Titolo: Petit Papier (terza ed ultima parte)
Beta:
aleenchain ,
alexbnr Genere: sentimentale, angst, comico a tratti
Rating: R
Challenge:
Bridge Challenge Opposizione: storico/ucronia
Personaggi: Francia, UK (Canada, America, Australia, vari ed eventuali)
Parole: 14,126 (W) in totale
Disclaimer: di Hidekaz Himaruya.
Avvertimenti: E' Axis Powers Hetalia. Se vi potete ritenere offesi dall'idea, non leggete, grazie^^. Inoltre, linguaggio scurrile in certi punti e shonen-ai.
Note sulla fic e Note storiche:
qui.
America era esattamente come Francia lo ricordava: rumoroso, sorridente, ingombrante, tanto colorato e solare da far male agli occhi. La guerra in Europa e Asia lo sfiorava appena e comunque non abbastanza da turbare il suo perenne buonumore.
O forse era solo la sua patentata stupidità a fargli da scudo.
Inghilterra condusse gran parte del discorso, di fianco al suo boss; Francia lasciò fare a lui, come aveva deciso mesi prima, aggiungendo appena qualche commento quando lo riteneva necessario. E per non dare troppo l'idea che il capo fosse il Regno Unito.
Era strano, in un certo senso, vedere Inghilterra così dimesso e controllato in presenza della propria ex-colonia; generalmente, gli insulti, i commenti acidi e le urla indignate non si sprecavano, mentre quel giorno mancarono completamente. Inghilterra, rigido ma non evidentemente a disagio, timoneggiò con cura il discorso, come se fosse stato un vecchio veliero che conosceva da anni, lasciando ad America abbastanza spazio per dichiarare la propria eroicità varie volte e con soddisfazione; rifiutò di farsi coinvolgere in discorsi inutili e potenzialmente pericolosi e si tenne a discreta distanza da ogni menzione di fatti passati, vicini o lontani. Finita la giornata, Francia poteva dire con una certa sicurezza che l'Unione aveva appena passato con successo uno stretto irto di scogli, forte di un ottimo timoniere.
Mentre i loro boss discutevano sui dettagli della dichiarazione congiunta da rilasciare alla stampa, Francia si rilassò sulla poltroncina, esalando un respiro soddisfatto. Vedendo Inghilterra così cauto, quasi remissivo, non poteva fare a meno di chiedersi se anche lui sembrasse tale, di fianco al Regno Unito; se la paura di essere abbandonato a se stesso (petit papier o meno) non lo spingesse a comportamenti sottomessi per non irritare Inghilterra; se l'ansia con cui aveva atteso l'entrata in guerra di Inghilterra nel '14 non fosse identica a quella con cui ora lui guardava America; se questo non facesse della sua nazione l'ultima ruota del carro.
Il pensiero non gli garbava più di tanto: da un lato, lui era pur sempre la Repubblica Francese e aveva una certa immagine da mantenere; dall'altro, sapeva che reprimere i propri sentimenti non era mai una buona idea, checché ne dicesse Inghilterra. Se si fosse frenato troppo, anche senza rendersene conto, prima o poi sarebbe esploso.
In quella, America si avvicinò al suo lato del tavolo, sedendovisi sopra.
“Allora, ho sentito che vi siete sposati!” esclamò, ridendo. “Ti farei le mie congratulazioni, se non sapessi quanto è orribile vivere con Inghilterra!”
Francia, con la coda dell'occhio, vide la Nazione in questione stringere la presa sulla penna che aveva in mano, fino a spezzarla.
“Comunque, visto che tu mi hai dato una mano a diventare indipendente...” continuò America senza smettere di sorridere, mentre il volto di Inghilterra diventava color prugna. “Quando hai bisogno, chiamami e verrò a salvarti da quel brutto ceffo!”
“La tua faccia tosta è grande quanto la tua stupidità!” ringhiò Francia, cercando di non irritarsi troppo; incapace di trattenersi, però, afferrò un tramezzino lì vicino e lo infilò con stizza in bocca ad America. “Perché invece non vieni a levarmi da piedi Germania, America?”
La frase dell'altra Nazione, per nulla turbata, si perse in una serie di mugoli incomprensibili, ma che sicuramente contenevano la parola 'eroe'.
Inghilterra scosse la testa alla stupidità dei propri alleati. Francia, aggiungendo un secondo tramezzino, rise.
