Titolo: L'unica cosa su cui puoi contare
Fandom: Harry Potter
Postata il: 20/03/2007
Personaggi: Draco Malfoy, Theodore Nott
Pairing: Draco/Theo
Rating: Pg15
Conteggio parole: 1.258 (W)
Avvertimenti: Vago slash, linguaggio
Disclaimer: I personaggi della storia appartengono ai rispettivi proprietari e creatori, che ne detengono i diritti. Nulla di ciò è scritto a scopo di lucro.
Note: Primo tentativo in assoluto di indagare il Draco del sesto libro, oltre che prima Draco/Theo. *_*
Ambientata durante il sesto libro, ovviamente; la frase "L'unica cosa su cui puoi contare è che non puoi contare su nulla", di cui trovate varie versioni come intermezzo, è la traduzione di un verso della canzone Plasticine dei Placebo.
L’unica cosa su cui puoi contare
È il momento giusto. Ora, appena finita la cena, è il momento più opportuno per mischiarsi alla calca di studenti e raggiungere il settimo piano senza dare nell’occhio.
Sei da solo. Tiger e Goyle mancheranno anche ‘stasera, ma non ha importanza. La Stanza delle Necessità ti protegge quanto basta per garantirti tranquillità. E poi, sei un mago abile, molto abile, e durante l’estate lo sei diventato ancora di più. Puoi badare a te stesso da solo, persino se qualcuno dovesse riuscire ad entrare. Sai difenderti, o almeno lo credi.
L’unica cosa su cui puoi contare è che non puoi contare su nulla.
E, ancora una volta, mentre tutti gli altri tuoi coetanei saranno impegnati in partite di Scacchi Magici, chiacchierate e risate, tu dovrai restare sepolto in quella stanza che ormai detesti, a lavorare, ad assolvere un compito che nemmeno sei più sicuro di voler portare a termine.
Non lo faresti se Lui non avesse il coltello dalla parte del manico. Avresti già mandato tutto all’aria da un pezzo, se non continuassi a sognare ogni notte, ogni notte, tua madre in preda agli spasmi della Cruciatus. Lei si fida di te. E tuo padre sarebbe dannatamente orgoglioso se tu riuscissi nell’impresa: riabiliteresti definitivamente il nome dei Malfoy, le macchie sarebbero lavate via.
I tuoi genitori contano su di te.
Ma l’unica cosa su cui tu puoi contare è che non puoi contare su nulla.
Ed ecco, un’altra serata è passata, un’altra notte è arrivata. Di nuovo si è rivelato tutto inutile. Non hai ancora concluso niente, ma devi proprio interrompere, il mal di testa lancinante non ti dà tregua.
E allora forza, percorri la strada in senso inverso, torna giù nei sotterranei. Questa volta, devi far attenzione a come ti muovi, devi evitare il minimo rumore… perché se quel gattaccio spelacchiato arrivasse, cosa diresti a Gazza per giustificarti? E, peggio, riusciresti a sopportare le domande di Piton un’altra volta?
No: bisogna proprio evitare di essere scoperti.
Cammini nascondendoti tra le ombre e, inevitabilmente, pensi all’ombra che tu stesso sei diventato. Quando, di sfuggita, il tuo viso si riflette nelle armature tirate a lucido quasi stenti a riconoscerlo. Ti chiedi se è possibile che del bambino viziato, amato e arrogante che eri, sia rimasto solo un fantasma, solo una leggera maschera che ti sistemi sul viso di tanto in tanto, col cuore in gola, perché rischia di volare via da un momento all’altro, come una foglia secca aggrappata all’albero morto delle certezze.
E così, l’unica cosa su cui puoi contare è che non puoi contare su nulla.
Hai provato a parlarne con qualcuno. Ma l’orgoglio è sempre lì, dentro di te, a spadroneggiare liberamente. E chiedere aiuto significherebbe rivelare di non riuscire, di essere un incapace.
Significherebbe sputare in faccia alla fiducia di tua madre e all’approvazione di tuo padre. Significherebbe mostrarsi debole e perdere anche quel piccolo straccio di importanza che sei riuscito a conquistarti tra i Serpeverde. Già lo vedi, Blaise, ridere e prenderti in giro per il fallimento. Già la vedi, Pansy, piangere e disperarsi, immaginando la fine più nera.
No, non sarebbe utile, non lo sarebbe per nulla. Meglio tacere e tenersi tutto dentro.
E ricordare che l’unica cosa su cui puoi contare è che non puoi contare su nulla.
