Titolo: Wayward One
Autore: justhedley
Fandom: Hunger Games
Rating: G
Genere: introspettivo, missing moment
Avvertimenti: one-shot
Prompt: 184. Quando la storia si ripete
Riassunto: Hazelle sbatté le palpebre, tornando a concentrarsi sul figlio. La rabbia segnava ancora gli occhi di Gale, che si era alzato dalla sedia, incapace di restare immobile.
“E se l’anno prossimo ci prendono Rory?” chiese ancora, fissando con insistenza la madre. “E se chiamano Vick? Non potrò offrirmi volontario per tenerli a casa. Dovrei starmene zitto? Dovrei lasciarli andare?”
Wayward One.
Tra i volti delle donne che avevano atteso assieme a lei le notizie dei mariti ancora sepolti sotto le miniere, Hazelle ne ricordava tre in particolare. Erano i volti delle uniche donne che avevano potuto riabbracciare i loro mariti, quella sera. I tre minatori avevano terminato da poco il loro turno di lavoro ed erano appena giunti in superficie quando l’esplosione li aveva sorpresi: si erano salvati. Erano sconvolti e feriti, ricoperti di carbone, ma vivi. Hazelle li aveva guardati più e più volte, nella speranza di riconoscere tra quelle figure scosse da conati di tosse e di vomito la presenza di suo marito, ma era stata costretta ad arrendersi quando le mogli li avevano raggiunti. Una ad una si erano lasciate cadere a terra per toccarli, per abbracciarli, per assicurarsi che fossero lì sul serio. Circondata dal dolore di altre persone come lei, che ancora supplicavano silenziosamente la bocca delle miniere di sputare fuori i loro uomini, i loro mariti e figli, Hazelle non era riuscita a distogliere lo sguardo da quelle tre donne. Avevano gli occhi che urlavano sollievo, ma tenevano il capo chino e le lacrime rigavano silenziose i loro volti, mentre le loro mani stringevano con forza quelle dei mariti. Lottavano per non lasciarsi sfuggire un sospiro, un sorriso, un grazie rivolto a qualcuno in cui nemmeno credevano. Perché sapevano che non fosse giusto lasciarsi cullare dal sollievo, non di fronte alle espressioni cariche di stordimento e dolore delle donne che come loro erano madri, figlie e mogli, ma che non avrebbero trovato conforto tra le braccia delle persone che amavano e che avevano salutato quel mattino, prima di vederle incamminarsi verso le miniere.
In quel momento Hazelle si sentiva come cinque anni prima dovettero essersi sentite quelle donne. Alzò lo sguardo e lo specchio le restituì il suo riflesso, attraverso un sottile strato di carbone. Analizzò con aria stanca le ombre nere che le contornavano gli occhi grigi e le proprie guance magre, ancora segnate dalle tracce di lacrime ormai asciutte. Il ricordo dell’espressione sgomenta della signora Everdeen era ancora vivido nella sua mente e non accennava a sfumare, così come quello dello sguardo rassegnato di Katniss, mentre la ragazzina saliva sul palco della mietitura al posto di Prim. O quello del volto del ragazzo dei Mellark, più in carne e in forze dei suoi figli, ma non per questo meno spaventato o meno indifeso di loro. Non era giusto, Hazelle lo sapeva. Non era giusto provare sollievo, stringersi nelle braccia e tornare a respirare regolarmente, nel sentir gridare da Effie Trinket il nome di un ragazzo che non era il proprio. Non era giusto riconoscere lo sgomento nello sguardo di un altro genitore e la tensione allentarsi nel proprio corpo. Il senso di colpa era forte, proprio come doveva esserlo stato per le tre donne che avevano stretto i propri mariti tra le braccia quella sera di cinque anni prima, sotto lo sguardo di chi aveva appena perso tutto.
Hazelle cercò di indirizzare i propri pensieri verso i suoi figli, sperando di dimenticare le urla di Prim Everdeen, mentre veniva portata via da sua sorella. Pensò ai suoi bambini; a come il silenzio che regnava in casa fosse dovuto solo al fatto che stessero tutti dormendo, nella stanza accanto. Gale era salvo, Rory sarebbe rimasto con lei almeno per un altro anno e Vick per altri due. Per Posy c’era ancora tempo. Era una magra consolazione, ma in quel momento, con gli occhi spenti della signora Everdeen ancora ben delineati nella sua mente, quel pensiero valeva ben più di quanto avrebbe potuto aspettarsi quel mattino.
