Titolo: “Flame of Love” 04 - “Shizuka na yoru ni” (In questa notte silenziosa)
Fandom: Hey! Say! JUMP
Personaggi: Yaotome Hikaru, Inoo Kei
Pairing: Hikanoo
Warnings: Slash, AU, Mini-long
Word Count: 2.371
fiumidiparoleRating: NC-17
Prompt: “34. Silenzio”
NdA: Storia scritta per la challenge
mezza_tabella. Il titolo della storia è omonimo del solo di Yaotome Hikaru, quello del capitolo è tratto dal (sempre omonimo) solo di Ohno Satoshi.
- Flame of Love -
04 - Shizuka na yoru ni
Erano passate due settimane.
Due settimane, e Hikaru aveva perso il conto delle volte in cui aveva pensato di chiamare Kei, delle notti in cui si era svegliato convinto di poterselo ritrovare accanto, dei momenti della giornata in cui il pensiero di non poterlo vedere lo faceva sentire maledettamente vuoto.
Gli mancava, Kei.
Gli mancava terribilmente, più di quanto non si fosse aspettato.
Eppure, nonostante questo, ancora non era in grado di prendere una decisione.
Tutte le sere tornava a casa, guardava Mitsuko negli occhi e pensava che avrebbe dovuto dirle come stavano le cose, che avrebbe dovuto dirle della sua relazione con Inoo, del perché l’aveva sposata, di tutto quello che le aveva taciuto durante gli anni.
E, puntualmente, rimaneva in silenzio.
Senza più la scusa di Kei per uscire di casa, si era rintanato in quelle quattro mura, e aveva scoperto di non conoscerle affatto, aveva scoperto quanto gli fossero estranee.
Aveva scoperto quale fosse il suo posto, e il fatto di non poterselo andare a prendere per colpa dei suoi stessi limiti e della sua stessa viltà, lo stava uccidendo lentamente.
Qualche giorno prima, aveva chiamato Kei.
Non aveva resistito oltre, e sperava che anche l’altro potesse cedere, che gli dicesse che non era importante quanto avrebbe aspettato, che aveva voglia di vederlo.
Non era stato così fortunato.
Il suo tono di voce non gli era piaciuto, affatto.
Gli aveva chiesto se avesse preso una decisione, e quando lui aveva cominciato a spiegargli le sue ragioni lo aveva immediatamente interrotto.
E allora perché hai telefonato?
Perché aveva voglia di sentire la sua voce.
Perché aveva bisogno di dirgli che lo amava.
Perché voleva sapere se anche lui sentisse la sua mancanza, come se non avesse abbastanza aria per respirare, come se la sua presenza fosse diventata necessaria anche solo per vivere.
Non gli aveva detto niente di tutto ciò, perché sarebbero state prese ancora una volta per scuse.
Aveva chiesto scusa, poi aveva riattaccato.
E ora, a distanza di giorni, si pentiva di non aver detto di più, di non aver cercato di far fronte alla sua ostinazione, per giustificata che fosse.
Si era arreso fin troppe volte nella sua vita, ma riconosceva che c’erano cose alle quali non era disposto a rinunciare.
Kei, era una di queste.
Era seduto in un bar, da solo.
Aveva finito di lavorare tardi quella sera, e la sua mancanza di voglia di tornare a casa non era mai stata così forte.
Aveva bevuto, e tanto anche.
Aveva posato il cellulare sul bancone, osservandolo mentre lo schermo s’illuminava e compariva il numero di Mitsuko.
Non avrebbe risposto.
La immaginò a casa, preoccupata, e si sentì lievemente in colpa.
Ma il senso di colpa era qualcosa alla quale ormai era divenuto uso.
Le mandò una mail alla fine, dicendole che quella notte non sarebbe tornato a casa.
Non le diede spiegazioni, né rispose alle sue successive mail che le chiedevano.
Non sapeva che cosa avrebbe fatto, sapeva solo che la sua pelle era stanca di quelle lenzuola che non avevano con sé l’odore di Kei, che alle sue mani mancava toccarlo, che tutto il suo corpo sembrava avere un bisogno fisico di lui, e che quando era in quella casa la presenza del ragazzo gli sembrava sempre più distante.
