo tipo da… novembre scorso? Ottobre? Una roba così, ed ero così gasata di aver avuto un’idea originale e ganza e in anticipo, per una volta!!!!!! Mi è testimone Vany, a cui tra l’altro l’ho raccontata tipo il 17 gennaio? Quindi immagina le risate che si è fatta. Immaginatele.
Poi però è arrivato il 18 gennaio e *_*_*_*
Ma insomma, la fic te la becchi lo stesso, perché per colpa tua sono caduta in una spirale senza fine di amore per questi due e l’idea non ne ha voluto sapere di essere messa da parte, perciò ecco. Affari tuoi adesso. è_é
• E non lo so, ho come la sensazione di dover dire cose sulla fic, ma il mio cervello è partito per una vacanza, per cui addio.
• Ovviamente si ringrazia la Vany, che mi ha fatto un po’ da enciclopedia vivente, perché lei di SD, sapete, si ricorda tutto. Tutto.
• No, comunque Mitsui/Rukawa OTP forevah & evah, perché cioè, dai.
• Nel caso in cui non si fosse capito, tutto ciò è per
eowie. ♥♥♥
• Titolo da Home di Phillip Phillips, ovvero il cantante con il nome più pirla della storia.
As we go down this unfamiliar road
Alla stazione, per salutarlo prima che s’imbarchi sul treno per Tokyo, oltre ai suoi genitori non c’è nessuno.
Non che Rukawa si aspettasse qualcosa di diverso: è stato attento affinché la notizia del suo trasferimento negli Stati Uniti non si spargesse, l’ha tenuta per sé il più possibile, quasi gelosamente, un po’ per paura che rivelandola a voce alta si dissolvesse, come un incantesimo spezzato, un po’ perché l’ultima volta che l’ha fatto, l’ultima volta che ha parlato dei propri progetti con qualcuno, si è scontrato con un muro di diffidenza. I consigli dell’allenatore Anzai ha continuato a sentirseli nelle orecchie per anni, fino alla fine delle superiori, ma è bastato ottenere la borsa di studio per un college in California perché ogni forma di cautela svanisse dai suoi atteggiamenti.
Il biglietto d’aereo stretto in una mano, adesso, Rukawa lo considera una vittoria, un traguardo che è riuscito con le sue sole forze a raggiungere e superare.
C’è soltanto un briciolo di paura, nel fondo del suo stomaco, quando il fischio del controllore annuncia la vicina partenza e sua madre, in un moto d’affetto, lo abbraccia stringendolo forte. Cerca di non avvertirla, di concentrarsi sulla scarica di eccitazione per il sogno che si sta avverando, e la spinge sempre più a fondo, ignorandola; dopo essere salito nello scompartimento e aver preso posto, chiude gli occhi, per non vedere dal finestrino i suoi genitori e la stazione che, man mano che il treno prende velocità, si fanno sempre più piccoli e distanti.
*
Mitsui lo scopre per caso. Tra le mille cose che non ha previsto nella sua esistenza, le cose che, ad un tratto, mosse da vita propria, hanno preso una piega del tutto differente da quella che lui avrebbe voluto, c'è precisamente apprendere quella notizia, così, nel bel mezzo di una strada affollata, in una giornata qualunque.
“Dici sul serio?” si ritrova a chiedere, sentendo la sua stessa voce arrivare da lontano, come se a pronunciare quelle parole fosse qualcun altro.
Kogure annuisce, sorridendo quasi con affetto. “È partito un mese fa. Non che l’abbia saputo da lui, certo, pare che non abbia avvisato proprio nessuno.” Scuote il capo con indulgenza, a ribadire quanto quel comportamento sia così tipico di Rukawa da non meritare nemmeno un commento. “Ha mandato una cartolina al signor Anzai la settimana scorsa. Me l'ha detto Akagi.”
Mitsui rielabora le informazioni dell'altro ancora e ancora, ripetendosele nella propria testa col bisogno di analizzarle. Sta facendo fatica a processarle, a digerirle, ad accettarle: che Rukawa sarebbe andato in America, presto o tardi, era più che prevedibile, ma stranamente conciliare il fatto compiuto con l’intento da lui tanto decantato durante le superiori non gli riesce - le due immagini non sono per nulla sovrapponibili. La verità è che non ci credeva davvero, che aveva classificato quel proposito come un sogno da adolescente - al pari di quando, appena prima di finire le scuole medie, lui stesso si era ripromesso che non avrebbe mai smesso di giocare a basket.
