[RPF] Take some courage and jump

Nov 18, 2011 16:36

Titolo: Take some courage and jump
Fandom: RPF Calcio
Personaggi/Pairing: Claudio Marchisio/Alessandro Del Piero, Marco Borriello, Seba Giovinco
Rating: PG14
Conteggio Parole: 12109 (fidipu)
Avvertimenti: AU, slash, angst
Note: Gnnnnnnnnnnnnn. Questa cosa nasce in seno ad una Nottebianca - credo la terza, - per l'effetto combinato di brahurricane, perlinha, Claudio che è la meraviglia e la mia insonnia. E le succitate donne meravigliose mi hanno supportata nei momenti più USTici (LOL, capito il gioco di parole? USTici/ostici. Dai.), non mi hanno mandata affanculo neanche una volta e, insomma, #COSASAREISENZADIVOI? Also, sento dentro di me l'approvazione di Claudio as well.
- DEF MI HA GIFTATA. Capslocko perché, oh, è un evento epocale: DEF CHE GIFTA DEL DELPISIO. Capite. Già solo questo fatto mi ha tramortita. Poi quell'uomo scarlatto ha ben pensato pure di fare un fanmix bello come -- BELLO COME CLAUDIO #hah, con Mika che è l'ingrediente perfetto per ridurmi in lacrime e White Shadows (ripetete con me: WHITE SHADOWS) che non sto neanche a dirvi QUANTO mi abbia fatta felice, e un booklet che è l'amore più totale (E C'E' CLAUDIO, CAPITE? CIOE', IMMAGINATEVI DEF DAVANTI A UN PC CHE SMANETTA SU PS CON FOTO DI CLAUDIO E ADDY, È UN'IMMAGINE MENTALE CHE BASTERA' A TENERMI CALDA PER TUTTO L'INVERNO) e, sì, magari facciamo che vi lascio il link e sto zitta. Link link link link link.
- Un'altra cosa importante! Questo spin-off che mi ha scritto Brappu. Amatela, e basta. <3
Disclaimer: Non mi appartiene nulla; è tutta fantasia; nessuno mi paga un centesimo.

~ Take some courage
and jump.

Claudio è vergine, ed è un problema, davvero, per un ragazzo a diciott’anni suonati, soprattutto poi un ragazzo bello, così bello che, se solo qualche stilista lo vedesse e s’innamorasse di lui, potrebbe senza il minimo dubbio far fare la fame a metà dei fotomodelli di questa terra, e pure popolare, di quel tipo di popolarità che ti piove addosso quando sei veramente, veramente, ma veramente tanto bello, più di chiunque altro a scuola, comunque, e sei un po’ timido per cui sembri scontroso e sulle tue, figo da far impazzire pure i sassi, e per di più giochi così bene a calcio che il preside sa quand’è che hai educazione fisica e si affaccia alla finestra del suo ufficio solo per guardarti con una palla tra i piedi.
Insomma, Claudio è vergine, ed è un problema. Non è che qualcuno lo sappia, comunque, a parte Sebastian, che però è alto un metro e sessantacinque, per cui se pure andasse in giro ad infamare l’inesistente vita privata di Claudio non è che gli presterebbero ascolto, - se non altro perché difficilmente riuscirebbero a sentirlo, proprio fisicamente, - e poi quel grandissimo stronzo di Marco, ma a Marco è meglio che Claudio non pensi, tipo mai nella vita, perché è già abbastanza impossibile averci a che fare quando se lo ritrova costantemente tra i piedi, se poi deve pure permettergli di infilarglisi in testa, no, meglio di no.
Insomma, Claudio è vergine, ed è un problema per lui, principalmente, perché al resto del mondo magari interessa cos’è che succede nelle sue mutande, ma lui non ha nessuna intenzione di mettere in giro manifesti al riguardo. È un problema perché non si sente a proprio agio, ecco tutto, quando sta lì a far comunella con i suoi compagni di classe, nessuno che gli sia particolarmente amico ma comunque è gente che conosce da cinque anni, e magari ogni tanto qualcuno tira fuori una sigaretta, e quando la conversazione inevitabilmente precipita sul goliardico e su chi si è fatto chi e dove e come e quando e quante volte, ecco, Claudio ha un po’ di problemi ad evitare di diventare paonazzo - accidenti alla sua faccia bianca da fantasma - e poi millantare nomi un po’ a caso ed avventure che non ha mai avuto giusto per guadagnarsi un po’ di pacche sulle spalle, qualche ghigno contento e l’ammirazione incondizionata dei suoi coetanei. Non è il fatto in sé di dover mentire che lo sconforta, ma la consapevolezza che se solo ci mettesse un pochino di impegno - se solo ci mettesse un pochino di volontà, - si potrebbe liberare di questa scomodissima zavorra praticamente schioccando le dita.
