Tabella: wTunes Playlist
Claim: [KAT-TUN] Kamenashi Kazuya, Akanishi Jin, Taguchi Junnosuke, Tanaka Koki
Prompt: “Ho paura che tutto questo possa consumare il tuo cuore: io e te non possiamo avvicinarci più di così” (Torn, Ohkura Tadayoshi&Nishikido Ryo)
Titolo: Hold me Kowareru Made (Stringimi finché non mi spezzo) - Semete ima Dake wa Boku wo Shinjite Hoshii (Vorrei che almeno adesso tu mi credessi)
Beta Reader: Simph
Personaggi/Pairing: Akanishi Jin, Ueda Tatsuya
Rating: G
Warning: Introspettivo
Word Count: 1.492
Introduzione: “Quel se stesso che in quel momento quasi lo disgustava, perché mai come adesso aveva avuto meno stima di sé, di quello che aveva fatto, del modo in cui si sentiva e in cui aveva fatto sentire Kazuya.”
Semete ima dake wa Boku wo Shinjite Hoshii
Quando era uscito da casa, Jin si era sentito improvvisamente vuoto.
Come se tutto fosse finito. Come se non ci fosse più niente da salvare.
Sceso in strada aveva fermato un taxi, e aveva dato all’autista l’indirizzo di casa di Ueda, quasi istintivamente.
Sarebbe potuto andare in un qualsiasi albergo, passare i successivi due giorni ad arrovellarsi e poi tornare in America, accompagnato dal pensiero di quello che aveva fatto a Kame.
Ma non gli andava.
Non voleva rimanere da solo, non voleva pensare, non voleva nemmeno immaginare che cosa gli riservasse il prossimo futuro.
Non riusciva a credere di essersi messo in quella situazione.
Aveva tradito Kame. Era qualcosa che era fuori dai suoi schemi, quasi si sarebbe rifiutato di crederci se non avesse bene impressa nella mente l’immagine di se stesso, risvegliatosi una mattina in un letto che non era il suo.
Aveva un ricordo solo vago di quello che era successo, ma negare l’evidenza dei fatti era impossibile.
Era stato a letto con un altro uomo.
Che fosse ubriaco contava poco e, lo sapeva, non cambiava niente agli occhi di Kazuya.
Si era sentito malissimo, dopo.
Era tornato a casa e si era infilato sotto la doccia, provando un bisogno quasi compulsivo di lavare i segni di quella notte; inorridito, si era scoperto sul corpo segni di morsi e lievi graffi. Uscito dalla doccia, aveva evitato di guardarsi allo specchio.
Nei giorni a seguire, aveva cercato di mantenere un certo distacco; le telefonate con Kame erano sempre sullo stesso livello, non si era dovuto sforzare troppo di fingere che tutto andasse bene. Bastava raccontare quello che aveva fatto, tralasciando le serate passate disteso sul letto a fissare il vuoto, pensando a cosa fare.
Si era rifiutato di dirgli una cosa del genere al telefono; e, a ben pensarci, aveva deciso di non dirglielo affatto.
Sarebbe rimasto un avvenimento fine a se stesso, uno sbaglio che non avrebbe mai più ripetuto. E Kame non sarebbe mai venuto a saperlo.
Questa era stata la sua decisione.
Ed era rimasta tale fino a pochi minuti prima.
Ma poi sentire il contatto con la pelle di Kame, con le sue mani e le sue labbra, sapere che cosa sarebbe accaduto di lì a poco, l’avevano fatto sentire peggio di quanto credesse. La sua mente si era riempita delle sfuocate e confuse immagini di quella notte, e non era riuscito ad andare oltre.
Forse, in fondo, sapeva che l’avrebbe fatto. Aveva tradito Kame nel momento in cui era stato con quell’uomo, non poteva tradirlo anche non dicendogli quello che era accaduto.
Anche affrontandone le conseguenze.
E adesso non sapeva cosa fare. Avrebbe voluto parlargli un po’ più a lungo, anche solo per ripetergli che lo amava, come un disco rotto, anche solo per tentare di fargli capire che cosa gli passava per la mente. Ma non poteva non ammettere che al posto suo, forse nemmeno lui avrebbe voluto ascoltare. Non avrebbe voluto guardarlo in faccia, perché non ci sarebbe riuscito senza poi farsi sovvenire alla mente le immagini più grottesche di quanto era successo, quando l’immaginazione giocava scherzi ancora peggiori della realtà.
Una volta arrivato a casa di Tatsuya aveva suonato il campanello, pregando che l’amico fosse in casa.
Fu fortunato.
“Jin? Oh... ma...” aveva bofonchiato, spalancando gli occhi per la sorpresa. Poi si era proteso verso di lui per abbracciarlo, con un sorriso. “Sono felice di vederti, mi sei mancato. Ma cosa ci fai qui?” gli domandò, dopo che si fu spostato per farlo entrare.
Akanishi scrollò le spalle; appoggiò a terra la borsa e si diresse verso il divano, buttandocisi sopra di peso.
“Uepi” dichiarò con tono solenne all’altro, che era rimasto in piedi a fissarlo “Sono davvero un idiota”
“Questo lo so già. Che cosa hai fatto stavolta?”
Jin gli raccontò per sommi capi quanto era successo a Los Angeles, poi gli disse che reazione aveva avuto Kamenashi. Ueda continuava a guardarlo, con indosso un’espressione indecifrabile.