“Spero non se ne torni con la coda fra le gambe,” sbotta, e il tono troppo brusco fa corrugare le sopracciglia di Kogure. Cerca di rimediare: “Intendo, spero che le cose gli vadano bene.”
Il salvataggio non riesce del tutto e l’altro si stringe nelle spalle, come a significare che non si può mai dire. Mitsui sente l'improvviso bisogno di mettere fine a quella conversazione, così si costringe ad accampare delle scuse per allontanarsi in fretta e impedirgli di fare ulteriori domande.
Quando finalmente rientra in casa, nel chiudersi la porta alle spalle, realizza che probabilmente lui e Rukawa non si vedranno mai più.
*
Per un po' Kaede ci crede davvero. Crede di avercela fatta, di aver raggiunto il proprio obiettivo, il sogno di una vita. Crede, per qualche tempo, persino di essere felice.
In realtà bastano pochi mesi perché si renda conto che la sua non è che un'impressione momentanea, un'illusione, forse, destinata a lasciare il passo alla realtà entro breve, quando le partite trascorse in panchina iniziano ad essere più di quante possa contare, quando i suoi voti precipitano sotto la media, quando il Giappone si fonde irrimediabilmente con il concetto di casa e un peso che sembra nostalgia gli si appoggia sul petto.
Passano due anni, prima che la situazione diventi irreparabile.
“I tuoi voti non sono abbastanza alti per il rinnovo della borsa di studio, Kaede,” gli spiega la consulente scolastica, un’espressione contrita, forse sincera, sul volto. “E nemmeno i tuoi risultati nella squadra.”
Non gli sta comunicando nulla che lui non avesse già immaginato, ma, nonostante ciò, quell’annuncio gli causa lo stesso effetto di un pugno diretto nello stomaco: gli toglie il fiato e gli fa girare la testa.
Alcuni minuti dopo, fuori dall’ufficio della donna, Rukawa inserisce la carta prepagata nel telefono pubblico della segreteria e compone il numero dei suoi genitori. “A fine semestre torno a casa,” è tutto quello che dice, lasciando scivolare sulla lingua parole in giapponese che non pronunciava da troppo tempo. Sua madre, dall’altro capo della linea, non fa domande.
*
Ad un certo punto, durante quei due anni, Mitsui è andato a vivere da solo. È stato un passo quasi obbligato, un’esplosione di indipendenza che aveva ardentemente voluto. Il suo appartamento è piccolo, poco più di un buco di monolocale, ma è suo ed è quanto più possa chiedere.
Per il resto, impiega le proprie giornate lavorando in un bar, che non è esattamente quello che i suoi genitori si aspettavano da lui - né quello che lui stesso avrebbe voluto nella vita - ma è un lavoro, è divertente e lo tiene abbastanza impegnato da lasciargli poco tempo per rimuginare sulle opportunità sprecate.
Ogni tanto, vede ancora Tetsuo. Va a trovarlo al bar, sempre da solo, e rimane il necessario per bersi un paio di birre e fare quattro chiacchiere. Più spesso, incontra i suoi ex-compagni di scuola, Ryota in particolare, ma anche Akagi, Kogure e Hanamichi quando tornano a casa dal college. Di tanto in tanto, organizzano persino qualche partita tra loro, in uno dei campi cittadini, ed è soprattutto in queste occasioni che si ritrova a pensare a lui, a chiedersi come gli stia andando in America.
È un pensiero stupido, qualcosa che non porta a nulla, ma non può evitare di porsi quelle domande sebbene poi non indaghi nemmeno e non cerchi in nessun modo di farsi dare delle risposte da chi potrebbe saperne di più. Giustifica quell’ostinato silenzio dicendosi che non gli interessa davvero, che la sua curiosità è superficiale e vaga, un riflesso degli anni che hanno passato a stretto contatto e di cui non resta più niente.
Scopre che le cose non stanno esattamente come aveva creduto, che la parola fine che aveva forzatamente apposto al loro rapporto non è poi così conclusiva, in un tardo pomeriggio d’aprile. Sta camminando per strada, diretto verso casa dei suoi genitori per una cena in famiglia - quella che sta cercando di evitare da due settimane e che ormai non può più rimandare - e, dall’altra parte della strada, le porte di un negozio di musica si aprono e ne esce Rukawa, un sacchetto stretto in una mano, le cuffie nelle orecchie, quasi del tutto identico all’ultima volta che l’ha visto.
