Il tempo stringe....

Nov 21, 2003 17:27

...avrei voluto parlare di altri dischi prima, ma, visto che dal 10/12 non credo avrò molto tempo a disposizione, preferisco rendere subito un doveroso omaggio a due artisti scomparsi lo scorso anno nel più assoluto (e forse è stato un bene) silenzio: Layne Staley e Chuck Schuldiner, rispettivamente voce degli Alice in Chains e dei Death. Iniziamo con il primo....

Alice in Chains- Jar of Flies (1994)
Immaginiamo che si girino due film aventi un soggetto identico: la vita di una rock star tossicodipendente alle prese con un improvviso quanto inaspettato successo, le difficoltà di affrontare il ruolo del "mito" in una società che brucia tutto troppo in fretta, l'inevitabile tragica conclusione! I due film però sono diretti e prodotti in due ottiche diverse: uno è un film per teen-agers, veloce, furbo, buono per far vendere tonnellate di magliette e far ricoprire migliaia di metri quadri da poster, l'altro è un film d'autore, troppo lungo, verista fino allo squallido, privo di messaggi consolatori.
Si potrebbe riassumere così la differenza tra la vita di Kurt Cobain e quella di Layne Staley- cantante degli Alice in Chains. Quello che passa tra il "bello e dannato" ed il "povero stronzo" sta anche nel tempo e nelle modalità dell'uscita di scena: Cobain è morto nel 1994, al top della sua popolarità, quando il termine (senza senso!) "grunge" era utilizzato per definire ogni fenomeno di costume, sparandosi un colpo in bocca- gesto al quale, di per sè, si potrebbero dare moltissimi (troppi!) significati (cosa che è puntualmente accaduta). Staley è morto 8 anni dopo, quando le camicie di flanella non le portava ormai più nessuno e Seattle era tornata ad essere un'anonima metropoli americana, trovato nel suo appartamento, dopo due giorni, con la siringa ancora nel braccio.
Poco importa che una tossicodipendenza così lunga equivale ad un suicidio cercato con molta più costanza e razionalità di un colpo di fucile sparato in uno stato di alterazione dovuto dall'assuefazione di sostanze stupefacenti. Fosse morto negli anni '90, lo show businnes avrebbe fatto anche del frontman degli Alice in Chains un mito da immaginetta; invece il finale scontato è arrivato troppo tardi, con uno Staley dimenticato da tutti (incredibilmente l'industria discografica non ha neanche tentato qualche operazione commerciale sfruttando la sua immagine post mortem, il che la dice lunga sulla presentabilità del personaggio!), senza alcun'aureola di "angelo bruciato".
Qualcuno potrebbe farmi notare che, anche quando erano vivi e vegeti, I Nirvana erano immensamente più famosi degli Alice in Chains (che pure hanno venduto milioni di dischi), ma, se dobbiamo fare un bilancio della produzione dei due gruppi, siamo sicuri che i tre dischi dei Nirvana (fondamentalmente ripetitivi, esaltati soprattutto per il loro conciliare furia punk a testi intimisti- cosa che facevano 10 anni prima, con molta più classe, fantasia e convinzione, gli Hùsker Dù) siano superiori ai tre (più due E.P.) degli Alice in Chains??
Cobain si era (era stato?) innalzato a cantore/rappresentante di una generazione "priva di valori", "orfana di un credo" (e avanti con la fiera del luogo comune), Staley raccontava solo se stesso, crogiolandosi nel proprio squallore con un autocompiacimento a volte imbarazzante. Intendiamoci: anche il sensazionalismo degli A. in C. si caratterizzava spesso come finta ribellione, ben confezionata e comodamente acquistabile nei migliori negozi di dischi, non è un caso quindi che la loro più significativa eredità si trovi nella mezz'oretta che compone questo E.P. prevalentemente acustico, registrato in fretta e furia, senza un gran lavoro di produzione sopra- cosa che si evince dalle numerose stecche di chitarra disseminate qua e là. Il disco, pur nella sua brevezza, rappresenta al meglio le anime del gruppo: quella disperata e sconfitta- qui in maniera non ostentata- che si esprime tramite voce al vetriolo di Staley, quasi sempre valorizzata da due sovraincisioni ("Rotten Apple", "I Stay Away") e quella più positiva e cantautoriale della voce pacata e della chitarra di Jerry Cantrell ("No Excuses" e la bellissima "Don't Follow"); dove queste due anime si incontrano, danno alla luce un capolavoro nel capolavoro: quella "Nutshell", amara e fragile ballata- forse il più bel brano scritto negli anni '90- nella quale la solita figura del "looser" viene stemperata dall'orgoglio della propria coerenza ed indipendenza.
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