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C'era un'altra particolarità dell'atteggiamento di Inghilterra che stava diventando sempre più palese man mano che la serata avanzava: faceva del suo meglio per ignorare America e concentrarsi sul proprio bicchiere, di modo da non farsi irritare dalla sua mera presenza nella stanza. Ogni tanto, però, lo sguardo gli scivolava sull'altra Nazione e lì si soffermava (soprattutto dopo che riuscì effettivamente a bere il contenuto di suddetto bicchiere qualche volta di troppo). Le emozioni sul suo volto erano pacate, stanche, soffocate da un telo di tristezza, ma non reprimibili completamente.
Inghilterra voleva America, o forse qualcosa da America, ma Francia non credeva che si trattasse di un'alleanza militare; d'altro canto, non sembrava nemmeno desiderio fisico. Era solo... un vago anelito, magari per la colonia che ormai non esisteva più, o solo per una felicità provata un tempo con essa, piuttosto che per la colonia di per sé.
Francia si chiese se anche sul suo volto a volte si vedesse quell'espressione, per poi ricordarsi che non riuscire a lasciarsi il passato alle spalle era una prerogativa di Inghilterra, non sua.
Santo cielo, finita la guerra sarebbe stata sua priorità insegnare a quell'idiota un paio di cose sulla vita che, nonostante la sua età, pareva ancora non aver imparato; al momento, si limitò a levargli la bottiglia di mano e trascinarlo a dormire.
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La volta dopo che Francia vide America fu ad una riunione a Washington, il gennaio successivo: aveva un braccio fasciato ed un'espressione che non prometteva nulla di buono per il malcapitato che aveva avuto la pessima idea di sfidarlo così apertamente a Pearl Harbor.
Fortunatamente per l'Unione, si trattava di Giappone, il che portava direttamente Germania in guerra con gli Stati Uniti.
Inghilterra comunque rimase così scosso dalla sete di vendetta di America che, una volta che furono al sicuro nella sua cabina, per poco non si dimenticò di brindare alla loro ormai praticamente certa vittoria. Francia avrebbe avuto idee migliori su come festeggiare, ma era troppo esausto per iniziare anche solamente a provare ad attuarle.
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Gli attacchi di tosse si facevano sempre più frequenti. Francia temeva il giorno in cui il sangue sarebbe stato troppo perché il fazzoletto lo coprisse alla vista di Inghilterra. Fortunatamente, l'altra Nazione sembrava troppo impegnata a gestire le sue truppe in mezzo mondo e a litigare con America a proposito di suddetta gestione per accorgersene.
Gli sembrava di stare morendo di consunzione; una cosa piuttosto ridicola, a suo parere, ma conosceva bene gli effetti della malattia. Ironico, essere ucciso da dentro, ucciso dal suo stesso corpo, che si ribellava; ironico ed appropriato.
Non era la morte che lo spaventava, in verità, ma il cominciare a pensare che essa fosse un'opzione migliore della vita.
Era la dimostrazione che l'opinione di Inghilterra, in tutti quei secoli in cui si erano combattuti, era stata corretta.
A che livelli infidi poteva giungere la sua codardia?
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“Credo Giappone stia puntando a Singapore.”
Francia alzò gli occhi dal suo libro e guardò stancamente Inghilterra, chino sull'ennesima cartina dell'ennesimo fronte sul quale combattevano; ma non si fermava mai?
Sospirò, prendendosi del tempo per apprezzare il fondoschiena dell'altra Nazione, sottolineato dalla sua posizione. “Suppongo cercherà presto di entrare in Malesia. E' senza materie prime.”
“Sì. Com'è la situazione in Indocina?”
“Pessima.”
Inghilterra sbuffò, premendosi due dita sugli occhi, come per scacciare un mal di testa imminente.
“Non possiamo assolutamente permettere che Singapore cada.”
“No.”
Inghilterra si girò e guardò Francia direttamente negli occhi. “Cosa facciamo?”
“Cosa dicono i tuoi Generali?”
“Sperano di tenerlo alla larga con la minaccia di qualche corazzata, ma...” Inghilterra strinse le labbra e non finì la frase.
Francia si alzò in piedi con qualche difficoltà e gli si avvicinò, scrutandolo con attenzione. “Non è da te, non avere fiducia nella tua Marina.”