Se solo ci mettesse un pochino di volontà. Se solo una buona volta si decidesse a scegliere una a casaccio delle millemila ragazze che si assiepano come invasate attorno al campetto della scuola calcio durante i suoi allenamenti, strillacchiando il suo nome senza quasi interrompersi mai, e lo pedinano su e giù per tutte le trasferte, persino, e sono irritanti, davvero, e non sono neanche così tante, per la verità, probabilmente una mezza dozzina, e Claudio non è neppure sicuro che siano sempre le stesse, magari dopo un po’ quelle poverette si stancano di vedersi costantemente ignorate, ma comunque, cazzo, ha delle groupies ed è soltanto troppo cretino per approfittarne. In definitiva, è veramente tanto, tanto cretino.
Il fatto grave, comunque, è che la cosa non è davvero così semplice. Il fatto grave, comunque, è che Claudio non è sicuro che gli basterebbe sorridere ad una delle ragazze che, la mattina, subito si voltano a guardarlo, appena arriva in cortile in sella al suo Vespino turchese che fa più casino di una trebbiatrice e ha il sellino di cuoio consumato e ingrigito dagli anni ma sa farsi amare con una facilità impressionante. Il fatto grave è che, per la verità, Claudio è piuttosto sicuro che se pure arrivasse al punto di calarsi le mutande davanti ad una qualsiasi di quelle ragazze, e non con l’intenzione di scandalizzarla, Dio, no, in un contesto di nudità generalizzata e consensuale, ecco, insomma, Claudio ha il fondato timore che non servirebbe a niente manco quello, non servirebbe a niente se accarezzasse i bei seni di, poniamo, Roberta Sinopli, che è la più carina e gentile e più o meno l’unica di cui si sia mai preso il disturbo di imparare il nome. Non servirebbe a niente se la baciasse, se le stringesse i fianchi, se lei gli sorridesse, così vicina da fargli sentire il battito del proprio cuore. Non servirebbe a niente se la prendesse per mano e la rassicurasse che non le farà male e sarà bello e non servirebbe la pelle morbida delle sue gambe, le sue spalle strette, perché Claudio è vergine, e ha il fottuto sospetto che gli piacciano gli uomini.
Il cielo è azzurro sopra la scuola, e a Claudio piacciono gli uomini. La sigaretta tra le sue labbra ormai è ridotta ad un mozzicone che brucia appena, spolverandogli le ginocchia di cenere grigia ad ogni respiro che fa, e a Claudio piacciono gli uomini. Gli piacciono gli uomini. Gli piace guardare i suoi amici della scuola calcio spogliarsi dopo gli allenamenti, le schiene sode e sudate, le gambe muscolose e stanche; gli piace quando si buttano sotto la doccia ridendo, gettando indietro la testa, offrendo la gola allo schiaffo dell’acqua e magari chiudendo gli occhi. Gli piace lo schiocco umido dei loro piedi contro le piastrelle, e come sono sempre perfettamente a proprio agio e si spintonano su e giù e schiamazzano e girano in mutande perché non riescono a trovare un calzino e poi magari il calzino lo vedono sotto una panca e a Claudio piace quando si accovacciano a frugare il pavimento e lui può guardare - può guardare i suoi compagni, Cristo, i suoi fottuti compagni di squadra, ed eccitarsi come il ragazzino che è, e sentirsi da schifo, perché ha diciott’anni e quelli sono ragazzi che hanno rispetto di lui e lui li fissa come se fosse l’ultimo maniaco di questo mondo.
Claudio getta via la sigaretta con uno scatto nervoso del polso e si tira in piedi, sprofondandosi una mano nella tasca dei jeans e con l’altra stropicciandosi i capelli, incazzato col proprio cervello per la piega che s’è permesso di dare ai suoi pensieri. Si era posto dei limiti, cazzo, si era detto che è meglio non pensarci, a certe cose, - a Marco, o al modo in cui gli piace fin troppo, in partita, ritrovarsi schiacciato a terra da un difensore un po’ più grosso e aggressivo, - che è meglio per lui, per la sua sanità mentale, e invece puntualmente gli basta un niente, gli basta un minuto di silenzio tutto per sé per ricascarci come un cretino.
Dà la colpa di tutto agli ormoni, rientrando in classe, perché è palese che sono quelli a fottergli l’equilibrio mentale. È cominciato tutto da lì, d’altra parte, da quando i ragazzi hanno cominciato a notare le ragazze e lui invece no, ma per stare al passo ha baciato la più carina della scuola quando andava alle medie. E poi naturalmente è degenerata, perché se prima se ne parlava ogni tanto adesso qualsiasi conversazione è scandita da tre argomenti - calcio, sesso e se sia meglio il calcio o il sesso, - e Claudio pensa seriamente che scoppierà, un giorno di questi, e manderà a ’fanculo tutto quanto, il calcio, il sesso e i suoi compagni con i loro cazzo di muscoli affusolati che lui vorrebbe soltanto poter assaggiare.