“Sì” disse, quando il più piccolo ebbe finito di parlare “Sei davvero, davvero, davvero un idiota, Akanishi Jin” concluse. Non aveva un tono di rimprovero; era più... rassegnato, forse.
Come se, a differenza di Kame, lui si aspettasse che accadesse una cosa del genere.
“Che cosa devo fare?” gli chiese, con lo sguardo chino. Non era da lui chiedere aiuto; quando poteva, preferiva andare avanti con le sue sole forze, non contando su altri che su se stesso. Ma in quel frangente si rendeva conto del fatto che da solo non sarebbe andato lontano.
Era rimasto da solo, e aveva combinato un disastro. Era rimasto da solo, e adesso si ritrovava in una situazione che non era minimamente in grado di risolvere.
Non sapeva cosa fare.
“Che cosa vuoi che ti dica? Che aspettare migliorerà la situazione? Che Kame ci penserà su e improvvisamente deciderà che in fondo non gli importa di quello che hai fatto?” gli chiese, sarcastico. Jin si alzò di scatto dal divano, guardandolo male.
“No. Volevo solo un po’ di comprensione, ma evidentemente mi sono sbagliato” rispose, acido.
Ueda sospirò, alzandosi a sua volta e mettendogli una mano sulla spalla.
“Hai la mia comprensione Jin, lo sai. Mi dispiace per quello che è successo, ma se vuoi che ti menta, hai sbagliato persona” il suo tono di voce era calmo, come se volesse tranquillizzare l’altro. “Forse è meglio che ti vada a riposare, che ne pensi? Hai fatto un viaggio stancante, non sei lucido. Dormici su, ok?” gli propose poi, indicando con un gesto distratto della mano la sua stanza.
Jin annuì brevemente, poi prese la borsa e si diresse verso la camera da letto.
“Grazie Uepi” mormorò prima di chiudersi la porta alle spalle.
Non aveva tutti i torti.
Gli sarebbe piaciuto che gli avesse mentito. Che gli avesse detto che tutto sarebbe andato bene, che Kame sarebbe tornato da lui, che si poteva rimediare a tutto.
Ma aveva decisamente sbagliato persona. Se Jin era sempre stato suo amico, era proprio perché gli diceva le cose come stavano, senza mai mentirgli, anche quelle che erano più difficili da accettare. Come in quel caso.
Si distese sul letto, fissando il soffitto.
Non gli aveva dato nessuna risposta chiara, perché non c’era una risposta che lui né Ueda conoscevano.
E forse in quel momento, nemmeno Kame sapeva bene che cosa fare.
Non rimaneva che attendere il corso degli eventi, aspettare che il dolore passasse, che Kame decidesse cosa fare.
Akanishi odiava aspettare con tutto se stesso.
Quel se stesso che in quel momento quasi lo disgustava, perché mai come adesso aveva avuto meno stima di sé, di quello che aveva fatto, del modo in cui si sentiva e in cui aveva fatto sentire Kazuya.
Anche se forse, avrebbe dovuto aspettarselo.
Quando avevano cominciato a frequentarsi, anni prima, sapeva già che avrebbero finito con il farsi del male a vicenda, sapeva che non era il tipo di persona con cui fosse semplice stare.
Avrebbe dovuto dire chiaro e tondo a Kame che per quanto lo potesse amare, non c’era niente di certo nel loro rapporto.
Che tutto quello avrebbe potuto consumare il suo stesso cuore, che avrebbe potuto soffrire.
Che forse loro due non avrebbero dovuto avvicinarsi più di tanto, di certo non fino al punto in cui si erano spinti.
Non al punto in cui amarsi era diventato qualcosa di così naturale per entrambi, al punto tale che Jin era profondamente convinto di essere cambiato, per una volta.
Certezza che aveva perso quella mattina di meno di un mese prima, in cui si era dovuto arrendere di fronte alla realtà dei fatti; era la stessa persona che era sempre stato, quella persona che aveva avuto bisogno solo della lontananza di Kame per riemergere dal guscio in cui si era chiusa negli ultimi anni.
Jin chiuse gli occhi. Era stanco, maledettamente stanco.
Avrebbe voluto chiamare Kame, pregarlo, implorarlo, ripetere che lo amava fino allo sfinimento.
Ma aveva abbastanza a cuore l’altro da evitargli per lo meno quello spettacolo pietoso.
Prese sonno, in un modo o nell’altro, pur sapendo che non sarebbe riuscito a dormire bene.
E del resto, nemmeno credeva di meritarlo.
*****
Gli pareva di aver dormito solo per una decina di minuti quando si sentì chiamare dalla voce di Ueda.
“Che cosa c’è?” domandò, con la voce ancora impastata dal sonno.
Non ricevendo risposta, aprì gli occhi, cercando di mettere l’altro a fuoco nonostante il fastidio per la luce improvvisa.
Il viso dell’amico aveva un’espressione grave. Non gli piacque affatto.
“Ueda, che cosa è successo?” chiese di nuovo, cercando di mettersi a sedere.
Il più grande si morse un labbro, distogliendo lo sguardo per un secondo. A Jin parve che cercasse di non piangere, e questo non aiutò l’ansia che cominciava a montare dentro di lui.
“Ueda...” ripeté, ma l’altro lo interruppe.
“Jin... c’è Kame in ospedale” mormorò.
Akanishi spalancò gli occhi, come se avesse difficoltà a comprendere quello che aveva appena sentito.
Improvvisamente, era completamente sveglio.
E aveva fottutamente paura.