[Hey! Say! JUMP] Kokochi yoku nagareru kono oto 04

Feb 04, 2012 15:37

Titolo: “Kokochi yoku nagareru kono oto” (Questo suono che scorre per l’eternità) - “Kore shika dekinai yo” (Non posso fare niente di più di questo)
Fandom: Hey! Say! JUMP
Personaggi: Yaotome Hikaru, Inoo Kei
Pairing: Inoobu
Warnings: Slash
Parole: 2.060 fiumidiparole
Rating: PG
Prompt: “Io amo un uomo, tu proteggilo come io l’amo” (“Ave Maria Pagana”)
NdA: Storia scritta per la challenge corte_miracoli. Il titolo della storia è tratto da “Oto”, di Yabu, quello del capitolo da “Mamoritai” di Ohkura.



04 - Kokochi yoku nagareru kono oto

Kore shika dekinai yo

Si era chiesto spesso come loro due avessero finito con lo stare insieme.

Si domandava se fosse stato un caso o se Kei fosse andato a cercarlo.

Si ricordò della prima volta che l’aveva baciato, e gli venne da ridere al pensiero dello sguardo del più piccolo, un misto fra la confusione e la felicità.

Era il pensiero di riuscire a renderlo felice che l’aveva sempre mandato avanti nel corso degli anni.

E quella felicità, quella dedizione, quel suo restargli sempre accanto nonostante tutto, gli facevano capire quanto amore avesse ricevuto, forse senza nemmeno apprezzarlo come avrebbe meritato.

Inoo Kei lo amava, più di quanto avesse mai amato chiunque l’altro, e lui sperò di essere riuscito a fargli capire che quel sentimento era assolutamente reciproco.

Yabu fissò il fidanzato, con un sorriso triste.

No. Niente si sarebbe mai nemmeno potuto avvicinare all’amore che lui provava per Kei.

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Quando Hikaru era andato ad aprire alla porta, era rimasto sorpreso nel trovarsi davanti Kei.

Dal suo sguardo poteva capire chiaramente che c’era qualcosa che lo turbava, che aveva pianto probabilmente e la cosa lo atterrì mentre nella sua mente cominciavano a prospettarsi gli scenari peggiori.

“Kei... entra, io... non ti aspettavo” gli disse, scostandosi dall’uscio per farlo passare.

Il più grande chinò il capo, entrando nell’appartamento con calma, togliendosi le scarpe e seguendo il padrone di casa fino in salotto.

“Mi dispiace di essere venuto senza avvisarti prima. Ti ho disturbato?” domandò, e Hikaru notò che il suo tono di voce appariva forzatamente controllato. Si affrettò a scuotere la testa.

“No, assolutamente. È... è successo qualcosa?” gli chiese, sempre con una certa ansia nonostante l’apparente calma dell’altro.

Lo vide mordersi un labbro, come se stesse cercando di capire se quello che doveva dirgli rientrasse nella definizione di ‘successo qualcosa’. Ma alla fine, parve optare per un no.

“No, non è successo niente. Niente di grave, almeno, sta tranquillo” gli disse, e all’altro fu difficile credergli, ma lo lasciò continuare. “C’è qualcosa di cui vorrei parlarti, Hikka” gli disse, sedendosi sul divano.

Il biondo rimase in piedi di fronte a lui; non aveva il minimo indizio su quello che l’altro avesse intenzione di dirgli, ma per qualche ragione l’istinto gli diceva di non sedersi insieme a lui sul divano, di non mettersi a proprio agio.

“Di cosa?” domandò, sulla difensiva.

Inoo distolse lo sguardo da lui, rivolgendolo verso un punto non definito alle sue spalle.

“Di Kota” disse, con decisione. Poi incrociò le braccia al petto, lasciandosi ricadere contro la spalliera del divano. “Del fatto che tu sei innamorato di lui” aggiunse, e Hikaru sentì gelarsi il sangue nelle vene.

Del fatto che tu sei innamorato di lui...

Venendo spesso malgiudicato, aveva imparato a non malgiudicare le persone; per questo non aveva mai creduto davvero che Kei fosse così fuori dal mondo come dava a vedere.

Pensava che avesse un buono spirito d’osservazione, ma di certo non credeva che si fosse accorto di quello che lui provava per Yabu.

E non lo credeva per il semplice fatto che non ne aveva mai dato segno; non aveva mai dimostrato ostilità nei suoi confronti, né gelosia, né la minima preoccupazione.

Hikaru si chiese se fosse perché gli voleva bene, perché non lo riteneva una minaccia o solo perché nutriva fiducia in lui.

Non sapeva se al suo posto avrebbe fatto lo stesso.

Non ribatté alla sua ultima affermazione, e attese che continuasse a parlare.