Continuò a bere, cercando di annegare nell’alcool quel suo bisogno insaziabile di vederlo, ma ci mise troppo a rendersi conto che invece bere non faceva altro che peggiorare le cose.
Si alzò, sentendosi malfermo sulle proprie gambe.
Il cellulare continuava ad illuminarsi, a mostrargli mail e telefonate.
Non ne poteva più.
Lo spense, facendoselo scivolare in tasca e cercando di dimenticarsi di Mitsuko, del fatto che fosse preoccupata... della sua stessa esistenza.
Uscì dal bar, e camminò a lungo.
Avrebbe detto di essere senza una meta, ma quando si ritrovò nei pressi del palazzo in cui abitava Kei sapeva che era esattamente lì che stava andando.
Suonò al citofono e attese.
Era l’una del mattino, avrebbe dovuto essere a casa.
E anche se non lo fosse stato, sarebbe rimasto lì ad aspettarlo.
Non aveva un posto in cui tornare.
“Chi è?” sentì la voce metallica rispondergli, ed ebbe come un tuffo al cuore.
“Kei...” biascicò, la voce leggermente impastata dall’alcool.
Ci fu una pausa che gli parve durare un’eternità, prima che l’altro parlasse di nuovo.
“Hikka?” mormorò, con tono a malapena udibile, e Hikaru non avrebbe saputo dire che cosa esprimesse.
“Fammi entrare, Kei. Ti prego.”
Altra pausa.
Poi gli parve di udire un sospiro, prima che il portone si aprisse.
Sollevato, entrò e salì velocemente le scale.
Quando arrivò al piano in cui abitava il ragazzo, lo trovò ad aspettarlo sulla soglia.
Fremette. Era ancora più bello di quanto ricordasse.
Il pensiero di essersene privato per due settimane lo fece quasi sentire male, ma cercò di non pensarci.
Era lì, di fronte a lui.
Là dove avrebbe potuto toccarlo, là dove avrebbe potuto abbracciarlo, baciarlo, dirgli che gli era mancato e che non avrebbe voluto lasciarlo mai più.
Gli si avvicinò lentamente, toccandolo su un braccio come a volersi sincerare del fatto che fosse vero.
Lo era.
Era vero lui, era vera la sua espressione corrucciata, era vero il suo silenzio.
Hikaru avrebbe voluto che fosse felice di vederlo, ma non aveva eccessive pretese.
Conosceva fin troppo bene i suoi sbagli.
“Ciao Kei” mormorò, chiudendo gli occhi e saggiando la consistenza della pelle sotto le proprie mani.
Ebbe pochi secondi a sua disposizione, prima che l’altro si sottraesse a quel tocco.
“Che cosa ci fai qui, Hikka?” gli chiese, il tono di voce neutro.
“Avevo... avevo voglia di vederti. Ne avevo bisogno Kei, lo capisci? Non hai idea di quanto tu mi sia mancato” gli disse, senza riuscire a nascondere l’esasperazione.
Il più piccolo si morse un labbro, prima di scostarsi dalla soglia per farlo passare.
“Sei ubriaco. Entra.”
Hikaru fece un passo in quell’appartamento, respirando a pieni polmoni.
Insieme a Kei, gli era mancata quella casa.
Gli era mancata quell’aria di familiarità, quel senso di protezione e sicurezza che gli davano quelle mura, quella sensazione di tranquillità che non era in grado di trovare in nessun altro luogo.
Inoo rimase fermo a guardarlo, in silenzio.
Poi andò verso la cucina, con un sospiro.
“Vado a fare del caffè, cerco di farti passare la sbronza” mormorò, come rassegnato.
Il più grande lo seguì, lievemente scoraggiato da quella sua apparente mancanza di reazioni.
Non che si fosse aspettato di essere accolto a braccia aperte, ma quel suo atteggiamento distaccato non gli piaceva affatto.
Mentre l’altro si avvicinava ai fornelli e prendeva la caffettiera, gli andò dietro le spalle, cingendogli la vita con le braccia e posandogli la fronte contro la nuca, respirando il suo odore.
“Non ce la faccio a stare senza di te, Kei” sussurrò, rimanendo in attesa di una reazione dell’altro, trattenendo il respiro.