Sebastian lo guarda di traverso, quando Claudio si risiede al suo posto accanto a lui e poi si appoggia con la schiena al muro, magari con un po’ troppa stanchezza. Gli dà una gomitata nel costato, giusto per assicurarsi di avere la sua attenzione, e Claudio grugnisce, infastidito.
«Che succede?» chiede Sebastian, senza guardarlo, ma continuando a fingere compitamente di stare prestando attenzione alla lezione. Claudio strizza un po’ gli occhi, guardando nella generale direzione della cattedra, e, oh, ma certo, religione, che meraviglia. Avrebbe pure potuto evitare di tornare dentro.
«Niente,» biascica, comunque, puntellando un gomito sul banco e appoggiando la testa al pugno chiuso. «Mi annoio.»
Sebastian ridacchia.
«Che gran novità,» dice, poi annusa l’aria e si volta di scatto verso Claudio, il viso contratto in una smorfia. «Hai fumato.»
«Che gran novità,» gli fa il verso Claudio, e Sebastian spalanca la bocca, palesemente vuole rispondergli male, ma si ricorda appena in tempo che il professore di religione magari è un po’ sordo e un po’ scemo e soprattutto un po’ tanto pigro, ma è comunque meglio non tirare troppo la corda. Si limita ad imbronciarsi, quindi, e a piazzargli, sotto il banco, un micidiale calcio negli stinchi che fa sobbalzare Claudio e attira comunque su tutti e due un’occhiataccia del professore.
«Se riesci a farti sbattere fuori da lui, penso che ti daranno una medaglia,» mormora Sebastian, dopo un po’, e Claudio si stava praticamente addormentando, distratto com’è a giochicchiare con una matita e a non pensare affatto alla propria verginità e a come esattamente gli piacerebbe perderla, - e con chi gli piacerebbe farlo, soprattutto, - ma non si fa sfuggire neanche una parola e sorride, tutto sommato divertito.
«Sei sicuro?» domanda, piano. «Perché se sei sicuro allora mi impegno, lo sai che ho un debole per la roba che luccica.»
Sebastian neppure si prende la briga di prenderlo a parolacce sottovoce, ma gli dà un altro calcio che però Claudio s’aspettava, e l’unico rumore cui si degna di dare fiato è uno sbuffo appena di risata. Incrocia le braccia sul banco, subito dopo, e ci appoggia sopra la testa, chiudendo gli occhi. Quando il professore gli domanda cosa diamine stia facendo, lui neppure si prende la briga di alzare lo sguardo, e biascica pigramente che sta riflettendo sull’immortalità dell’anima.

*

Claudio torna a casa stremato dagli allenamenti, e vorrebbe soltanto buttarsi sul letto e dormire fino a sabato, ma naturalmente no, eh, oggi è soltanto mercoledì, per cui farebbe meglio ad evitare di crogiolarsi in fantasie di riposo perenne e nessuna fatica. Sale le scale con calma, odiando un po’ di più ad ogni passo il borsone impossibilmente grosso, che non riesce a bilanciarsi bene sulle spalle ma che, perlomeno, è pieno giusto di vestiti, per cui non pesa quasi un cazzo, e con ogni respiro maledice l’amministratore incompetente del condominio, che sono sei mesi che l’ascensore è rotto e non si è ancora degnato di farlo riparare.
Arriva al suo pianerottolo dopo sei rampe di scale - cazzo, è esausto, - e si ricorda che le chiavi, merda, sono ancora seppellite da qualche parte dentro il borsone, perché il portoncino giù l’ha trovato aperto - il portoncino giù è sempre aperto, - e non si è certo preso la briga di tirarle fuori quando era ancora comodamente seduto sul motorino. Brontolando sottovoce, fa quei quattro passi in più che lo separano dalla porta di casa e si ficca il borsone tra le gambe, aprendolo con un attimo di fatica e frugandoci dentro più rapidamente che può. Sfiora le chiavi con la punta delle dita un paio di volte, ma le maledette bastarde gli sfuggono all’ultimo secondo, scivolando ancora più giù dentro il malefico borsone senza fondo, e ad un certo punto Claudio è praticamente ripiegato in due su se stesso e neppure le riesce a trovare. Sbotta una mezza bestemmia, e decide per le maniere forti: afferra le due estremità del borsone e lo capovolge, rovesciando mutande, calzini, la tuta sporca e le scarpette sul pavimento, persino un po’ di spicci che là dentro chissà come ci sono finiti, e naturalmente, in tutto questo, le chiavi luccicano, stronze bastarde, in cima alla pila di vestiti.