“Lo so che sei sempre stato innamorato di lui. E credimi, mi dispiace di essere in un posto in cui avresti voluto essere tu, perché amo Kota ma voglio bene a te, e il fatto che tu abbia sofferto... non mi ha mai fatto sentire del tutto in pace con me stesso” gli disse, aggrottando le sopracciglia come se si fosse appena imbattuto in un pensiero spiacevole nei meandri della propria mente.

Hikaru si affrettò a rassicurarlo.

“Non devi... Kei-chan, tu ami Yabu e lui ama te. Io non ho mai pensato che tu... ecco...” arrossì, nuovo a quella sensazione di disagio “Non l’ho mai vista come se tu mi avessi portato via qualcosa. È te che Yabu ama, non me. Con il tempo me ne sono fatto una ragione” spiegò, chinando lo sguardo.

Inoo rimase assorto per qualche secondo, quasi in contemplazione.

“Non lo puoi sapere questo. Io ho detto a Kota che l’amavo e tu non l’hai mai fatto. Forse se gliel’avessi detto le cose sarebbero andate diversamente” disse, e Hikaru si azzardò ad alzare nuovamente gli occhi in sua direzione.

“Non sono d’accordo. Yabu non ha iniziato ad amarti dal nulla solo perché tu gli hai detto di essere innamorato di lui. Se siete stati insieme tutti questi anni significa che quell’amore è reciproco, e che se anche tu non gli avessi mai detto niente lui comunque non sarebbe mai stato capace di provare per me quello che ha sempre provato per te” ribatté, rendendosi conto solo alla fine di quanto gli facesse male pronunciare quelle parole a voce alta, sebbene fosse un pensiero nel quale si era spesso crogiolato nel corso degli anni.

Kei lo guardò negli occhi, sorridendo.

Hikaru si sentì a disagio per quel sorriso, per quella presenza, per il fatto che non riusciva a comprendere che cosa il più grande stesse cercando di dirgli.

Fu a quel punto che Inoo si alzò dal divano, avvicinandosi a lui e continuando a fissarlo, tanto che a Yaotome riuscì difficile non distogliere lo sguardo da quegli occhi penetranti.

“Hikaru... io e te proviamo lo stesso sentimento nei confronti di Yabu. E tutto quello che vogliamo è che sia felice. È così anche per te, no? Tu vuoi che sia felice, indipendentemente dall’averti accanto o meno, oppure non avresti sopportato così di buon grado la nostra relazione” gli disse, con tono pacato.

Yaotome si morse un labbro, e poi annuì.

Certo che voleva che Kota fosse felice. A lungo andare, fatti i conti con quello che provava e con il fatto che non sarebbe mai stato ricambiato, il sorriso sul volto dell’altro era diventata l’unica cosa importante per lui.

Inoo annuì a sua volta, quasi distrattamente, poi continuò a parlare.

“Io amo Yabu. E voglio che sia felice, esattamente come lo vuoi tu. Indipendentemente dalla mia presenza” la sua voce parve tremare per un secondo, come se stesse vacillando. “Tu proteggilo come io lo amo” mormorò alla fine.

Hikaru lo guardò con occhi sbarrati.

Non comprendeva il significato di quelle parole.

Non sapeva perché Kei in quel momento si trovasse di fronte a lui, perché avesse voluto precisare proprio in quel momento l’amore di Hikaru per il proprio fidanzato, non sapeva il perché di quel discorso sulla felicità di Kota.

Sapeva solo che provava un vago senso di inquietudine, al quale non riusciva a dare voce.

Kei chiuse brevemente gli occhi, e quando gli riaprì il suo sguardo appariva nuovamente fermo, deciso.

Si avviò verso la porta, senza dire una parola. Solo dopo che si fu rimesso le scarpe e sul punto di andare via, si voltò nuovamente verso il più piccolo.

“Promettimelo, Hikka” gli chiese, e questi lesse una nota di disperazione in quel tono così controllato.

“Te lo prometto, Kei” rispose, incerto sul perché stesse promettendo, su cosa stesse promettendo.

Ma Inoo in quel momento se ne andò, lasciandolo da solo con i suoi dubbi.

Sentì il respiro farsi pesante, e cercò di regolarlo, di scacciare quella sensazione di... sbagliato.

Era chiaro che Inoo volesse proteggere Yabu. Che lo volesse felice.

Ma lui, in tutto quello, che ruolo aveva?

Era Kei a pensare alla felicità del più grande, perché non era un diritto di Hikaru farlo, e quello non sarebbe cambiato mai.

Si accasciò sul divano, con lo sguardo perso nel vuoto.

Quella sensazione non si decideva ad abbandonarlo.

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Quando Kei tornò a casa, si sentì improvvisamente vuoto.

Non sapeva cosa pensare.

O meglio, era stanco di pensare.

Erano giorni che non faceva altro. Mesi, forse.

Ed era forse proprio per quella sua incapacità di non lasciarsi tormentare dai propri pensieri che ora si ritrovava in quella situazione.