Mitsui si immobilizza sul marciapiede, lo sguardo fisso su di lui finché gli è possibile, finché la folla non lo inghiotte e non riesce più a vederlo. L’idea di chiamarlo o di corrergli dietro non lo sfiora nemmeno, perché il tutto gli sembra così irreale, così impossibile, che deve esserci un errore. Forse non era lui, forse gli assomigliava soltanto, forse la sua mente ha deciso di giocargli qualche brutto tiro-- ma per quante opzioni consideri, c’è una parte di sé che sa perfettamente di non essersi sbagliata. Quello era Rukawa e, chissà come, chissà perché, chissà per quanto tempo, è di nuovo in Giappone.
Il resto della serata è un disastro. Hisashi è troppo distratto per prendere sul serio le chiacchiere dei suoi genitori, i pensieri che rimbalzano insistentemente sull’incontro di qualche ora prima, perciò la cena lo lascia frustrato e irritato, con la netta sensazione di star sbagliando qualcosa, anche se non saprebbe indicare cosa.
Persino una volta tornato nel proprio appartamento, sebbene più calmo, non riesce a togliersi dalla testa il pensiero dell’altro, a smettere di farsi domande su di lui.
*
Sua madre bussa piano alla porta della sua stanza. “Kaede, c’è una visita per te,” annuncia. Tiene il tono basso, come se non volesse disturbarlo davvero, e quella semplice accortezza gli suona già fin troppo fastidiosa.
Realizza il senso delle sue parole in un secondo momento: lo lasciano stupito, tanto che impiega un po’ di tempo in più rispetto a quanto avrebbe fatto normalmente a spingere la sedia indietro e mettersi in piedi. La sua mano si appoggia sulla maniglia pochi istanti dopo, mentre cerca di fare un respiro profondo e decidere che sì, tutto sommato scoprire chi c’è dall’altra parte gli importa.
Mitsui è in piedi accanto alla donna, un ghigno sul viso che gli risulta odioso non appena vi posa sopra lo sguardo. “Hisashi ha saputo del tuo ritorno ed è venuto a trovarti,” spiega sua madre, modulando un sorriso cordiale e cercando di trasmettergli con un’occhiata un po’ della sua contentezza a riguardo. Volta loro le spalle subito dopo, per tornare al piano di sotto, lasciando indietro l’altro ragazzo che, con la medesima espressione, continua ad osservarlo.
Rukawa non si fa di lato per farlo passare, non ricambia il sorriso; lo fissa come se si trovasse di fronte ad un estraneo - dopotutto, non è ciò che sono? - e incrocia le braccia al petto. Il motivo della visita gli è oscuro, ma ciò che lo preoccupa maggiormente è come l’altro abbia saputo del suo ritorno in Giappone. È la prima cosa che vorrebbe chiedergli, invece quello che viene fuori è un brusco: “Cosa vuoi?”
Il ghigno di Mitsui vacilla per un istante, ma l’accenno di nervosismo scompare in fretta per lasciar posto al suo solito atteggiamento sfacciato. “Non ti hanno di certo insegnato le buone maniere, negli Stati Uniti,” commenta. Kaede leva gli occhi al cielo e finalmente si sposta, permettendogli di entrare nella stanza.
È malamente illuminata, perché non si è disturbato ad aprire le persiane, e la maggior parte della luce proviene dal televisore acceso. Mitsui sembra completamente disinteressato a quello che ha intorno, però, perché torna subito a rivolgere la propria attenzione a lui. “Allora”, comincia, “com’è andata in America?”
Il suo tono è casuale, quasi scherzoso, ma la domanda gli risulta comunque insostenibile. Sente il proprio stomaco rivoltarsi e, a disagio, sposta il peso da un piede all’altro, serrando le braccia con più forza. "Chi te l'ha detto?" ringhia.
L’espressione divertita di Mitsui muta immediatamente. “Nessuno,” ammette, evitando il suo sguardo. “Ti ho visto in strada ieri.” Lascia passare qualche istante, poi, siccome Kaede non accenna a parlare, continua: “Devi ripartire?”