Claudio sogghigna, comunque, orgoglioso della propria vittoria, e le afferra con una certa violenza, sventolandosele gloriosamente sotto il naso. Nell’esatto istante in cui le infila nella toppa, però, sente delle voci attutite alle proprie spalle, una risata, e poi l’unica altra porta sul pianerottolo si apre, e il sangue di Claudio gli si gela nelle vene in un attimo. Merda.
Magari mi salvo, pensa, disperatamente. Non è troppo tardi per infilarsi in casa e fingere di non essersi accorto che l’altra porta si è aperta, che ci sono altre persone. Non farebbe la figura dello stronzo o del maleducato, solo quella del ragazzino di ritorno dagli allenamenti, intontito e confuso dalla stanchezza, dai, ci può stare, poi però si accorge della sua roba ancora buttata sullo zerbino e, maledizione, cazzo, merda, non si salverà mai.
È costretto a voltarsi, quando le due voci dietro di lui si zittiscono di colpo ed è ovvio che l’abbiano notato. Il punto è che Claudio preferirebbe farsi amputare tutti e due i piedi, veramente, piuttosto che sorridere educatamente e fare la persona perbene, ma deve, porca miseria, deve davvero, per cui, ecco, prende un bel respiro, stringe così forte la mano attorno alle chiavi che gli resterà il segno perlomeno per una settimana, fa un altro respiro e si volta.
C’è un tizio che non conosce che lo guarda con una lieve sorpresa, che si scioglie subito in un sorriso moderatamente gentile, ma non è niente di straordinario, davvero, Claudio vede continuamente gente che non conosce aggirarsi sul suo pianerottolo, e continuamente significa proprio continuamente, come minimo tre o quattro volte la settimana, sono gli svantaggi di abitare dirimpetto ad un - Claudio detesta la parola, naturalmente è stato Marco ad insegnargliela - marchettaro, probabilmente. Per cui Claudio non si stupisce, fa una mezza smorfia e accenna un gesto di saluto con la mano.
E poi il tizio si scosta di mezzo passo a sinistra, e Claudio lo vede, il marchettaro in questione, - che, poi, se già la parola in sé, sola soletta, gli fa rivoltare lo stomaco, è almeno tremila volte più disgustoso associarla a lui, - che non appena incontra il suo sguardo si morde il labbro inferiore, e sospira appena appena percettibilmente.
«Ehi,» mormora Alex, esitando un po’, e Claudio deglutisce con tanta difficoltà che ha paura che gli altri due lo sentano.
«Ciao,» dice, con un cenno appena del mento, e gli pare di aver adempito ai suoi doveri di buon vicino, per cui si volta di nuovo, e nervosamente gira la chiave nella toppa nel senso sbagliato. Impreca piano, respira, riesce ad aprire la porta. Lo scatto della serratura gli sembra così rumoroso, nel silenzio che è piombato sul pianerottolo, che non si stupirebbe se l’avessero sentito pure in Cina.
Alex, dietro di lui e lontanissimo, prende fiato per dirgli qualcosa, ma desiste proprio a metà del respiro. Si appoggia un po’ alla parete, e si rassegna a guardarlo spingere la porta e poi calciare dentro casa il borsone e i vestiti.
«Ehi, ti serve una mano?»
Claudio si volta di scatto verso lo sconosciuto, che ha persino fatto un passo in avanti con quel sorriso gentile da schiaffi, e con un’occhiata brevissima ad Alex - cazzo, merda, cervello, lui Alex non lo voleva guardare, perché continui a tradirlo? - si rende conto, con una punta di soddisfazione, che pure lui è altrettanto sorpreso dall’esuberante buon cuore del tizio.
«No, grazie. Sono a posto così,» riesce a mugugnare Claudio, a denti stretti, e senza un’altra parola si china a raccogliere i calzini e le mutande rimasti a terra - si costringe a non arrossire come un pazzo al pensiero che, Cristo, Alex e uno dei suoi fottuti trombamici casuali hanno visto le sue fottute mutande, - e si chiude in casa, appoggiandosi con la schiena alla porta e pian pianino scivolando seduto a terra, come in una perfetta commedia romantica.