“Che cosa sei venuto a fare, Hikaru?” chiese il più piccolo, senza muoversi da quella posizione. “Hai preso la tua decisione? O sei solo venuto a rifugiarti qui perché non sai scegliere, perché ancora una volta non hai il coraggio per farlo?” lo accusò, e quelle parole gli fecero male ancor più del suo silenzio.
Eppure lo sapeva. Sapeva che le avrebbe dette perché Kei non aveva mai nascosto quello che pensava, sapeva che le avrebbe dette perché non erano altro che la verità.
Una verità davanti alla quale non era ancora pronto ad arrendersi.
“Sono venuto perché questi ultimi giorni mi sono sembrati come l’inferno. Perché non ce la faccio a sopportare il pensiero di non poterti avere. Perché ti amo, Kei, ti amo più di quanto tu non possa immaginare” sciolse la presa da lui, togliendosi la fede dal dito e scagliandola in un angolo della stanza. “Sono tornato perché senza di te la mia vita non ha nessun senso!” urlò, mordendosi un labbro e rimanendo fermo a guardarlo.
Di nuovo, l’altro non sembrò intenzionato a reagire in modo significativo.
Si limitò a chinarsi, prendendo in mano l’anello e guardandolo con aria pensierosa.
“Puzzi di alcool da lontano un miglio, Hikaru. Domani mattina ti pentiresti di non trovarla più, lo sappiamo entrambi” gli disse, facendo scivolare l’oggetto fra le mani del più grande.
Yaotome si irritò per quel semplice gesto.
Posò l’anello sul tavolo dietro di lui, poi andò nuovamente vicino a Kei, le mani sui suoi fianchi e il viso vicino a suo.
“Sono ubriaco abbastanza da non aver avuto remore nel venire qui, nonostante io non abbia ancora avuto il coraggio di lasciare Mitsuko. Ma non sono così ubriaco da non sapere quello che voglio” gli disse, con il tono più fermo che riuscì ad utilizzare.
Poi lo baciò, sia perché ne aveva voglia sia perché era certo di non riuscire a sopportare l’ennesimo dei suoi silenzi.
Inoo si lasciò baciare, passivamente.
Le mani del più grande risalirono lungo i suoi fianchi, sotto la maglietta, portandogliela sopra la testa e sfilandogliela con un gesto repentino.
Hikaru rimase fermo per qualche secondo a fissarlo, con il fiato quasi mozzato.
Si era quasi dimenticato come fosse fatto.
Riprese a baciarlo, scendendo con la lingua lungo la sua gola, prendendo a leccargli lascivamente la clavicola, poi andando a finire su un capezzolo, mordendolo, baciandolo, assaggiando quella pelle per riscoprirne il sapore.
E di nuovo, si sentì a casa.
Si mise in ginocchio di fronte a lui, sfilandogli lentamente i pantaloni e i boxer, senza mai distogliere lo sguardo dai suoi occhi.
Kei lo guardava senza il minimo trasporto, ma non lo respingeva.
Non diceva una parola.
Sempre più irritato da quel silenzio, Hikaru portò una mano sopra l’erezione del più piccolo, trovandola già dura.
Ghignò leggermente al pensiero che il suo corpo non concordasse con la sua mancanza di reazioni.
La bocca raggiunse la mano, e lo prese in bocca senza troppe cerimonie, cominciando a leccare per tutta la lunghezza e divertendosi e vederlo mordersi un labbro, nel tentativo di non gemere, di non cedere di un passo sulle sue posizioni.
Ma non gli importava, in fondo.
Voleva che Kei lo stesse ad ascoltare, che lo capisse, voleva che avesse bisogno di lui così com’era vero il contrario.
Ma non in quel momento.
In quel momento voleva sentirlo e basta.
Prese la sua erezione in bocca il più che poté, cercando di strappargli qualche gemito e venendo ricompensato con ben poco; eppure Kei era vicino all’orgasmo e, sebbene riuscisse a trattenere qualsiasi verso, riusciva a sentirlo. Conosceva quel corpo troppo bene per non poterlo dire.
Venne dentro la sua bocca, e lui gli diede pochi secondi per riprendersi.
Quando vide le sue ginocchia cedere sotto il peso, gli mise un braccio intorno alla vita, facendolo distendere a terra e sdraiandoglisi sopra.