Un rumore leggero alle sue spalle la spinse a voltarsi. Gale chiuse la porta d’ingresso e si lasciò cadere su una sedia, senza nemmeno togliersi il giubbotto. Hazelle non lo vedeva dal primo pomeriggio, quando avevano accompagnato a casa Prim e la signora Everdeen. La donna era stata costretta a rincasare dopo un paio d’ore, per poter preparare qualcosa da mangiare ai bambini, ma Gale doveva essere rimasto da loro fino a quel momento. La donna sospirò, prima di avvinarsi al tavolo per sedersi accanto a lui, aspettando l’occasione buona per incominciare a parlargli. Suo figlio aveva i gomiti sul tavolo e la fronte appoggiata sulle mani serrate a pugno: il suo sguardo era imperlato dalla stessa sfumatura di rabbia e di dolore che gli aveva velato gli occhi il giorno in cui suo padre era morto. Hazelle lo guardò a lungo, sfiorandogli delicatamente i capelli con la mano. Riuscì a incrociare per poco il suo sguardo e seppe all’istante che avrebbero voluto piangere entrambi, ma non potevano e non l’avrebbero fatto. Nemmeno in quel momento, anche se erano soli. Anche se c’erano solo loro due a farsi forza l’un l’altra, proprio come quella sera di cinque anni prima.
“Hai mangiato qualcosa?” chiese infine la donna, senza sforzarsi di nascondere l’apprensione nel suo tono di voce. Gale non rispose. Hazelle si alzò per andare a prendere gli avanzi della cena, ma il figlio scosse bruscamente il capo, tirando la schiena all’indietro.
“Non ti preoccupare, non ho fame.”
La madre sospirò, tornando a sedere.
“Come stanno loro?” chiese infine. Gale distolse lo sguardo dalla donna, tornando a cingersi il pugno chiuso con l’altra mano.
“Non bene” mormorò infine. “Prim ha smesso di piangere solo ora. Ho aspettato che si addormentasse, prima di andare via. Sua madre… Non lo so” commentò infine, passandosi una mano fra i capelli. “Forse riuscirà a non lasciarsi andare. Per ora. Finchè Katniss resta…”
Non concluse la frase. Si limitò a respirare a fondo, cercando di mantenere il controllo. Fu in quel frangente che Hazelle lo vide, appoggiato alla sedia con la stessa espressione stanca e i capelli arruffati del figlio: suo marito. Lo vide mentre congiungeva le mani sporche di nero, imprecando a denti stretti contro la fatica e le ingiustizie che regnavano in miniera.
“Ho lasciato a loro le fragole e il pane” proseguì Gale, voltandosi verso la madre. “Ho tenuto i due pesci che erano per noi e la nostra parte di sale e paraffina. Gli ho lasciato anche i soldi…” proseguì, con un principio di esitazione nel tono di voce. La determinazione del suo sguardo si affievolì, lasciando il posto a un barlume di insicurezza. Sembrava aspettarsi un rimprovero, ma l’espressione di Hazelle non mutò. Non sorrise, ma nemmeno apparve sorpresa o turbata.
“Ho dovuto farlo” dichiarò il ragazzo.
“Lo so.”
“Domani me ne procurerò altri.”
“Lo so, Gale” ripeté ancora Hazelle, accarezzandogli materna una guancia. “Non sono arrabbiata.”
Gale sospirò, passandosi una mano fra i capelli arruffati. Tornò ad appoggiare la fronte contro le dita intrecciate, sotto lo sguardo preoccupato di Hazelle: lui sì. Lui era arrabbiato.
“Non so che cosa fare” mormorò infine il ragazzo. La determinazione che era solita tracciare il suo sguardo resisteva, ma la madre notò ugualmente lo smarrimento e il dolore nei suoi occhi. D’un tratto ebbe paura per lui. Con i suoi diciotto anni Gale era ormai un uomo, ma nemmeno gli adulti erano esentati dalla confusione e dalla paura che comportava l’affrontare la perdita di qualcuno. Suo figlio aveva paura e non c’era nulla che potesse fare per aiutarlo a superare il dolore per l’allontanamento di Katniss.
“Certo che lo sai” lo smentì la madre, parlando in tono di voce fermo. “Ti comporterai come hai sempre fatto. Andrai a caccia, ti prenderai cura di te stesso e dei tuoi fratelli. Aiuterai Prim e la signora Everdeen. Le abitudini, le persone che ami e quelle che hanno bisogno di te: sono queste le cose che ti salvano quando soffri, Gale” proseguì la donna, addolcendo il tono di voce. “Resta te stesso. Resta in piedi, Fallo per te, per Katniss e per i tuoi fratelli. Fallo per tuo padre” aggiunse, concedendosi un lieve sorriso malinconico.