Claudio è vergine, gli piacciono gli uomini, e il suo problema più grande - la sua croce peggiore, sì, peggio pure di Marco Borriello - è il suo vicino di casa. Ma comunque, Alex è proprio la prima delle cose alle quali Claudio non si permette di pensare - e poi ci ricasca sempre, specie quando lo vede così, senza il minimo preavviso, senza potersi trincerare dietro una smorfia indifferente perché quando una cosa gli capita tra capo e collo lui fa una fatica di pazzi a raccattare un minimo di contegno, figurarsi poi se riesce ad inventarsi frigido e noncurante quando tutto quello che vorrebbe è mettersi a urlare e piangere e tirare addosso ad Alex un’infinità di pugni, - per cui si risolleva in fretta, raccogliendo da terra i vestiti, dando un altro calcio al borsone, ché non fa mai male, e peraltro è tutta colpa sua se la sua giornata ha avuto questa fantastica merda di conclusione, e poi andandosene in bagno a buttare la biancheria sporca nel cestino dei panni da lavare.
Si sciacqua un po’ le mani e il viso, evitando accuratamente di guardarsi allo specchio - lo sa di avere le guance in fiamme e gli occhi enormi, sgranati e azzurri con le pupille esplose come gocce d’inchiostro nell’acqua, - perché non ha nessuna voglia di umiliarsi ancora, e poi, poi, poi, finalmente se ne va in cucina a preparare la cena.
Mamma ha lasciato i merluzzi già sfilettati a scongelare nel lavello, e Claudio deve giusto mettere una pentola d’acqua a bollire. Gli ci vuole un’eternità ad accendere il fuoco, le dita gli tremano e la presa sulla manopola del fornello gli sfugge in continuazione, ma alla fine ha la meglio e mentre aspetta che la fiamma faccia il suo dovere apparecchia la tavola - tovagliette, piatti, posate, il suo succo di frutta, il vino per mamma. Per quando ha finito, naturalmente l’acqua è ancora parecchi anni luce dalla temperatura giusta, ma non è davvero un problema. Claudio prepara un’insalata di contorno, sgranocchiando un paio di crostini e una carota, già che c’è, e poi ficca tutto in frigo, andando ad accendere lo schermo al plasma appeso alla parete, proprio a capotavola.
Si appollaia su uno degli alti trespoli sistemati attorno al tavolo, e, telecomando in una mano, seconda carota nell’altra, saltella da un canale all’altro, finché non trova un telegiornale sportivo. Ascolta un po’ di cazzate, interessato solo a metà, e poi l’acqua nella pentola alle sue spalle esonda e lui scoppia a ridere, un po’ istericamente, e toglie il coperchio, ricordandosi di salare l’acqua solo quando ci ha già buttato dentro i merluzzi.
A metà cottura, sente la porta d’ingresso aprirsi e poi un mezzo grido di sorpresa, mamma dev’essere inciampata nel borsone, e difatti nemmeno un minuto dopo arriva la paternale.
«Claudio, amore, quante volte ti ho detto di non lasciare quel borsone in giro per la casa?» gli dice mamma, entrando in cucina mentre ancora si guarda alle spalle. «Lo sai che è malvagio e ce l’ha con me.»
Claudio ridacchia, lei appoggia la borsa sul tavolo, sospira, lo guarda.
«Ciao, ma’.»
«Ciao, tesoro,» sorride, e fa il giro del tavolo per dargli un bacio rapidissimo tra i capelli. Claudio dà un mugugno scontento, ma mamma lo ignora e si avvia ai fornelli, scoperchiando la pentola del merluzzo. «Ti sei ricordato di salare l’acqua?»
«Sissignora,» ride Claudio, e abbassa un po’ il volume della televisione. Mamma si arrotola fin sopra i gomiti le maniche della camicia elegante che indossa, si lava le mani e mentre l’acqua le scroscia rumorosa tra le dita si volta a guardare curiosamente lo schermo, giusto per un attimo.
«Non abbassare,» dice. «Mi interessa.»
Claudio scuote appena la testa, rialza il volume e, mentre mamma si riappropria del suo regno in mezzo ai fornelli, lui resta lì con le mani in mano, a guardare Dio solo sa che servizio su Dio solo sa che squadretta di Dio solo sa che campionato da tre soldi, non sta seguendo davvero, e si perde così tanto in nessun pensiero particolare - sicuramente nessun pensiero con gli occhi verdi e castani e un po’ di Veneto ancora chiaramente impresso nell’accento, comunque, - che quando parte la pubblicità lui neanche se ne accorge, ma continua a fissare imperterrito il televisore. Sua madre gli tira uno schiaffo amichevole dietro la nuca e Claudio si riscuote.
«Ahio!» si lagna, massaggiandosi il collo offeso. «Perché mi picchi?»
«Oh, dai, non ti ho picchiato, era uno schiaffetto,» minimizza lei, e poi si volta a scolare i merluzzi. «E comunque era necessario, ti eri incantato.»
«Non mi ero incantato.»