“Non è questione di fiducia.” sbottò l'altro. “Ma i tempi cambiano; Giappone non si farà spaventare da una fleet in being... Non è abbastanza oggettivo da avere paura. Il grosso delle mie truppe coloniali si sta organizzando in India e non ci sono uomini, armi, mezzi, non c'è niente! Se Singapore cade siamo nella merda!” Inghilterra terminò la frase urlando, e sbatté furioso un pugno sul tavolo.
“A volte mi chiedo dove la trovi, tutta questa energia... Poi mi ricordo che non ci sono tedeschi, sulla tua isola.”
Inghilterra si irrigidì immediatamente, per poi guardarlo con astio.
Francia scosse la testa, troppo stanco per irritarsi, con se stesso o con l'altro; cosa diavolo gli era saltato in mente, di dire una cosa del genere?
“Vado io.” disse, raccogliendo il libro che aveva appoggiato sul tavolo e facendo per andarsene.
“Come?”
“Vado in Indocina. Se riusciamo a sfondare il fronte lì, può essere che i Giapponesi si concentrino su di noi piuttosto che su Singapore. Conto su Birmania per coprirmi le spalle.”
Inghilterra lo guardò come se gli fosse cresciuta una seconda testa. “Ma...”
“O al massimo, ritirerò truppe e mezzi nelle tue colonie. Forse insieme riusciremo a resistere meglio, anche se questo vuol dire regalargli qualche chilometro quadrato di terreno.”
Francia si fermò sulla porta, appoggiandosi allo stipite, leggermente chino in avanti. “Una cosa, però, Angleterre.” fece una pausa, recuperando fiato. “Se torno...”
“Se t...” iniziò Inghilterra, quasi indignato, ma Francia sollevò una mano per farlo stare zitto.
“Se torno, promettimi di organizzare l'invasione della mia parte metropolitana. Promettimi di liberare Parigi.”
Inghilterra aprì la bocca, arrossendo furiosamente, come per mettersi ad urlare, ma l'espressione sul volto di Francia lo azzittì nuovamente e gli fece abbassare gli occhi, pieno di vergogna. Francia sorrise, troppo stanco per prendersela a male.
“Vedi se riesci a convincere Olanda a darmi una mano, va bene? Gli conviene, se non vuole trovarsi le mani piene di giapponesi in qualche mese.”
“Se Giappone dovesse catturarti...”
“Cadrò per il nostro glorioso impero.” Francia rise. “Ti lascio le mie colonie in eredità. Salutami Canada, se lo vedi.”
“Fra...”
“République française, if you please. No, aspetta... Anche se a te non garba, a dire il vero.” E con un cenno della mano, minimo quanto teatrale, uscì dalla stanza.
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Se la situazione in Europa non era delle migliori, almeno per quanto riguardava la Francia metropolitana, il sud-est asiatico stava rapidamente diventando l'inferno in terra. Dopo aver salvato all'ultimo momento le navi della marina inglese a Singapore, Francia si stava rendendo conto che, se America non interveniva in fretta, per lui e Olanda non ci sarebbe stato scampo. L'unica buona notizia era che Giappone non pareva aver abbastanza uomini e mezzi per assediare con successo Singapore; questo però non gli impediva di tartassare le indie orientali olandesi ed arrivare perfino a toccare Australia. Quest'ultimo era deciso a difendersi fino alla morte davanti ad una possibile invasione giapponese e si rifiutava categoricamente di mandare truppe a dare una mano al recentemente istituito ABFDACOM, il cui comando era stato affidato ai francesi; Francia aveva comunque l'impressione che, anche se ci fosse stato Inghilterra a capo delle difese, Australia si sarebbe comunque opposto. Maledette colonie. Quando avevano imparato a pensare autonomamente? Lo status di domini aveva montato loro la testa. Inghilterra avrebbe dovuto fare più attenzione; la disciplina di cui si vantava sempre non valeva poi molto.
“Tu fra tutti dovresti sapere cosa vuol dire essere invasi!” gli aveva ringhiato contro il dominio, prima di andarsene sbattendo la porta.
La tosse di Francia stava peggiorando sempre più e il clima umido non lo aiutava per nulla; come se non bastasse, poi, sul petto era apparsa una serie di piccole pustole, estremamente poco attraenti, e il suo volto aveva assunto una sfumatura cinerea che non faceva prevedere nulla di buono. Guardandosi allo specchio, notte insonne dopo notte insonne, non poteva far a meno di chiedersi quanto ancora sarebbe sopravvissuto.