Lui avverte nuovamente quella sensazione allo stomaco, come un moto di nausea. “No,” sbotta, e si ferma lì, senza nemmeno provare a dare una spiegazione. Cosa potrebbe aggiungere, in fondo? Che non è stato in grado di tenersi un maledetto posto nella squadra del college? Riesce già a immaginarsi lo scherno dell’altro, quasi glielo vede addosso, e questo gli basta.
Hisashi lo osserva con uno sguardo strano, un po’ confuso. “Non ci hai nemmeno detto che partivi,” riprende, la voce che gli si abbassa di un tono, diventa un po’ incerta.
“Non erano affari vostri,” è la sua replica, mentre scrolla le spalle per sottolineare quanta poca importanza stia dando alla situazione.
Qualcosa cambia di nuovo nello sguardo dell’altro, perché un’espressione allegra gli compare nuovamente sul viso. Si muove verso la porta, come preparandosi ad andar via, e dice: “Beh, in ogni caso, qualche volta organizziamo delle partite con la vecchia squadra. Dovresti venire.”
Gli rivolge un sorriso e varca la soglia, esattamente un momento prima che le parole di Kaede lo gelino. “Impossibile,” risponde, il tono monocorde, “ho smesso di giocare.”
Mitsui gira su se stesso, l’espressione stranita, sulle labbra decine di domande che vorrebbe porgli tutte nel medesimo istante, ma Rukawa non ha voglia di sentirle, così, seguendolo, borbotta un “Ci vediamo” e chiude la porta della stanza con un tonfo.
Trascorrono diversi secondi, prima che senta i passi del ragazzo allontanarsi verso le scale.
*
La seconda volta che si incontrano è assolutamente casuale. È mezzogiorno e Mitsui sta rientrando a casa dopo aver terminato il proprio turno di lavoro quando si incrociano all'angolo di una strada. Ha pensato in più occasioni di tornare a trovarlo nei giorni precedenti, ma non ne ha avuto il coraggio; l'atteggiamento ostile dell'altro non gli ha lasciato alcuna speranza di riuscire ad ottenere qualche spiegazione aggiuntiva.
"Ehi," lo saluta adesso, con un cenno del capo. È improvvisamente incerto se fermarsi o semplicemente tirare dritto, ma c'è qualcosa negli occhi di Rukawa che lo convince per la prima opzione.
Lui, infatti, si toglie gli auricolari che indossava e fa eco al suo saluto. La successiva cosa di cui Mitsui si rende conto è che gli sta chiedendo, "Ti va di prendere qualcosa da mangiare?” indicandogli il take-away in fondo alla via.
È abbastanza sicuro di stare per ricevere un rifiuto o forse peggio, ma invece Kaede si limita a guardarlo un po’ sorpreso e poi a scollare le spalle, già avviandosi lungo il marciapiede.
Pranzano nel suo appartamento. Mitsui tiene un pallone da basket lì nell’ingresso e, quando arrivano, vede Rukawa osservarlo per un momento, l’espressione imperturbabile, per poi passare oltre senza nessun altro cenno. È tentato di fargli domande, chiedergli se è proprio vero che ha smesso di giocare, ma l’aspetto poco incoraggiante del ragazzo lo spinge a restare in silenzio. Gli sembra di muoversi in equilibrio su una linea molto sottile, quando è con lui, e che basterebbe fare un semplice passo sbagliato per cadere e farsi male.
Così evita completamente l’argomento per tutto il pranzo e anche dopo, mentre chiacchierano di cose senza importanza; è una conversazione poco naturale e forzata, che lo lascia frustrato e a disagio. Dopo un’ora Hisashi è quasi sul punto di invitarlo ad andarsene, perché non ne può più del suo atteggiamento distante e freddo; l’altro non accenna a farlo, però, e lui non ne capisce il motivo, vista la sua scarsa voglia di stabilire un qualsiasi rapporto un minimo cordiale.
Conosce Rukawa e non dovrebbe esserne sorpreso, considerate le difficoltà che hanno avuto durante il liceo; eppure, c’è una parte di sé che pensava che quelle difficoltà se le fossero lasciate alle spalle, con la distanza e con gli anni trascorsi, e che forse Kaede avrebbe potuto essere contento di rivederlo quanto lo è stato lui.