Lo osservò fissare con rabbia il nulla, i pugni ancora serrati e le spalle rigide. Hazelle riconobbe all’istante quell’atteggiamento. Ripensò al marito e alle volte in cui Joel rimaneva in silenzio per trattenere la rabbia. Hazelle sapeva sempre quando era sul punto di esplodere e con il tempo aveva imparato a mitigare i suoi scoppi d’ira, sostenendolo e calmandolo quando il suo atteggiamento da testa calda prendeva il sopravvento. Poteva solo sperare che suo figlio, un domani, avrebbe avuto accanto una persona in grado di fare lo stesso con lui. C’erano giorni in cui avrebbe preferito che gli somigliasse meno; sarebbe stato più semplice guardarlo, cercare di consolarlo, di parlare con lui senza avere costantemente sotto gli occhi lo sguardo fiero e determinato di suo marito.
“Prim e la signora Everdeen se la caveranno, vedrai” cercò di rassicurarlo, tornando ad accarezzargli una guancia. “Le aiuteremo noi.”
Gale scosse il capo.
“Non basta” ribatté asciutto, appoggiando i pugni sul tavolo. “Non basta, io la rivoglio indietro. Sono stanco di come ci prendano sempre tutto” dichiarò in tono di voce più alto, sotto lo sguardo apprensivo di Hazelle. “Prima papà, adesso lei. Ci buttano nelle miniere e ci fanno lavorare come animali, portiamo a casa quel poco che basta a tenere in vita i nostri figli e poi ce li portano via così. Li mandano in televisione e li uccidono sotto i nostri occhi. Perché?”
“Non c’è una risposta, Gale” rispose ferma la donna. “Lo so che è ingiusto e lo so che fa male essere costretti a guardare senza fare nulla, mentre ti portano via le persone che ami. C’ero anch’io in quella piazza” aggiunse, appoggiando le dita sul mento del ragazzo e facendo pressione perché il figlio ricambiasse il suo sguardo. “Ho visto gli occhi di quella povera donna spegnersi per il dolore una seconda volta, quando hanno fatto il nome di Prim. Ho visto una ragazzina di sedici anni accollarsi l’ennesima responsabilità che mai e poi mai avrebbe dovuto spettare a lei. E c’è stato un momento in cui ho avuto paura per te, perché ho temuto che ti saresti offerto volontario anche tu.”
“L’ho pensato” ammise a bassa voce il ragazzo, distogliendo lo sguardo. “L’ho pensato per un attimo, ma non avrebbe avuto senso. Chi si sarebbe preso cura di voi? E di Prim? Dovevo restare qui.”
“Certo che dovevi restare qui” ribatté la madre un po’ più forte di quanto si fosse aspettata. “Come avrei fatto senza di te?”
Hazelle sapeva perfettamente che se Gale o Rory fossero stati estratti per la mietitura, non avrebbe impiegato molto a fare la fine della signora Everdeen. Quando era morto Joel era riuscita a superare il dolore solo perché aveva una gravidanza da gestire e tre figli da accudire. Aveva colmato quel vuoto con lo sfregare della lenzuola sulle assi, con le mani tremolanti dei figli che si insinuavano nella sua e con i pianti estenuanti della piccola Posy. C’erano stati dei giorni in cui aveva faticato ad aprire gli occhi la mattina quando, allungando la mano lungo il materasso, aveva trovato l’altra parte del letto fredda e vuota. Si era rialzata ogni volta lo stesso, la mattina presto e durante la notte, per lavorare e per vegliare sul sonno dei suoi figli, quando erano malati. Ma sarebbe riuscita a fare altrettanto se le avessero portato via uno dei bambini? Come ci si rialza, quando si perde un figlio? Con che coraggio si aprono gli occhi, si affronta una giornata, si vive? E in che modo avrebbe ancora potuto guardare in faccia la signora Everdeen senza provare al tempo stesso dolore e riconoscenza, nel sapere che i suoi figli erano a casa al sicuro, mentre la sua rischiava di morire ogni giorno?
Tornò ad analizzare con apprensione il volto stanco e gli occhi furenti del suo primogenito.