Inghilterra avrebbe permesso ai suoi cittadini di parlare francese, dopo l'annessione dei suoi territori? Oppure, l'avrebbe permesso Germania?
Avrebbero ricordato la sua bandiera, almeno in qualche museo? Avrebbero festeggiato il quattordici luglio?
Avrebbero permesso a Parigi di tenere accese le sue soffici luci, o l'avrebbero soffocata, lasciata ad un lento declino come una città qualsiasi, di poco conto?
E lui, lui l'avrebbe mai rivista, la sua Parigi?
¤¤¤
Il caldo di maggio era asfissiante, con quell'umidità orribile che si appiccicava alla pelle e all'ossigeno, entrava nei polmoni e rendeva inutile ogni tentativo di respirare decentemente.
Sdraiato sul pavimento della propria stanza, Francia cercava di sopravvivere anche quel giorno alla calura di mezzogiorno e provava a ricordarsi perché esattamente avesse scelto quest'orribile luogo per venire a morire.
Non avrebbe potuto seppellirsi ancora vivo sotto Les Invalides? Perché non l'aveva fatto? Non ricordava. Sarebbe stata una buona idea: almeno d'estate era un luogo fresco. Lì, invece, schiacciato dall'orribile clima della città, ogni suo respiro diventava un rantolo senza speranza: l'umidità lo avrebbe certamente ammazzato prima della malattia.
Olanda era accasciato al suo fianco, immobile; non fosse stato per il leggero vibrare delle labbra quando una mosca gli si appoggiava sopra, sarebbe sembrato già morto. Dopo tutte le vicissitudini che li avevano legati, era abbastanza ridicolo che ora fossero lì a morire insieme. Ridicolo, ma ancora una volta stranamente appropriato, i due imperi che affondavano con le rispettive colonie.
Poi qualcuno aprì la porta della stanza ed entrò.
Francia, ancora sdraiato sul pavimento, socchiuse gli occhi, quasi aspettandosi di vedere entrare Giappone. La sua visione sfocata gli permise di identificare solo delle folte e familiari sopracciglia, mentre tutto il resto rimaneva confuso.
“Angleterre?” chiese con un filo di voce.
“No...” borbottò una voce ruvida. “Non esattamente.”
Francia tossì una risata, che gli fece oscillare liberamente la testa. “Cosa fai tu, qui?”
“Qualcuno ha minacciato di castrarmi se non venivo a salvare il tuo culo francese.” rispose asciutto Australia. “Se questo dovesse costarmi anche un solo chilometro di costa, te ne farò pentire amaramente.”
Francia venne di nuovo scosso da una risata silenziosa. “Non mi hai ancora detto cosa fai qui.”
“Ti riporto a casa.”
“Non se ne parla.” Francia si alzò stancamente a sedere, mentre Olanda apriva un occhio e li fissava, non capendo cosa stesse succedendo. “Non mi sono fatto mesi di assedio solo per lasciare la fottuta città in mano a Giappone.”
Australia alzò gli occhi al cielo. “Ma a voi europei proprio non riesce di stare a casa vostra, mh?”
Francia, aggredito da un'ondata di nausea e vertigine, non rispose.
“Bhe, poco importa. Intanto io ho portato uomini, cibo, navi e munizioni. La piccola Malta manda anche i suoi saluti.”
In quella, America entrò nella stanza. “Che posto orribile...” borbottò, per poi notare Francia sul pavimento ed avvicinarsi. “Come avete fatto a resistere qui tutto questo tempo?”
“Non chiedermelo...” mormorò Francia, accettando il braccio che gli era stato porto. Solo in quel momento, vedendo un orso polare che avanzava nella sua direzione, si rese conto che stava parlando con Canada.
Di tutti i possibili salvatori, questi due erano gli ultimi che si sarebbe aspettato.
“Dobbiamo tornare subito in Europa, Francia.” lo informò con voce gentile Canada, aiutandolo a rialzarsi. “Riesci a stare in piedi?”
“Certo che ci riesco, ma non vado da nessuna parte.” sbottò Francia, senza però avere le forze per allontanarlo con stizza come avrebbe voluto.
“Inghilterra dice che è vitale. Australia si occuperà per un po' della città, tu potrai tornare più avanti.”
“Grazie della concessione. Cos'ha di così importante Inghilterra da dirmi che non può aspettare?”