Non ha il tempo di ammettere a se stesso di essersi sbagliato, però, perché d’improvviso l’espressione del più giovane cambia, si fa di colpo più morbida. Il ragazzo sposta lo sguardo su un punto imprecisato della stanza e, dopo qualche secondo di silenzio, dice: “Ti dispiace se resto ancora un po’?” Prende un respiro profondo e poi aggiunge, senza dare altre spiegazioni, “Non posso stare a casa.”
Mitsui lo osserva attentamente, studiando le linee del suo viso per quella che gli sembra un’eternità. L’impulso di fargli domande ritorna violento - vorrebbe chiedergli il motivo di quell’affermazione e cos’è accaduto e se ha definitivamente abbandonato l’idea del college e altre mille cose -, invece ciò che sente se stesso dire un attimo dopo è solo: “Non c’è problema.” E poi ancora, “Puoi stare qui quanto vuoi.”
Quella nuova fase del loro rapporto inizia così - prendono a vedersi sempre più spesso e a passare sempre più tempo insieme senza essere, di fatto, mai diventati amici.
*
“Non posso crederci.” Rukawa scuote la testa, negando con forza il pensiero. Ci sono così tante delusioni che ha avuto di recente che, davvero, questa non dovrebbe risultargli una notizia così tragica. Invece lo sembra.
Mitsui gli passa la sua seconda birra e annuisce con forza. “Te lo giuro,” conferma con un sorriso divertito, che non sa se sia causato dalla stranezza della situazione o dalla sua espressione incredula. “Hanamichi è diventato praticamente una star. La sua squadra del college è in vetta alle classifiche nel campionato scolastico e dovresti sentire cosa scrivono di lui sui giornali.”
Kaede lascia uscire uno sbuffo e borbotta, “Assurdo”. Era sul punto di rilassarsi fino all’attimo prima, di passare una serata tranquilla, ma d’improvviso gli pare che questa notizia l’abbia scosso fin dentro le ossa. È forse un briciolo di invidia, quello che è comparso nel fondo del suo stomaco, ed è qualcosa di così inconcepibile, se riferito a Sakuragi, che lo destabilizza.
Mitsui continua, “Ho seriamente considerato di correre da qualche giornalista a raccontare dei suoi esordi, di quando non aveva nemmeno idea di come marcare un avversario.” Ride. “Dici che mi pagherebbero bene?”
Sulle labbra gli compare un vago sorriso, ma nemmeno quello riesce a scacciare la pesantezza che si sente addosso; si porta la bottiglia di birra alle labbra e ne beve tre sorsi, vuotandola per metà, sentendosi intanto l’attenzione dell’altro addosso, la risata completamente svanita dal suo volto.
Inizia a parlare di riflesso, senza averlo premeditato. “In America è andato tutto di merda,” mormora, fissando un punto del pavimento perché tentare di sostenere il suo sguardo sarebbe troppo. Hisashi si immobilizza, processando le sue parole, poi si fa più vicino, scivolando quasi di mezzo posto sul divano per ascoltare.
Rukawa soffoca la necessità di rimangiarsi quella frase, di cambiare argomento; osserva brevemente il ragazzo più grande, cercando di leggerne le reazioni e quasi tira un sospiro di sollievo quando nei suoi occhi trova solo comprensione. Gli riesce difficile credergli e fidarsi del tutto, ma d’altra parte sente anche di dovergli finalmente una spiegazione.
“A quanto pare non sono stato bravo abbastanza,” riprende allora. La frase gli viene fuori a stento, ma Mitsui annuisce, come se capisse alla perfezione.
“Così hai deciso di smettere e basta?” gli domanda, la voce che, di colpo, si colora di qualcosa a metà tra l’astio e la frustrazione.
Lui aggrotta le sopracciglia, borbotta un “che altro potrei fare”, e Hisashi continua: “Non ti sembra stupido?”
È arrabbiato, adesso, il tono più alto e le labbra premute in una linea sottile. Lo guarda fisso in viso e si aspetta una risposta; non c’è dubbio che il suo atteggiamento gli sembri irragionevole e infantile, e Kaede vorrebbe giustificarsi, vorrebbe spiegargli, ma non sa come fare a dirgli che la pallacanestro era tutto ciò che aveva, l’unica cosa in cui era bravo, e un fallimento del genere non è in grado di gestirlo.