“Perché ci lasciano, mamma?” chiese infine Gale, chinando lo sguardo, come se provasse vergogna delle sue stesse parole. “Perché ce li portano via tutti?”
Hazelle sospirò, accarezzandolo tristemente con lo sguardo: ancora una volta non aveva risposte per lui. Il male sembrava sempre attecchire sempre sulle persone che se lo meritavano di meno ed era sempre stato difficile per Gale accettare il fatto che non potesse fare nulla per impedirlo.
“Non lo so, amore” mormorò infine, sistemandogli un paio di ciocche ribelli sulla fronte, come faceva spesso quando era più piccolo. “Non lo so.”
Rimasero entrambi in silenzio per qualche istante. Lo sguardo di Gale ricadde sul vecchio televisore all’angolo, semi-illuminato dalla luce fioca delle candele.
“E noi lasciamo che ci trattino così” concluse infine, con’espressione d’un tratto risentita. Strinse le mani a pugno e tornò a voltarsi verso la madre. “Perché nessuno fa niente, perché ci strappano via tutto e noi non reagiamo?” sbottò secco, battendo un pugno sul tavolo. La donna trasalì.
“Gale” mormorò in tono di rimprovero, scoccando un’occhiata alla porta che dava sulla camera da letto dei figli. Ancora una volta Joel Hawthorne si fece spazio fra i suoi pensieri, usando lo sguardo del suo primogenito come tramite. Le parole che aveva usato Gale non erano poi così distanti dalle frase cariche di rancore che il marito pronunciava nei momenti di collera, quando qualcuno rimaneva ferito o perdeva il lavoro nelle miniere. Quando un collega moriva o perdeva un figlio per gli stenti, un incidente o una malattia. Quando le ingiustizie si imbattevano sulla gente del Giacimento.
“… Ti ricordi di Deev, quel ragazzo che ti ha sostituito in miniera quando eri incinta di Rory?”
La voce di Joel era tranquilla, ma c’era una nota di astio, nelle sue parole, che ad Hazelle non sfuggì.
“C’è stato un incidente, oggi. Una parete è crollata e lui e un collega si sono trovati travolti dalle rocce. Siamo riusciti a tirarli fuori in tempo, ma Deev ha una gamba completamente fatta a pezzi”concluse secco l’uomo, scuotendo il capo e passandosi una mano fra i capelli arruffati. “Non può tornare in miniera in quelle condizioni. Sua moglie è malata e i suoi figli vanno ancora a scuola, come diamine farà a dar loro da mangiare? Sono bambini piccoli, potrebbero avere l’età dei nostri due” aggiunse, guardandosi le mani sporche di carbone. Hazelle riconobbe nei suoi occhi grigi la venatura di rabbia che a breve l’avrebbe portato ad esplodere.
“Lo sai perché ci trattano così, Haze?” domandò infatti poco dopo, voltandosi verso la moglie. “Lo sai perché ci costringono a lavorare in quelle condizioni? Perché non reagiamo, ecco perché” sbottò improvvisamente, alzando il tono di voce. “E non voglio questo per Gale e per Rory. Non voglio che siano costretti a spaccarsi la schiena per un po’ di pane, che rischino la vita tutti i giorni, lavorando dodici ore là sotto.”
“Joel…” Hazelle gli sfiorò la spalla con delicatezza, risalendo poi lungo il collo. “Calmati.”
“Perché?” ribatté il marito, battendo un pugno chiuso sul tavolo. “Perché se mi sentono mi sbattono in prigione? Sarei punibile dalla legge solo perché amo i miei figli e sogno una vita decente per loro? Sono i nostri figli, Haze” ribadì, fissando con insistenza la moglie. “I nostri figli.”
“Shhh.”
Hazelle scosse il capo, prima di intervallare le sue parole cariche di rancore con un bacio. Joel la lasciò fare, ritirando i pugni dal tavolo per avvicinare a sé la moglie, cingendole i fianchi con le mani. Hazelle scostò appena le labbra dalle sue per guardarlo negli occhi, sfiorandogli con tenerezza una guancia.
“Arrabbiandoti così non risolvi nulla” mormorò infine con sguardo determinato. Joel annuì; appoggiò per un attimo la fronte contro quella della moglie, estinguendo la rabbia in un ultimo sospiro rassegnato. Nello scostarsi da Hazelle notò una figurina minuta appoggiata alla porta della camera da letto. Gale li stava squadrando con espressione preoccupata, gli occhi grigi puntati contro quelli identici del padre: il suo sguardo era serio e attento. Aveva appena compiuto sei anni, eppure per certi versi sembrava già un uomo.