«Oh, sì, signorino caro,» ride lei, gettando via le presine senza badare a dove quelle poveracce vadano a finire, e Claudio pensa, distrattamente, poi dice a me che sono disordinato. Dio, il bene che vuole a sua madre. «Ti eri incantato come un pollo, non avevi un’aria affatto intelligente.»
Claudio scuote la testa.
«Sei mia madre, non mi dovresti offendere,» commenta, appoggiando il mento contro il pugno chiuso. Mamma sbuffa appena, apre il frigo ed è contenta di trovare l’insalata già pronta.
«Non ti ho mica offeso, amore, ho fatto una constatazione,» dice, distrattamente. Sciacqua i merluzzi sotto l’acqua fredda, tira fuori un tagliere e li fa a tocchetti grossolani, tirando via qualche spina sopravvissuta all’occhio attento della Findus. Sistema tutto in un’insalatiera, condisce appena con un po’ di olio e sale perché non si fida veramente delle capacità di dosaggio di Claudio, e poi porta tutto a tavola. Fa per sedersi, poi si ricorda la maionese: si allunga fino al frigorifero, la prende, la piazza tra le mani tese del ragazzo. «Buon appetito.»
«Buon appetito,» sorride Claudio, svuotandosi mezzo barattolo nel piatto e poi servendosi di una quantità tale di pesce che pare l’abbiano tenuto digiuno per un mese. Sua madre ride piano, mangiano in silenzio per un po’, poi lei si allunga a prendere il telecomando e ad abbassare il volume della soap opera che è appena cominciata e non interessa a nessuno.
«Come è andata a scuola?» domanda, e Claudio dà un grugnito neutrale, ficcandosi in bocca un pezzo di pane per accompagnare il merluzzo e la maionese. «Mastica bene, ingoia e poi elabora, per favore.»
«Tutto tranquillo,» elabora Claudio, dopo aver masticato bene e ingoiato. «È passato il preside a fare il discorso alla Nazione, o quello che era, ma potrei essermi addormentato.»
Mamma sorride, ma gli dà un altro scappellotto.
«Magari era interessante, che ne sai,» lo rimprovera, senza neanche fare finta di crederci, e Claudio sorride.
«Entusiasmante, come no. Persino Seba si stava addormentato.»
«Oh, a proposito, come sta? È da tanto che non lo vedo.»
«Sta bene, sta bene,» Claudio si stringe appena nelle spalle. «È un po’ terrificato dalla matura.»
«Di già?» chiede mamma, e lui fa un sorriso storto, scuote la testa. «E tu? Quanto sei terrificato?»
«Meno trenta? No, ma’, seriamente, è marzo, non me ne potrebbe fregare di meno.»
«No, ma’, è marzo, non me ne potrebbe fregare di meno,» lo scimmiotta lei, ridendo. «Vediamo se fra due mesi sei ancora così tranquillo.»
Claudio sorride e si rimette a mangiare, le domanda del lavoro e non glielo dice, non glielo dirà mai, che veramente è tutto tranne che tranquillo, ma non per via della scuola e nemmeno del calcio e del torneo interclasse né di nient’altro, e che non è neanche tanto sicuro che ci arriverà sano di mente, a fine maggio, perché passa una quantità spropositata di tempo a pensare ad Alex e alla sua faccia e alle sue mani e ha diciott’anni, Cristo, è vergine e gli piacciono gli uomini, gli piace Alex, da morire.
Mamma non è arrivata a raccontargli neanche un quarto della sua giornata, ha appena appena cominciato a fargli l’elenco di tutte le scemenze che ha sentito al bar durante la pausa delle dieci e mezza, quando sentono suonare il campanello. Claudio si acciglia, sua madre pure.
«Aspetti qualcuno?» domanda, alzandosi, e Claudio scuote la testa, proprio non ha idea di chi possa essere, Dio, ti prego, fa’ che non sia Alex. Mamma va ad aprire e Claudio resiste appena alla voglia che ha di affacciarsi nel disimpegno e spiare discretamente, e se ci riesce è solo perché, oltre che Alex, potrebbe essere l’amministratore, e lui per oggi è stato abbastanza educato col mondo. Sente la risata di mamma, la porta richiudersi, e poi qualcuno dire qualcosa e anche se non capisce niente, quel tono di voce lì lo riconoscerebbe tra mille.
Mamma torna in cucina con un sorriso divertito, gli mette le mani sulle spalle.
«C’è Marco,» dice, ed è un po’ superfluo perché Marco è là sulla porta, Claudio lo vede benissimo, che sorride come lo stronzo che è e giocherella con un paio di occhiali da sole enormi anche se fuori è buio da un pezzo.
«Ciao,» saluta Claudio, praticamente atono, e ricomincia a mangiare. Marco non è per niente a disagio per il benvenuto meno che tiepido.
