Titolo: Everything you didn’t expect
Fandom: DC Comics
Beta:
izzieannePrompt: Noah Kuttler/Barbara Gordon - finalmente lo poteva vedere in faccia. + (Jim) "Sono incinta." "Oh." "Ecco." @
Gomitoli di Lana FestPersonaggi: Noah Kuttler, Barbara Gordon, feto!
Jim KuttlerPairing: Noah/Babs, con leggeri riferimenti Dick Grayson/Babs e Ted Kord/Babs
Rating: Pg
Conteggio Parole: 900 (W)
Disclaimer: I personaggi della storia appartengono ai rispettivi proprietari e creatori, che ne detengono i diritti. Nulla di ciò è scritto a scopo di lucro.
Note:
• Dunque, tecnicamente ambientata nel
lovvoverse, visto che Noah e Babs non sono ancora insieme nella continuity ufficiale. Tuttavia, la base da cui prende le mosse la fic è assolutamente canon; per intenderci: la collaborazione tra Calculator e le Birds of Prey è realmente avvenuta, il rapporto di Barbara prima con Dick e poi con Ted Kord (Blue Beetle I) altrettanto e la fissa di Noah per lei è canonissima. Vedrete che prima o poi accadrà anche il resto *nods*.
• Io e Barbara abbiamo un pessimo rapporto, ma con Noah... è tutta un'altra cosa. é_è
Everything you didn’t expect
Finalmente posso vederlo in faccia.
Era stata questa la frase che le aveva attraversato la mente quando si era presentata all’appuntamento con Calculator. Un pensiero derivato dal conoscersi da tempo unicamente per fama e attraverso un PC, da anni di lotte cibernetiche per proteggere ognuno le proprie informazioni, ognuno la propria identità.
Un pensiero dettato dalla semplice curiosità; un pensiero assolutamente innocuo, insomma, che non lasciava affatto presagire quello che sarebbe successo in seguito.
*
Tutto era iniziato con una collaborazione - non esattamente volontaria - di cui le Birds of Prey avevano disperatamente bisogno. Non era stato facile ammettere di necessitare del suo aiuto, né tantomeno barattare il nascondiglio sicuro del proprio avatar con i servigi di Kuttler, ma Barbara l’aveva fatto piegandosi al bene superiore (qualcosa le diceva che Bruce sarebbe stato fiero di lei).
L’allarme era poi cessato, il piano aveva avuto un buon esito, ma Kuttler non accennava a liberarla della sua presenza. Si ostinava a starle intorno nella base del team, a contattarla via messaggio, a chiederle qualsiasi sciocca informazione gli venisse in mente; così, alla fine, lo aveva messo alle strette.
«Non ci servi più,» aveva cominciato, fissandolo dal basso della propria posizione, «posso capire cosa ci fai ancora qui?»
Noah aveva riso - una risata sommessa e imbarazzata - e, ricambiando lo sguardo, aveva proposto, «Una cena, Oracolo. Una cena e basta.»
E Babs poteva capire alla perfezione le ragioni della sua fissazione nei propri confronti, i motivi per cui era incuriosito e tanto determinato a conoscerla - la rivalità, dopotutto, può portare questo e altro -, ma quello che non capì furono le parole che pronunciò lei stessa in risposta.
«Chiamami Barbara,» replicò l’attimo successivo, con un mezzo sorriso sul viso.
*
Erano seguite molte altre cene, dopo quella. E poi erano cominciate le telefonate, i pomeriggi trascorsi insieme e le notti, infine, passate nell’appartamento di uno dei due, nel medesimo letto.
Nemmeno a questo Barbara era in grado di trovare una spiegazione plausibile, eppure, tutto sommato, la situazione le piaceva. La faceva sentire tranquilla il fatto che non ci fosse una Starfire o una Huntress a spuntare nella sua vita per spezzare l’illusione di idillio a cui si era abituata, o un Booster Gold per cui Calculator dovesse mollare ogni cosa e correre a salvare il mondo.
Quello che avevano, per quanto inaspettato e probabilmente inappropriato, era suo e nessuno gliel’avrebbe tolto: Noah la guardava e lei aveva la certezza che non c’era nient’altro ad occupargli la testa, nel frattempo.
E avrebbe potuto continuare così a lungo, tanto la situazione le stava bene, destreggiandosi tra le promesse dell’uomo - a cui lei non credeva - di smettere di lavorare per i Luthor e rigare dritto, e Bruce e Jim Gordon diventati improvvisamente iperprotettivi e diffidenti. Avrebbe potuto, però qualcosa glielo impedì.
*
Fu una parola - una semplice, insignificante parola d’uso comune e dal significato ben conosciuto - a trasformarsi improvvisamente in un’importante variabile della propria vita.
Incinta.
Il test di gravidanza lo diceva in maniera chiara, esattamente come lo dicevano i due successivi che aveva acquistato e le analisi del sangue che aveva richiesto - ovviamente sotto falso nome. Aveva cercato l’errore in ogni modo possibile, ma dopo tante conferme non c’era più speranza che ne esistesse uno: quella era la realtà dei fatti, che lei se l’aspettasse o meno.
Attese tre giorni prima di dirlo a Noah. Tre giorni lunghi e difficili, fatti di sguardi sfuggenti e bugie e occhiate di sbieco allo specchio, per controllare lo stato della propria pancia.
Poi, stanca come non mai, gli chiese di sedersi e, guardandolo negli occhi, disse: «Sono incinta.» Aspettò un’interminabile manciata di secondi mentre lui sbatteva le palpebre ripetutamente e, quando tutto ciò che uscì dalla sua bocca fu un Oh a mezza voce, borbottò, «Ecco,» quasi a conferma delle proprie peggiori prospettive.
L’attimo successivo afferrò le ruote della sedia, pronta a voltarsi e andarsene. All’improvviso, quello che era piacevole e suo, era diventato decisamente spiacevole e di qualcun altro - qualcuno disposto a mettere su famiglia, ad essere madre e ad insegnare al proprio pargolo tutto ciò che sa, anche se tutto ciò che sa consiste unicamente nelle identità di ogni supereroe esistente sulla Terra, o nel luogo esatto in cui il Joker sta facendo a pezzi una vittima innocente - e lei sentiva unicamente il bisogno di allontanarsi da lì.
Tuttavia non fece in tempo a muoversi, perché la mano di Noah si appoggiò sulla sua e le impedì qualsiasi azione. Lui la fissò e sembrò addirittura tremare, quando mormorò, «Sposami.»
Barbara aveva immaginato un momento del genere milioni di volte, durante la sua vita. L’aveva immaginato romantico e travolgente, come lanciarsi da un grattacielo appesi ad una fune, e c’era sempre Dick, o - per un certo periodo - Ted, a porle la fatidica domanda. La realtà si prospettava diversa: non c’era nessuna anticipazione, nessun fiato trattenuto per l’imminente salto, ma solo il proprio cuore che batteva all’impazzata per il terrore cieco che provava - e un altro, più piccolo, che tentava di adeguarsi al ritmo.
Non assomigliava a niente che avesse mai ipotizzato, quel momento, eppure era arrivato ed era reale; non lo aveva previsto, ma stava accadendo, e forse il salto stava tutto lì, nel cogliere l’occasione e tenersela stretta.
Ricambiò lo sguardo di Noah e i suoi occhi tanto limpidi la tranquillizzarono all’istante. Così respirò a fondo e, prendendo la mano dell’uomo tra le proprie, «Sì,» soffiò infine, lanciandosi.