Si mette in piedi, appoggiando la bottiglia di vetro che ancora tiene in mano sul ripiano accanto al divano, e inizia a compiere alcuni passi avanti e indietro, come un animale in gabbia. Mitsui è appena più pacato, quando chiede: “Quindi ora cosa hai intenzione di fare?”
Si stringe nelle spalle, ammette: “Non lo so.” Poi, incrociando i suoi occhi, aggiunge: “Non voglio parlarne, adesso.” È quasi una supplica, la sua, e l’altro lo capisce, perché accampa la scusa di prendere qualcosa da mangiare e si sposta in fondo alla stanza, dove si trova la cucina; quando ritorna, un sacchetto di patatine in ogni mano, fa in modo di cambiare discorso e cerca di alleggerire la situazione.
Accendono la TV e finiscono a guardare un programma comico che non gli strappa nemmeno una risata. Rukawa finge solamente di seguirlo, ma in realtà non riesce a distogliere la mente dai ricordi degli Stati Uniti e, soprattutto, dalla domanda di Mitsui - ora cosa hai intenzione di fare?
Gli rimbalza in testa ininterrottamente, come se non ci fosse altro ad occupargli i pensieri, e il bisogno di distrarsi, dopo un po’, diventa sempre più pressante. Si mette in piedi di colpo, osservando il cielo fuori ormai scuro e annunciando, “È meglio che vada.”
Ha già compiuto diversi passi verso la porta d’ingresso, quando Hisashi si alza e lo ferma, appoggiandogli una mano sul braccio per trattenerlo. “Puoi restare, se vuoi,” gli dice, incrociando i suoi occhi quando Rukawa si gira verso di lui.
Non è certo di cosa ci veda al loro interno; gli piace pensare che sia un invito, ma non è sicuro di come stiano le cose. Quello che sa è che il calore del corpo del ragazzo, così vicino, gli arriva a ondate e gli sembra terribilmente invitante.
Allora lo bacia, piano, posando le proprie labbra sulle sue con un certo grado di esitazione. Si aspetta una risposta talmente negativa che, immediatamente, la paura rimpiazza qualsiasi emozione avesse provato fino al momento prima, ma da Hisashi, ancora immobile con le dita strette attorno al suo avambraccio, non arriva niente del genere. Sul suo volto compare un’espressione appena confusa, che però dura solo un istante: l’attimo successivo lo sta tirando verso di sé per baciarlo di nuovo.
Kaede ricambia, e tra loro non esiste più spazio. Basta poco perché tutto diventi rapido e frenetico; le sue dita si incastrano tra i vestiti di Mitsui nel tentativo di spogliarlo, strattonano la stoffa cercando di eliminarne l’intralcio e alla fine ci rinunciano, lasciando che sia l’altro a togliersi la maglietta e sbottonarsi i jeans. Lui lo imita, allontanandosi giusto il tempo necessario, e poi torna a premerglisi addosso, schiacciandolo contro la parete più vicina.
Le mani di Hisashi scivolano sui suoi fianchi e poi più in basso e, con la sua bocca premuta alla base del collo, Rukawa sa che questo è esattamente ciò che cercava, ciò di cui aveva bisogno: di tutto il resto non rimane che un ricordo lontano.
Spingono l’uno contro l’altro, ritmicamente, finché i sospiri soffocati e i gemiti non vengono rimpiazzati da un silenzio quasi assoluto.
Rukawa si allontana immediatamente per risistemarsi i vestiti, raccogliendo la maglietta dal pavimento e cercando di rimettersi in ordine. Si passa una mano tra i capelli, nervoso, mentre di soppiatto osserva Hisashi appoggiare la testa al muro, chiudere gli occhi e respirare a fondo.
Non riesce a distogliere lo sguardo per un lungo istante e il modo in cui lo stomaco gli si attorciglia lo spaventa, così si affretta a tornare a concentrarsi su un punto davanti a sé. “Non significa niente,” afferma, “È stata solo la distrazione di una volta.”
Mitsui scoppia a ridere. Leva gli occhi al cielo e, il divertimento a colorargli il tono, dice, “Tu sì che sai come mantenere una bella atmosfera romantica.”
Kaede non gli bada. Si affretta ad uscire da quell’appartamento il prima possibile, già sapendo di aver mentito, già sapendo che quanto successo non è che il principio di qualcosa.
*
Ryota scoppia a ridere. “Quindi gli stai facendo da babysitter o che?”