«Ehilà,» sorride. «Mi dispiace avervi disturbato, se avessi saputo che stavate mangiando--»
«Non ti preoccupare, Marco,» lo interrompe la madre di Claudio, sollevando le mani. «Anzi, se vuoi favorire anche tu, non fare complimenti.»
«Grazie, Anna, ho mangiato a casa,» declina Marco, educato come un piccolo nobile e a Claudio saltano i nervi, davvero, perché non capirà mai che diritto abbia Marco Borriello di pigliarsi tutta questa confidenza o anche solo come abbia fatto a scoprirlo, il nome di sua madre. Mette giù la forchetta, svuota il bicchiere di succo di frutta in un sorso, si volta a guardarlo incazzato.
«Andiamo di là,» dice, scontroso, e Marco non fa una piega, anzi, semmai il suo sorriso s’allarga. Mamma è un po’ sorpresa dal cambio d’umore di Claudio, ma non commenta, e li lascia andare tranquilla. Claudio ha l’impressione di vederla sorridere tra sé, ma si costringe a non farci caso e precede Marco in corridoio, fino in camera propria, facendolo entrare per primo e poi chiudendosi la porta alle spalle. «Che diavolo vuoi?»
Marco ride appena e, come ogni volta che mette piede qua dentro, per prima cosa va e stuzzica l’acchiappasogni di Claudio, quello con le campanelle nascoste tra i fili intrecciati strettissimi, facendolo tintinnare.
«Te l’avevo detto che sarei passato, Cla’,» dice, poi, voltandosi a guardarlo. Si appende gli occhiali da sole allo scollo della maglietta, si piazza le mani sui fianchi. «Te lo sei dimenticato?»
Claudio stringe gli occhi, è piuttosto sicuro che Marco stia spudoratamente mentendo, ma decide di lasciar perdere. Sbuffa, va a sedersi sul letto, incrociando le caviglie, e prende dal comodino l’armonica che sono sei mesi che tenta d’imparare a suonare. C’è una cornice, proprio lì accanto, messa al contrario, rivolta verso il muro per nascondere la foto. Claudio non la guarda, ma sa che è lì, e vorrebbe soltanto riuscire a dimenticarselo.
«Che hai fatto oggi?» domanda, ma non gli interessa davvero, sta solo tentando di essere un po’ civile, e Marco lo sa benissimo, perciò sbuffa una mezza risata e gli si siede accanto.
«Tu, piuttosto, che guaio hai passato?»
Claudio si stringe nelle spalle, soffia due note nell’armonica, alla terza s’è già perso, la mette via. Marco lo guarda con un’intensità un po’ inopportuna, come se pretendesse di riuscire a leggergli dentro, e lui vorrebbe mandarlo al diavolo.
«Ale,» si ritrova a mormorare, alla fine. Si guarda i piedi, gioca con una piega del copriletto e si offende a morte quando Marco scoppia a ridere.
«Non avevo dubbi,» dice. Claudio si imbroncia, lo manda un po’ a farsi fottere. «Che è successo, stavolta? Sei triste perché è l’anniversario di quella volta in cui ti ha regalato i suoi calzini preferiti?»
«No, stronzo, quello è stato due settimane fa,» dice Claudio, poi si rende conto della cazzata, arrossisce così tanto che gli si potrebbe cuocere una bistecca sul naso. Dà un colpo di tosse, mentre Marco soffoca a stento un’altra risata contro le nocche di una mano. «Fottiti, veramente, fottiti, ma perché ti frequento?»
«Perché sono incredibilmente bono, e anche tu non sei male, per cui siamo naturalmente attratti l’uno all’altro,» offre Marco, pigramente, e Claudio pensa che dovrà venire un’invasione di cavallette prima che gli riesca di sentirsi attratto a Marco Borriello, però poi lo vede sorridere, quasi con gentilezza, ed è costretto ad ammettere che non è poi tanto male, Marco, quando sta zitto. «Dai. Che è successo, veramente?»
«Ma niente,» brontola, non ha davvero voglia di parlarne. Si rigira un lembo del copriletto tra le dita, Marco gli butta un braccio attorno alle spalle, gli preme il naso contro una guancia. «L’ho visto.»
«Oh,» dice Marco, soltanto, e Claudio gli vuole tirare un pugno perché che ne sa, lui, di che significa, il fatto che ha visto Alex? Niente, ecco, non ne sa niente, però Marco lo abbraccia un po’ più forte e gli dà un bacio proprio sotto l’orecchio, dove Claudio è sensibile da morire, e poi prosegue a baciarlo lungo la curva della mandibola finché non arriva all’angolo delle labbra, e allora si sposta, gli si siede in braccio, piantando le ginocchia ai lati del suo corpo e premendo la fronte contro la sua. «Mi spiace.»