La sera prima Yabu era tornato a casa dopo ore.

Gli aveva chiesto scusa, ma era come se non credesse realmente di avere qualcosa per cui scusarsi.

E non per presunzione, ma perché nemmeno lui sapeva esattamente che cosa avesse fatto.

E del resto, anche Inoo lo ignorava.

Nessuno dei due aveva delle colpe, eppure avevano delle responsabilità entrambi.

Kota aveva lasciato che il tempo scorresse senza fare niente per rallentarlo, lasciando che li trasportasse in quel vortice che li aveva feriti, li aveva trasformati, fino a renderli irriconoscibili l’uno agli occhi dell’altro.

E lui dal canto suo si sentiva un fallimento.

Anni prima, quando lui e Yabu si erano messi insieme, aveva creduto che niente potesse scalfirli, non finché si amavano, non finché rimanevano l’uno accanto all’altro.

Si era sbagliato. Aveva ferito Kota ed era stato ferito a sua volta, e il dolore che provava adesso era troppo per poter effettivamente sperare che passasse, per poter fare qualcosa di concreto per far sì che sparisse.

Non aveva più voglia di lottare, solo di arrendersi finalmente, per trovare finalmente riposo, per non essere più costretto a pensare.

Chiudere gli occhi, per non vedere lo sguardo di Yabu e dover constatare che quegli occhi non erano più suoi come una volta, che si erano pian piano spenti e che lui non era più in grado di riconoscerli.

Aveva amato Kota dal primo momento in cui l’aveva visto.

Aveva costruito quell’amore, gli ci era voluta pazienza, e alla fine quello stesso amore era diventato qualcosa che entrambi potessero condividere.

Erano andati avanti in quel modo per del tempo, senza che la situazione riuscisse a mutare in nessuna situazione.

Non avrebbe saputo dire che cosa fosse subentrato poi a far sì che quell’amore si scindesse, che ognuno dei due diventasse padrone del proprio amore, senza riuscire tuttavia a metterne l’altro a parte.

Non era questo quello che voleva, non era questo che meritavano.

Andare avanti in quel modo gli sembrava come un insulto a quello che avevano condiviso durante quegli anni.

Ma non sarebbe stato in grado di guardarlo negli occhi e dirgli che fra loro era finita, perché non era così.

Lui avrebbe continuato ad amarlo per sempre, perché era così che doveva essere.

E, ne era certo, anche Yabu non avrebbe mai smesso di amarlo.

Tutto quello che sperava in quel momento, era che quello stesso amore non diventasse un ostacolo per la felicità del più grande.

Lentamente si diresse verso il bagno, con passo strascicato, come se realmente non ne avesse voglia.

Si chiuse la porta alle spalle, cominciando lentamente a svestirsi.

Aprì l’acqua, senza aspettare che divenisse calda, mettendosi direttamente sotto il getto gelido.

Si passò le mani davanti al viso, tremando.

Continuò a tremare anche quando l’acqua si riscaldò, e allora comprese che non era colpa del freddo.

Sospirò profondamente, chiudendo gli occhi.

Quando li riaprì piangeva, felice che le gocce d’acqua si mischiassero alle sue lacrime, perché potesse fingere almeno con se stesso di avere ancora una parvenza di dignità.

Sempre muovendosi lentamente poi, mise la testa fuori dalla doccia, sporgendosi verso il lavello, prendendo un rasoio dalla mensola.

Si sedette a terra, facendo forza sulla testina per far uscire la lama.

Rimase ad osservarla, cominciando a rigirarsela fra le dita come per convincersi a lasciarla andare.

Ci provò, ci provò davvero.

Continuò a pensarci mentre avvicinava il filo della lama al proprio braccio.

Continuò a pensarci mentre la posava sulla pelle.

Continuò a pensarci mentre faceva pressione, muovendola dal basso verso l’alto seguendo la linea della propria vena.

Sempre più pressione, sempre più pressione.

Il sangue spiccava maggiormente sul pallore della sua pelle.

Vederlo lo fece sentire... strano.

Calma, perché sapeva che di lì a poco i suoi occhi si sarebbero chiusi e lui finalmente avrebbe potuto riposare.

Paura, perché qualcosa dentro di lui gli diceva che avrebbe dovuto fermarsi, ma non riusciva a farlo.

E nel frattempo, ripeteva la medesima operazione sull’altro braccio, mentre cominciava a sentire girare la testa e gli occhi chiudersi.

Preoccupazione, perché non riusciva a togliersi dalla testa l’immagine di Yabu, di quello che avrebbe provato, del dolore che per l’ennesima volta gli avrebbe causato.

Terrore, perché nonostante quello che stava facendo a se stesso, prima di chiudere gli occhi non riuscì a reprimere il desiderio di vedere il volto di Kota per l’ultima volta.

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