“Sei bellissimo, Kei” gli sussurrò, persosi un attimo nel guardare il suo viso ancora stravolto dall’orgasmo.
Di nuovo, silenzio. Di nuovo, lui riprese a muoversi.
Si mise velocemente due dita in bocca, senza perdere tempo, preso dalla smania di sentire quel corpo intorno al proprio.
Fece scivolare un dito dentro di lui, cominciando a prepararlo e contemporaneamente portando la bocca sulla sua, cercando di sentirlo sempre più vicino, cercando di strappargli una qualche reazione.
Ma Kei non era con lui in quel momento.
C’era il suo corpo, c’era il suo respiro affannato, ma non c’era lui.
Tentando di non pensarci, continuò a prepararlo sbrigativamente, fino a quando non lo ritenne pronto; poi si sistemò meglio fra le sue gambe, portandone una contro il suo fianco e rimanendo fermo per qualche secondo a guardarlo.
“Kei...” mormorò, come a chiedere conferma.
Il più piccolo voltò la testa da una parte, chiudendo gli occhi, e lui lo imitò.
Non voleva più vedere quella mancanza di espressioni, solo godersi la sensazione di averlo nuovamente sotto di sé, quella che aveva agognato nelle ultime due settimane.
Lo penetrò, con un gemito strozzato, e si sentì finalmente bene.
L’effetto dell’alcool sembrava essere sparito, e lui si sentiva perfettamente lucido.
Sentiva il calore del corpo di Kei, sentiva il suo respiro pesante, lo sentiva contrarsi intorno alla propria erezione.
Sentiva tutto, ed era ciò che voleva.
Iniziò a spingere, lentamente.
Non aprì mai gli occhi e non disse più nulla, perché se quello che l’altro voleva era il silenzio, allora almeno quello gli avrebbe concesso.
I suoi movimenti si facevano sempre più erratici, più profondi, mentre lo sentiva tornare duro fra i loro corpi.
Portò la mano sulla sua erezione, cominciando a toccarlo con decisione, sentendosi ormai vicino al proprio limite.
Lo fece venire dopo pochi minuti, per poi svuotarsi dentro di lui, senza riuscire a trattenere un grido strozzato.
Poi rimase fermo.
Fece perno sui gomiti per non pesargli addosso, e finalmente riaprì gli occhi.
Attese che accadesse qualcosa, qualsiasi cosa.
Anche Kei aveva gli occhi aperti, ma ancora non lo guardava.
Hikaru si sfilò delicatamente da dentro di lui, stendendoglisi di fianco.
Fu a quel punto che il più piccolo si voltò nella sua direzione, e la sua espressione non lasciava presagire niente di buono.
“Vattene, Hikaru” mormorò.
L’altro boccheggiò, come se quelle due semplici parole gli avessero tolto il fiato.
“Perché? Kei, ti prego, te l’ho detto... io non ci so stare senza di te. Per favore, fammi rimanere, almeno stanotte” gli chiese, implorante, mettendosi a sedere e tentando di abbracciarlo una volta che lui ebbe fatto altrettanto.
Ma Inoo lo respinse. Non fu brusco, ma sicuramente deciso.
“Mi sei stato vicino, no? Sei venuto qui nonostante io ti avessi chiesto di non farlo fin quando non avessi deciso quale strada imboccare. Mi hai scopato come se fossi solo una puttana, perché è così che mi hai fatto sentire.” gli disse, sorprendentemente calmo. “Non c’è altro che tu possa volere adesso da me, Hikaru. Vattene.” ripeté, alzandosi in piedi e raccattando i propri vestiti, prima di dirigersi verso la stanza da letto.
Hikaru aveva voglia di piangere.
Aveva voglia di implorarlo, ma sapeva che sarebbe stato tutto inutile.
Si rivestì, velocemente.
Si diresse verso la porta, sempre con la speranza che l’altro lo fermasse.
Fissò gli occhi su quell’appartamento, come se fosse l’ultima volta che gli era concesso vederlo.
Non gli dava più quella sensazione di benessere.
C’era troppo silenzio.
Uscì da quella casa, portandosi dietro quell’amore che non era ancora abbastanza bravo da esprimere.