«Ma che ne vuoi sapere,» gli dice, pianissimo, senza un briciolo di forza. Gli stringe i fianchi, perché se Marco gli cadesse di dosso potrebbe rompersi l’osso del collo e sarebbe un gran casino, e chiude gli occhi.
«Dai, usciamo.»
«Ma sei scemo? È mercoledì, c’è scuola domani.»
«Sì, ma c’hai bisogno di uscire,» insiste Marco, e Claudio non ha voglia di opporsi ancora. Non gli piace doverlo ammettere, però Marco ha ragione, e di uscire, per una volta, ha persino voglia. Dio, dove andremo a finire.
«Vabbè,» si arrende, quindi. Marco sorride un po’, gli si leva di dosso e si stiracchia appena, la maglietta che si arriccia scoprendo il bassoventre. «Un minuto che mi vesto.»
Marco non accenna a volersene andare, però fa quel sogghigno un po’ storto e un po’ stronzo per cui Claudio può solo sospirare, calciare via le scarpe e andarsene verso l’armadio a recuperare qualcosa di un po’ più decente della tuta consumata che ha addosso. La doccia l’ha fatta a scuola calcio, e grazie a Dio non fa per niente caldo, per cui è ancora accettabilmente pulito. Prende un paio di jeans a casaccio, una maglietta, una felpa leggera e tenta con tutte le sue forze di non guardare in direzione di Marco mentre si spoglia, rimane in mutande, si ficca i pantaloni e quelli naturalmente gli s’impicciano sui piedi, costringendolo a piegarsi come un pirla per sistemarsi.
Marco, miracolosamente, per una volta evita i commenti sconci, e sta soltanto lì, seduto sul bordo del suo letto, a guardare mentre Claudio tenta di infilare la testa dentro la manica della maglietta. Ridacchia un po’, magari, ma per i suoi standard è comunque stranamente sopportabile.
«Possiamo andare,» brontola Claudio, un minuto più tardi, passandosi una mano tra i capelli per stropicciarli perché non gli interessa davvero di tenerli in ordine, e poi mamma gli dice sempre che più se li incasina e quelli meglio gli stanno. Marco annuisce, balza su tutto allegro e gli dà una pacca in mezzo alle spalle. «Chiamiamo Seba?»
«Domani c’è scuola, lo sai che non verrà mai.»
Ha ragione, naturalmente, per cui Claudio si rassegna a passare la serata da solo con Marco. Mamma gli ordina di essere a casa prima di mezzanotte, lui giura, promette e rigiura, mentre Marco se la cava con uno di quei suoi sorrisi mozzafiato e un cenno gentile. Claudio non ci pensa, che potrebbe incontrare Alex per le scale, perché Marco lo distrae chiacchierando di scemenze e della sua professoressa di fisica e lui lo sta pure a sentire.
«Dove stai andando?» gli chiede Marco, quando lo vede proseguire per la rampa di scale che porta in garage. Claudio si blocca sul primo scalino, si acciglia.
«A prendere la Vespa,» dice. «Vuoi uscire a piedi?»
Marco ride.
«Ho la macchina, cretino, e tra tutti e due sei te che hai bisogno di bere.»
Claudio ci riflette, ci riflette, decide che Marco ha ragione. Si stringe nelle spalle, risale, lo segue fuori. Naturalmente, Alex è lì che butta la spazzatura. Claudio diventa un pezzo di marmo, gli ci vuole una concentrazione non indifferente per continuare a camminare come se niente fosse, e Marco, accanto a lui, pure quasi si ferma, nervoso. Alex gli viene incontro con gli occhi bassi, sta guardando chissà che sul marciapiede, poi si accorge di loro e alza lo sguardo e per un attimo sorride, sinceramente, e poi esita, incerto, sorpreso. Claudio gli fa un cenno, e subito praticamente scappa via. Marco rimane indietro, squadra Alex con una cattiveria che non ha neanche bisogno di premeditare, gli viene naturale, e poi corre dietro a Claudio, perché il cretino s’è avviato nella direzione sbagliata.
Lo trova nascosto dietro l’angolo del palazzo, con le spalle premute al muro e gli occhi chiusi, il respiro cortissimo. Gli viene il dubbio che magari sarebbe una buona idea lasciarlo da solo, ma si ignora e lo abbraccia forte, tenendoselo addosso anche quando Claudio non si muove.
«Non lo vedevo da mesi, Ma’,» lo sente bisbigliare, un attimo dopo. «Non lo vedevo da mesi e mo’ due volte in un giorno? Che cazzo è?»
«Ssshh,» lo blandisce Marco, accarezzandogli piano i capelli. «Zitto, non ci pensare, andiamo a sfondarci.»
Claudio annuisce, triste come un funerale, e lo segue.

seconda parte.

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