“Pensi che a me faccia piacere l'idea di rimanere qui?” brontolò Australia mentre rimetteva in piedi Olanda, che aveva un'espressione sempre più confusa.
“Non me l'ha detto.” rispose Canada con un sorriso imbarazzato.
“Quell'idiota, se non la pianta di essere così Splendidamente Isolato anche a livello mentale...”
Francia interruppe la frase quando nella stanza entrò Singapore. La piccola Nazione gli corse incontro, nonostante le ferite e le bende che la ricoprivano, con le lacrime agli occhi, e gli strinse le braccia attorno alla vita:
“Non andare via!” urlò, disperata. “Non lasciarmi, non lasciarmi in mano a Giappone! Per favore, per favore, farò tutto quello che vuoi...”
Un singhiozzo più forte degli altri la scosse e non riuscì a dire altro di coerente.
“Va tutto bene, Singapore.” le sussurrò Francia, accarezzandole la testa; cercò poi di prenderla in braccio, ma le sue ginocchia minacciarono di cedere sotto lo sforzo. Canada fece per sorreggerlo, ma lui lo allontanò irritato e si chinò per essere all'altezza della piccola.
“Singapore, Australia rimane qui con te. Non sarai sola.”
“Ma...” protestò lei, lanciando un'occhiata timorosa alla Nazione in questione.
“Australia è un valoroso combattente e ti difenderà con tutto se stesso.” La frase venne derisa da uno sbuffo infastidito, ma Francia non gli badò. “Anche perché se non lo fa, essere castrato da Inghilterra sarà l'ultimo dei suoi problemi.”
Australia sbuffò di nuovo, anche se non disse nulla.
“Io torno presto, promesso.” concluse Francia, baciandole la fronte e sistemandole i capelli.
Singapore annuì, anche se era chiaro che non era ancora convinta.
Francia sospirò, si rialzò, dolorante, e si rivolse a Canada:
“E adesso andiamo a vedere cosa vuole di così importante il grande Impero Britannico da farmi girare mezzo globo.”
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Inghilterra lo stava aspettando con un piccolo sorriso sul volto; Francia capì subito che, qualunque fosse il motivo del richiamo alla base, era estremamente importante. E in maniera positiva.
L'altra Nazione si rifiutò di spiegargli alcunché al proposito, però, ed insistette che per il momento si limitasse a riposarsi; per parlarne ci sarebbe stato tempo il giorno dopo.
Francia, ancora troppo stanco per protestare, obbedì alle direttive; non era particolarmente curioso, in realtà, e se fosse stato più lucido la cosa forse l'avrebbe preoccupato. Al momento, si limitò a non farci caso.
Inghilterra, magari prevedendo la sua nostalgia per i lussi del mondo civilizzato, gli aveva fatto preparare un bagno tiepido e profumato come quelli che piacevano a lui; pur sentendosi uno stupido, Francia ebbe un terribile moto di affetto nei confronti dell'altra Nazione, mentre si immergeva nell'acqua schiumosa e chiudeva gli occhi.
Le pustole avevano ormai invaso completamente il suo petto, tanto che era difficile distinguerle una dall'altra. La tosse si era leggermente calmata da quando aveva lasciato l'equatore e vomitava sangue meno spesso, ma non si poteva certo dire stesse migliorando molto.
Del resto, cosa ci si poteva aspettare da una Nazione sotto controllo nemico da quasi due anni?
Qualcuno bussò alla porta. Francia aprì un occhio, rassegnato all'idea che anche essere disturbato nel bel mezzo del bagno della sua vita facesse parte dei fastidi della guerra.
Inghilterra entrò senza attendere risposta. Francia appoggiò nuovamente la testa al bordo della vasca.
“Qualche brutta notizia?” chiese, senza riuscire a preoccuparsi troppo.
Inghilterra fece di nuovo quel piccolo sorriso con cui l'aveva accolto, e scosse la testa. Spinse una sedia vicino alla vasca e produsse dal nulla due bicchieri e una bottiglia di vino.
Francia sorrise. “Festeggiamo qualcosa?”
“E' troppo presto. Pensavo solo di aggiornarti su cosa era successo mentre tu giocavi al castellano in Asia.”
“Fammi indovinare: tu giocavi alla suocera incattivita con America?”
Inghilterra tirò un calcio alla vasca, mentre versava il vino con cura in uno dei due bicchieri. Francia non riusciva a ricordare quando era stata l'ultima volta che aveva riso così tanto.