Joel gli sorrise, battendosi una mano sulla gamba.
“Vieni qui, ragazzo.”
Gale obbedì. Attraverso la cucina a passo svelto e si issò sulle ginocchia del padre, che gli arruffò giocosamente i capelli.
“Hai tenuto d’occhio tua madre e Rory per me, mentre ero via?” chiese, recuperando l’elmetto da lavoro del bordo del tavolo per metterglielo in testa.
“Sissignore!”
Gale annuì fiero ed Hazelle rise, osservando gli occhi chiari di suo figlio scomparire sotto il casco. “Ti assomiglio con questo in testa, papà?” chiese il bambino da sotto l’elmo, scoprendosi gli occhi e sorridendo alla madre. Le labbra di Joel si incresparono per dare origine a un sorrisetto divertito.
“Sei la mia copia sputata, te lo garantisco” dichiarò, incrociando lo sguardo della moglie. “Difetti inclusi”
“Soprattutto i difetti” gli diede man forte Hazelle, sorridendo intenerita al bambino. Gale fece spallucce.
“Sono contento” dichiarò fiero, sollevando il capo per poter guardare il padre negli occhi. “Io voglio essere come te” rivelò, togliendosi l’elmetto per metterlo in testa all'uomo. Joel gli sorrise, tornando ad arruffargli i capelli.
“Non so se sia un bene per tua madre avere in casa un altro come me” osservò con un guizzo divertito nello sguardo, ammiccando poi alla moglie. Hazelle rise di nuovo.
“Finché non mi fate arrabbiare va tutto bene” concluse, chinandosi in avanti per baciare entrambi. Quando si alzò per andare a controllare Rory nella stanza accanto si accorse che Gale stava sussurrando qualcosa nell’orecchio di Joel.
“Non farò mai andare Rory nelle miniere” lo sentì dire, in un mormorio sottile che era indirizzato soltanto al padre, ma che Hazelle riuscì ad udire lo stesso. “Te lo prometto.”
Hazelle sbatté le palpebre, tornando a concentrarsi sul figlio. La rabbia segnava ancora gli occhi di Gale, che si era alzato dalla sedia, incapace di restare immobile.
“E se l’anno prossimo ci prendono Rory?” chiese ancora, fissando con insistenza la madre. “E se fra due anni chiamano Vick? Non potrò offrirmi volontario per tenerli a casa. Dovrei starmene zitto? Dovrei lasciarli andare?”
“Basta così, Gale” mormorò infine la donna, stringendogli con fermezza una spalla. “Hai bisogno di dormire adesso.”
Gale si ritrasse alla sua presa e scosse il capo, distogliendo bruscamente lo sguardo.
“Non ho sonno.”
Hazelle ignorò il gesto scostante del figlio e rimase al suo fianco, aspettando che si calmasse. Passò quasi un minuto, prima che Gale si lasciasse andare ad un ultimo sospiro di rassegnazione.
“Scusami” mormorò infine, indirizzando una breve occhiata alla madre. Hazelle annuì, analizzando con sguardo triste la stanchezza ancorata nel volto del figlio.
“Vai a dormire, Gale” mormorò con dolcezza, appoggiandogli una mano sull’avambraccio. Gale si arrese; baciò la madre sulla guancia e sparì nella stanza a fianco. Il mattino successivo, tuttavia, Hazelle lo trovò nuovamente in cucina, con i gomiti appoggiati al tavolo e gli occhi rossi di chi non vuole piangere, né dormire, ma solo aspettare. Non disse nulla, perché lo capiva; lo aveva fatto anche lei per giorni, settimane - forse mesi - in seguito alla morte del marito. Ogni tanto si sorprendeva ancora ad attendere il ritorno di Joel, si aspettava di trovarselo seduto in cucina, con il suo sorriso un po’ storto e lo sguardo sempre impegnato ad inseguire i movimenti e i gesti dei suoi figli. In quei momenti le era capitato più volte di ripensare a una vecchia frase del marito: c’era sempre chi andava via troppo presto e quasi tutti, con il tempo, imparavano ad accettarlo. Ma c’era anche chi a quegli abbandoni reagiva con rabbia, ribellandosi e lottando contro la rassegnazione. C’erano persone che non volevano arrendersi perché non ci si può sottomettere a qualcosa, se non la si ritiene giusta: suo figlio Gale era una di quelle persone.