Mitsui gli colpisce lo stinco da sotto il tavolo e borbotta, “Niente del genere.” Poi scrolla le spalle, cercando di assumere un tono casuale e dare poca importanza a quello che sta per dire. “È che mi dispiace vederlo così. Sto tentando di dargli una mano.”
Non gli spiega che hanno iniziato a fare sesso da un paio di settimane, né che, da qualche tempo a questa parte, quando il pensiero di Rukawa gli si affaccia alla mente, si accompagna sempre con un certo grumo di sentimenti caldi che potrebbero anche sembrare affetto.
Miyagi scuote la testa, a rimarcare l’assurdità del tutto. Gli pare che da un momento all’altro aggiungerà che si sarebbe aspettato qualsiasi cosa, tranne che vedere lui interessarsi a Rukawa, ma alla fine l’amico desiste dal prenderlo in giro. “Beh, Kogure mi ha detto che tra un paio di giorni torna Akagi,” riprende dopo un po’. “Possiamo organizzare una partita e chiedergli di venire. È da un secolo che non si fa vedere.”
Hisashi sente un’esplosione di gratitudine nascergli nello stomaco, ma non si fa illusioni. “Riferirò,” promette a Ryota, anche se è certo che convincere Kaede non sarà affatto facile.
*
“Dovresti esserci, sarà divertente.” Mitsui piega le labbra in sorriso, poi si china a raccogliere la palla da basket che tiene nell’ingresso, la fa roteare e la passa all’altro. “Abbiamo iniziato a farlo da quando la scuola è finita. In memoria dei vecchi tempi e tutto il resto.”
Rukawa la prende al volo e, per un istante, la osserva come un qualcosa di estraneo, un oggetto assurdo che gli sia appena capitato per caso tra le mani. È trascorso così tanto tempo da quando ne ha tenuta una che ne ha quasi dimenticato la consistenza, la sensazione ruvida al tatto; eppure, nonostante la sensazione di familiarità che lo invade, come di un qualcosa perso e ritrovato dopo chissà quanto, gli pare che le sue dita potrebbero andare a fuoco se non la lasciasse subito.
La ripassa a Mitsui, con un movimento quasi violento, e incrocia le braccia al petto per impedirgli di ripetere il gesto. “No, non mi interessa,” replica infine, avendo cura di evitare il suo sguardo.
L’espressione del ragazzo più grande cambia, si fa rassegnata. “È solo una cosa tra noi,” ribatte, stringendosi nelle spalle, “tra amici.”
La replica gli viene fuori rapida, senza che ci pensi troppo: “Non siete mai stati miei amici, ci è solo capitato di essere nella stessa squadra.” Si rende conto troppo tardi di quanto brusco sia il proprio tono, di come le parole giungano all’altro affilate come coltelli.
Vorrebbe rimangiarsele nello stesso attimo in cui le ha emesse, ma non fa in tempo: il pugno di Mitsui lo raggiunge per primo, colpendolo dritto in faccia.
Rukawa si porta una mano alla guancia, cercando di arginare il dolore; gli lancia uno sguardo ostile, ma la rabbia che trapela da ogni piega del suo viso lo fa desistere dal dire qualsiasi cosa. Una scarica di senso di colpa lo colpisce dritto al petto: avverte la necessità di rimediare, acuta e abbagliante, ma non sa come farlo.
“Allora è meglio se te ne vai,” dice Hisashi, fissandolo ancora con astio; le sue mani, abbandonate lungo i fianchi, sono strette a pugno e sembra che il ragazzo sia pronto a colpirlo di nuovo.
Rukawa fa come gli è stato detto ed esce dall’appartamento senza guardarsi indietro.
*
Quando il campanello suona, poco meno di una settimana dopo, Mitsui un po’ si aspetta di trovarselo di fronte. Quello che non si immagina, però, è l’espressione dispiaciuta che compare sul volto di Kaede nel momento in cui apre la porta.
Lo fissa per un istante, mentre l’altro apre la bocca per dire qualcosa per poi richiuderla senza aver emesso un solo fiato, spostando lo sguardo in basso per evitare il suo. Con un sospiro, si fa da parte per farlo entrare, richiudendo la porta alle sue spalle.