“Ma non dicevi che avremmo parlato della guerra domani?”
“No, domani parliamo dell'operazione Neptune. Oggi devo aggiornarti. Innanzitutto, abbiamo liberato Libia dai crauti; le tue colonie stanno combattendo in Egitto, al momento, ma temo che siamo ad uno stallo. Ah, e stiamo dando una mano a Grecia per fare altrettanto.”
Francia annuì, prendendo il bicchiere che Inghilterra gli stava porgendo: gli sarebbe piaciuto rivedere quel bisbetico di Libia, prima di tirare le cuoia definitivamente.
“Abbiamo posposto l'idea di un'invasione dell'Italia, ma bisogna alleggerire la pressione tedesca in Russia, per cui pensavamo di aprire un secondo fronte.”
Francia annuì ancora, sorseggiando lentamente il proprio vino e chiedendosi perché era andato a cercare di farsi ammazzare in Asia, rinunciando a questi piaceri. Vero, Inghilterra non nuotava nell'alcool, ma almeno poteva permettersi una bottiglia di vino francese; a Singapore era già qualcosa avere dell'acqua.
Perso nei suoi pensieri, non si rese conto che Inghilterra aveva smesso di parlare e lo guardava come se aspettasse che lui dicesse qualcosa. Francia si raddrizzò, con l'impressione di essersi perso qualcosa; nel movimento, parte della schiuma che lo copriva si spostò.
“Cos'è quel...?” chiese Inghilterra, sporgendosi in avanti per vedere meglio le ferite sul suo petto. “Santo cielo!” esclamò, mentre Francia faceva del suo meglio per ritornare sotto il livello della schiuma. “Cosa diavolo è quella roba?!”
“Non è niente, non è niente!” minimizzò Francia, agitando una mano. “Piuttosto, dicevi del secondo fronte?”
Inghilterra lo fulminò con gli occhi, promettendogli in silenzio che sarebbero tornati sull'argomento più tardi. Poi, sempre appoggiato al bordo della vasca, riprese a parlare:
“Dicevo, abbiamo intenzione di aprire un secondo fronte. America era un po' scettico, ma alla fine sono riuscito a convincerlo.”
Il volto della Nazione fu graziato, per l'ennesima volta quella sera, da un mezzo sorriso.
Francia fissò le labbra appena increspate e l'aura così terribilmente inglese che davano a tutta la persona di Inghilterra.
Eccola lì, la Nazione che aveva combattuto per così tanti anni e che ora stava al suo fianco come alleata, con il suo sorriso arrogante, con quell'aria da pirata navigato, con quelle sopracciglia ridicole.
Eccolo lì, Inghilterra, a cui era legato da una serie di piccoli fogli ridicoli e fragili quanto il loro rapporto, pronti a sbriciolarsi alla prima pressione, e che eppure ancora non avevano ceduto.
Ah, ecco.
Ora ricordava come mai era andato a Singapore.
Era lo stesso motivo per cui non si era fatto seppellire vivo sotto Les Invalides.
E perché non si era arreso a Germania quando Parigi era caduta.
“Bhe? Non hai ancora capito?” chiese Inghilterra, leggermente irritato dalla sua mancanza di reazioni, ma non abbastanza da smettere di sorridere.
“Oh, certo. E' chiarissimo.” rispose Francia, parlando di tutt'altro. Afferrò il colletto della camicia di Inghilterra e lo tirò verso di sé, schiantando le loro bocche insieme senza alcuna cura o arte; completamente sbilanciato, Inghilterra cadde nella vasca; cercò istintivamente di fermare la propria caduta con le mani, col risultato di spingere Francia più in basso e di seguirlo giù, bagnandosi ancora di più.
L'altro non sembrò accorgersene, impegnato com'era a baciarlo come se il mondo dovesse finire il giorno dopo. Cosa effettivamente non probabile ma comunque possibile.
Inghilterra annaspò fino a quando non riuscì ad afferrare il bordo della vasca dietro la testa di Francia e a toccare il fondo con le ginocchia senza schiacciare la Nazione sotto di lui. Facendo leva, si sollevò abbastanza da poterlo guardare in faccia: sembrava piuttosto stupito dell'interruzione.
“Ti sei bevuto il cervello?” Il tono della domanda era incredibilmente pacato, vista la situazione.
Francia gli passò un braccio attorno al collo. “Credevo che pensassi che non ne avevo uno.”