Hai raggiunto la Sala Comune. La parete si apre e la luce delle lampade, seppur fioca, ti stordisce per un momento. È per questo che non lo vedi, inizialmente. Cammini dritto, con gli occhi socchiusi, e sobbalzi in modo visibile quando senti la sua voce.
“Draco.”
No, non vuoi. Non vuoi parlarci, non con lui. Potrebbero esserci milioni di persone lì, al suo posto, e tu saresti perfettamente in grado di indossare la tua preziosa maschera e fingere, fingere, fingere. Ma con Theodore Nott è tutto inutile. Con Theodore Nott, maledizione, non ci riesci.
“Sei stato nella Stanza anche ‘stasera?”
“Fatti gli affari tuoi.”
Vuoi liquidarlo e andartene, chiuderti dietro le tende del letto e dormire, o almeno fingere. Ieri - e il giorno prima, e quello prima ancora - avete litigato. Ormai non fate altro e non ne sei affatto felice; anzi la situazione ti pesa fin troppo, perché prima tra voi era diverso ed era bello.
Adesso, invece, non passate un minuto nella stessa stanza senza urlarvi addosso, insultarvi, sbattere porte. E c’è tensione tra voi, e cercate in ogni modo di ferirvi l’un l’altro. E tu, stasera, non riusciresti a sopportarlo, non vuoi sopportarlo.
Theodore, però, si è già avvicinato troppo. È a un passo da te e il suo volto è serio, severo.
“Lo so che ci sei stato, non fare il coglione. Ci stai riuscendo?”
I suoi occhi cercano i tuoi, ma tu sposti lo sguardo. Ti senti troppo stanco per sostenere anche quel peso - quello della delusione, della paura, dell’accusa.
“Ti ho detto che non sono affari tuoi.”
Affili la voce come una lama e speri di averlo colpito. E poi gli volti le spalle, tenti di allontanarti, ancora una volta fuggendo.
E come vedi, l’unica cosa su cui puoi contare è che non puoi contare su nulla.
La sua mano sul polso ti blocca. Senti le gambe cedere al calore di quel contatto inaspettato, che non è violento, non è cattivo, ma semplicemente saldo. Come un’ancora lanciata, che ti ha afferrato e non ti lascia andare via.
Ti volti e lo guardi finalmente negli occhi; lo stomaco ti si contrae, perché ti sono mancati, quegli occhi, ti è mancata la loro luce. Poi, Theodore fa qualcosa che ti spiazza completamente, qualcosa a cui non eri preparato, che ti mozza il respiro: ti abbraccia.
Avverti le sue mani scivolare sulla schiena e il suo respiro infrangersi sul collo. È così vicino che il calore che emana prende possesso del tuo corpo all’istante, diffondendosi di cellula in cellula e scacciando via il gelo della notte. Ti aggrappi a lui, proprio come lui è aggrappato a te, e ti rilassi, finalmente ti concedi una pausa. E senti chiaramente il battito del suo cuore accelerare, esattamente come il tuo, e la presa attorno a te farsi più ferrea.
“Merlino, perché devi sempre metterti nei casini?” mormora contro la tua pelle. “Ti odio, Draco, ti odio da morire.”
E tu chiudi gli occhi e lo stringi più forte, aspiri il suo profumo come se fosse ossigeno e, istintivamente, gli accarezzi i capelli. Vorresti tranquillizzarlo, vorresti trovare le parole giuste, ma tutto quello che viene fuori è un pallido “Mi dispiace” senza solidità.
Theodore, lentamente, ti libera dalla presa, si allontana di qualche passo e torna a guardarti in viso. Scuote la testa e sembra indugiare, attraversato da un pensiero improvviso, con un mano sulla tua guancia e lo sguardo posato sulle tue labbra. Ma il pensiero passa, forse scacciato con forza, e la sua mano abbandona la tua pelle con una carezza lieve.
Si volta e si dirige verso il corridoio dove sono le vostre camere. Pensi che avrai freddo, ora che non c’è più, che sarà come essere esposti all’improvviso ad una raffica di vento, ma, inaspettatamente, non succede. È come se il suo calore fosse rimasto sulla tua pelle, fuso con il tuo corpo.
A poco a poco riprendi a muoverti e ti avvii dietro di lui. Raggiungete la porta del vostro dormitorio in silenzio, completamente immersi nel buio del corridoio.
Ed è poco prima che entriate nella stanza, quando lui, con la mano sulla maniglia, si volta e ti dice, in un sussurro: “Andrà tutto bene”, che ne hai la certezza. L’indistruttibile certezza.
L’unica cosa su cui puoi contare è, semplicemente, lui.