A Hisashi basta guardarlo per rendersi conto che le parole che ha pronunciato quel giorno se le sente ancora addosso, come una seconda pelle; la fitta di dolore è un ago sottile che gli trapassa il petto e, per quanto vorrebbe non darlo a vedere, convincersi che quello che hanno non è nulla e nulla è mai stato, non ci riesce.
“Che cosa vuoi?” chiede, appoggiandosi alla parete. Il tono gli viene fuori più seccato e monocorde di quanto avesse voluto e Rukawa assorbe il colpo come se gli avesse appena tirato un altro pugno.
Esita un paio di istanti, come alla ricerca della risposta giusta, ma quando non la trova fa un passo in avanti, verso di lui, e gli posa le mani ai lati del viso. Lo bacia con impeto, come se fosse stato sul punto di annegare e avesse appena riguadagnato ossigeno, e Mitsui lo lascia fare, aggrappandosi con forza alle sue spalle, perché si è privato di tutto questo per troppo tempo e ne ha abbastanza.
Staccandosi appena, gli occhi ancora chiusi, Kaede mormora, “Mi dispiace,” ad un soffio dalla sua bocca. Lui annuisce, un movimento impercettibile; sa quanto quella piccola ammissione gli sia costata e di parole non ha più voglia, così semplicemente dice, “Andiamo”, dirigendosi verso la camera da letto.
Più tardi, ancora nudo, Rukawa si siede sulla sponda del materasso e, dandogli le spalle, domanda, “Perché lo fai? Perché continui a tenermi intorno?”
La sua voce suona così spaventosamente sincera che Hisashi avverte distintamente il proprio stomaco affondare: è certo che quella sia la prima volta che il ragazzo gli si rivolge a quel modo, in maniera quasi intima. Fissando la sua schiena, comincia: “Perché so qual è la differenza tra voler smettere di giocare e dover smettere di giocare.”
Rukawa si gira verso di lui, l’espressione interrogativa. Prende un respiro profondo, allora, cercando di riorganizzare i pensieri che gli si accatastano nella mente in maniera ordinata, lineare, di far capire all’altro cosa intende esattamente. “Non ci ho pensato nemmeno ad andare al college perché sapevo che non avrei potuto più giocare,” inizia, il tono basso e un po’ incerto. “Se avessi continuato a sforzare il ginocchio sarebbe finita, per sempre. Così mi sono convinto che tanto valeva smettere e basta, e lasciarmi almeno la possibilità di fare qualche tiro, di tanto in tanto, quando ne ho voglia.”
Abbozza un sorriso, ricordando quanto fosse stato difficile prendere quella decisione, poi riporta gli occhi su Kaede. “Quello che voglio dire è che credo di capire cosa stai passando. Tu, però, ragioni per smettere non ne hai, non davvero. Potresti fare qualsiasi cosa, se solo la piantassi di comportarti da moccioso viziato.”
Il sorriso gli si affila in un ghigno storto e Rukawa lo colpisce sul braccio, ma senza forza, lasciando poi la mano lì, in una specie di carezza.
Mitsui si solleva, puntellandosi sulle mani; avvicina il viso al suo e, le bocche distanti di un soffio, domanda: “Vieni a giocare con me, domani? Uno contro uno.”
Kaede lo bacia. Solo dopo risponde, “Va bene,” in un sospiro leggero.
*
Giocare nuovamente, benché sia sul cemento un po’ sgretolato dall’uso del campo da basket di quartiere, gli dà una scarica di adrenalina e lo riporta indietro - non agli anni negli Stati Uniti ma a quelli precedenti, a quando la pallacanestro era quanto avesse di più importante. Il suo fisico risponde immediatamente, rintracciando con facilità i movimenti soliti, che conosce così bene e che sembra non aver mai disimparato: compierli gli risulta facile e familiare e, per la prima volta da troppo tempo, riesce a divertirsi facendolo. Se c’è una sensazione migliore, Rukawa non la conosce.
Mitsui si libera della sua marcatura con una finta e poi scattando in avanti. Kaede resta indietro di proposito, solo per osservarlo prendere posizione e, con la sua consueta fluidità, effettuare un tiro da tre punti. Non sa cosa farà della propria vita, se riprenderà il college qui in Giappone o tenterà semplicemente di entrare in una squadra locale; non lo sa e, mentre l’altro ragazzo si volta e ghigna vittorioso nella sua direzione, realizza che non gli importa. In questo momento, ha tutto ciò che potrebbe volere.