Inghilterra cercò di alzarsi a sedere, senza successo, bloccato com'era. “Ti sei bevuto il cervello che non hai mai avuto?”
“...Mi sono solo ricordato di un paio di cose?”
“Come l'essere un maniaco?”
“Sì, anche quella.”
Francia ruotò il braccio e lo costrinse ad avvicinarsi; gli morse delicatamente il labbro inferiore, cercando permesso di accesso, che si fece pregare ma alla fine venne concesso. Inghilterra era chiaramente il tipo che si sentiva obbligato a scacciare ogni avance e a protestare di continuo per mantenere una facciata, ma quel giorno la maschera sembrava essere così sottile da lasciar trasparire tutti i particolari del volto, anche quelli meno illuminati.
Nonostante la fretta, dovuta al bisogno, simile alla fame, non c'era alcuna aggressività nel loro scivolare di lingua su lingua, come se fosse un movimento che si inseriva perfettamente nella loro maniera di essere. Sparita era la voglia di sangue che aveva scandito le loro azioni passate e il tira-e-molla irritato di quelle più recenti, e rimaneva solo la tensione ad essere e rimanere vicini, il tendere all'altro come si gravitava verso il proprio territorio sulla terra.
Nonostante si fosse ricordato di molte cose, Francia non riusciva a farsi venire in mente un momento nel quale avesse smesso di considerare Inghilterra terra straniera. Perfido e stupido e cieco lo era ovviamente ancora, ma ora aveva il sapore casalingo di crêpes con la marmellata e scones bruciati, di nuvole su Parigi e nebbia su Londra e vento salato sulla Manica. Non era la familiarità di qualcuno che si conosce da molto, ma piuttosto quella di una vecchia maglia che si ritrova in fondo ad un cassetto, che si mette ancora volentieri ma che per qualche motivo era finita dimenticata, per distrazione, per voglia di qualcosa di nuovo, per nessuna ragione precisa né tanto meno valida.
Francia lo strinse a sé, semplicemente perché lo voleva vicino piuttosto che lontano; una mano gli accarezzava con lentezza i capelli, l'altra lo assicurava attorno alla vita. La cintura della Nazione e più in generale i suoi vestiti che si strofinavano su di lui non erano proprio una sensazione piacevole, sulla sua pelle nuda, ma questo non aveva molto importanza, in fin dei conti: la cosa essenziale era che gli stesse vicino.
Lasciandogli per un momento i capelli, Francia fece scivolare Inghilterra sotto di sé, immergendolo completamente nell'acqua. La Nazione si afferrò d'istinto ad un bordo della vasca, per non finire sott'acqua.
“Non potevi lasciarmi spogliare, prima di lavarmi da cima a fondo?”
Francia rise, baciandogli il collo e risalendo verso il mento. “Sei un'isola, di cosa ti lamenti?”
“Lasciami...” borbottò Inghilterra, cercando di sbottonarsi il colletto e fallendo miseramente a causa della resistenza posta dal tessuto fradicio. “Diavolo...”
Francia nel frattempo non stava avendo più successo con i pantaloni, non aiutato dalla schiuma che gli impediva di vedere cosa stesse facendo.
“Maledizione!” ruggì Inghilterra, scansando Francia da sopra e alzandosi in piedi. “Che cazzo ti è venuto in mente?!”
“Scusa!” esclamò Francia, alzando le mani, quasi offeso. “Mica ho fatto tutto da solo, sai!”
“Come no! Chi mi ha tirato in acqua, mh? Le fate?!”
“Non accampare scuse!”
“Ma quali scuse?!”
I due rimasero a fulminarsi con lo sguardo, fradici e alterati e consapevoli che era perfettamente inutile litigare sul latte versato.
Poi Inghilterra tornò a sedersi nell'acqua, sbattendo una mano sulla superficie per la stizza e schizzando ovunque. “Maledizione!” ripeté a voce più bassa.
Francia, seduto davanti a lui, si chinò in avanti e lo baciò ancora. “Mi sa che fino a quando non ti asciughi, da lì non esci.” disse, facendo attenzione a censurare la parte di lui che rideva come una disperata all'idea che Inghilterra fosse frustrato perché non riusciva a spogliarsi per lui; un qualsiasi accenno alla cosa poteva costargli caro in possibili occasioni future.
L'altra Nazione lo spinse affinché si girasse e lo tirò verso di sé, per cominciare a baciargli la schiena. Francia mugolò la propria approvazione, esausto.
“L'operazione Neptune...” disse Inghilterra, scendendo piano lungo la spina dorsale. “Se tutto va bene, inizia il ventisette di questo mese, con la luna piena.”
“Mh-mh...” commentò Francia, senza veramente ascoltarlo.
“Sbarchiamo in Normandia.”
Francia spalancò gli occhi di colpo, basito.
Inghilterra non smise di baciarlo.
“Non credo che riusciremo ad essere a Parigi per l'anniversario dell'Unione, ma penso che potremmo provare ad arrivarci per il quattordici luglio.”
Francia, in quel momento, fu estremamente felice del fatto che stesse dando le spalle ad Inghilterra, anche se il tremore di tutto il suo corpo doveva essere palese.
“Che ne dici?”
“M...” Le lacrime gli impedirono di continuare la frase per qualche secondo. “Mi sembra una buona idea.” mormorò alla fine, passandosi una mano sul volto, con la necessità improvvisa di fare qualcosa con le proprie mani.
Sentì le labbra di Inghilterra, appoggiate ad una sua scapola, incresparsi ancora.
¤¤¤
Francia baciò con foga tutto il volto di Canada, ansioso.
“Non farti male, va bene?”
Canada sorrise nervosamente. “Bhe...”
“Non farti troppo male, almeno!”
“Va bene...”
Invece di lasciarlo andare, però, Francia lo stritolò in un abbraccio. “Grazie per tutto quello che stai facendo, grazie.”
“Allora, ci vogliamo sbrigare? Guardate che parto senza di voi!” rise America, afferrando Canada per il colletto e cercando di staccarlo da Francia. Dal suo sorriso, si sarebbe detto che stava partendo per una scampagnata.
“Sì, sì, ma lascia...”
“No, spicciatevi!”
Francia dovette lasciar andare Canada suo malgrado, prima che America tirasse troppo forte e lo trascinasse nel fango. Se l'idea di riconquistare la parte metropolitana persa gli aveva sollevato il morale, la sua forza stava comunque diminuendo sempre di più, per quanto cercasse di nasconderlo.
Ma la sua gente... La sua gente si sarebbe sicuramente sollevata contro Germania. Non avevano armi, la marina era a pezzi, ma i francesi non sarebbero rimasti a guardare gli Alleati sbarcare senza fare nulla, vero? No, la sua gente era ancora con lui; la sua gente non l'avrebbe abbandonato.
“Siamo tutti pronti?”
La voce di Inghilterra lo distrasse dall'ennesimo pensiero pieno di incertezze della giornata e lui si girò a guardarlo, mentre si avvicinava al terzetto sistemandosi un guanto. Laddove pensare a Canada in mezzo a quel macello lo faceva rabbrividire con terrore, la presenza di Inghilterra lo tranquillizzava: poteva fare finta che fosse una delle tante battaglie del passato, quelle in cui al massimo ci rimettevi la cavalleria... non un intero stato. Poco importava che loro, di battaglie del genere, non ne avessero mai fatta una fianco a fianco. In quella confusione, in quell'incertezza moderna, anche l'invenzione di un ricordo era confortante.
“Noi possiamo anche andare!” rispose America, iniziando a scendere verso le navi e portandosi via Canada. “Ci vediamo over there, over there, send the word, send the word over there, that the Yanks are coming, the Yanks are coming...”
In pochi secondi, le due sagome sparirono nella notte, lasciando dietro di sé solo l'eco della canzone di America.
Inghilterra e Francia si scambiarono un lungo sguardo.
“Pronto?” chiese Inghilterra, la determinazione che gli irrigidiva il volto.
Francia annuì, senza fidarsi a parlare.
“Ottimo. Andiamo, allora.”
La Nazione annuì di nuovo e Inghilterra prese a scendere lungo la collinetta, senza attendere oltre.
Francia alzò gli occhi alla luna e fece un respiro profondo.
Poi, con passo leggero, seguì verso le navi la seconda metà della sua Unione.
Je fais de toi mon essentiel
Tu me fais naître parmi les hommes
Je fais de toi mon essentiel
Celle que j'aimerais plus que personne
Si tu veux qu'on s'apprenne...
Je ferai de toi mon essentiel
Mon essentiel
Si tu veux qu'on s'apprenne
Qu'on s'appartienne
--- Je fais de toi mon essentiel, da Le Roi Soleil