[Hey! Say! JUMP] Sanagi - Capitolo 02

Nov 20, 2012 00:37

Titolo: “Sanagi” (Crisalide)
Fandom: Hey! Say! JUMP
Personaggi: Chinen Yuri, Takaki Yuya, Inoo Kei, Yabu Kota, Yaotome Hikaru
Pairing: Takachii, Inoobu, Hikachii
Warnings: Slash, Non-con, Death!Fic, AU, Underage, Violence
Word Count: 21.113 fiumidiparole
Rating: NC-17
Prompt: 35. “In catene.”
NdA: Storia scritta per la challenge bigbangitalia, per il set AU della think_angst e per la 500themes_ita. La storia è un sequel di “Yami wo ukeire futatabii asa kuru”, di simph8. Sempre di simph8 è il gift alla storia, il fanmix “The birth of a butterfly”, che potete scaricare qui (bellissimo fanmix, aggiungerei. Grazie <3).

02 - Garasu no Shounen

“Portami ovunque vuoi,
porta via tutto quello che sono”
[Desire, Shibutani Subaru-Yasuda Shota]

Yuri era disteso sul letto suo e di Yuya.
Si stava annoiando.
Gli capitava spesso ultimamente di non sapere cosa fare quando rimaneva in casa da solo. Aveva valutato l’opzione di chiamare Kei, ma subito ci aveva ripensato.
Non era così disperato da costringersi a sopportare le manie del più grande.
Stava per risolversi a gettarsi sul divano, quando la porta dell’appartamento si aprì.
Takaki bofonchiò un ‘sono tornato’, prima di stravaccarsi sulla poltrona del salotto, passandosi una mano di fronte al viso, come per far passare un incipiente mal di testa.
“Bentornato.” borbottò Yuri, ironico come sempre, rimanendo sulla soglia della stanza in attesa che l’altro gli dicesse qualcosa.
“Una giornata massacrante.” furono le parole con cui esordì Yuya, fissando il più piccolo con aria quasi disgustata. “E tu non stare a guardarmi in quel modo, ragazzino, che è l’ultima cosa di cui ho bisogno. Anzi, renditi utile e portami una birra.” gli ordinò, tirando poi una sigaretta fuori dal pacchetto e accendendola con un gesto nervoso.
Yuri alzò gli occhi al cielo, ma obbedì.
Andò in cucina, tirando fuori una bottiglia di birra ghiacciata dal frigo e aprendola, portandola poi al ragazzo ancora semi-sdraiato sulla poltrona.
Si sedette sul divano poco lontano, osservandolo dare un sorso che era certo sfidasse le scarse capacità dei suoi polmoni di trattenere il respiro, e gli venne quasi da sorridere.
Non osava quasi sperare nemmeno pensarlo, ma... gli pareva che le cose andassero meglio, ultimamente.
Certo, Yuya era sempre lo stesso con lui, così come era stato negli ultimi due anni e mezzo. Continuava a prenderlo quando ne aveva voglia, continuava a fargli del male fisico, continuava a ferirlo, a graffiarlo, a tagliarlo in ogni modo possibile quando faceva sesso con lui.
Ma gli era sembrato come se fosse diventato più umano nei suoi confronti, da quel giorno.
Ricordava le sue parole mentre lo accompagnava a casa, ricordava di essersi sentito quasi sollevato di avere lui accanto, mentre la sua mente era ancora piena delle immagini dei genitori morti, del rumore del proiettile che lui aveva sparato per ucciderli, dell’odore del sangue.
Non si illudeva.
Non pensava che ora l’altro provasse pietà per lui, non credeva che la sua condizione sarebbe cambiata mai.
Eppure, per la prima volta da anni, era stato in grado di fargli sentire che teneva a lui. Yuri sapeva che non provava il minimo affetto nei suoi confronti, che il suo attaccamento era pari a quello che si aveva per una proprietà. Ma si accontentava, perché era più di quanto avesse ottenuto in tutto quel tempo da lui.
Aveva imparato a capirlo, in un certo modo.
Al di là dello yakuza che uccideva a sangue freddo, che lo stuprava sera dopo sera senza provare il minimo rimorso, Yuya poteva anche essere meglio di tanti altri.
Chinen era venuto a contatto con parecchi di loro, tramite il più grande. E aveva conosciuto ragazzi nella sua stessa situazione, e li vedeva cambiare continuamente, e sparire dalla circolazione, e quando osava chiedere a Takaki che fine facessero lui si limitava a ghignare e a dirgli che molto probabilmente erano finiti tre metri sotto terra.
E lo diceva con tranquillità, e lui doveva riconoscere di essere fortunato ad essere ancora vivo.
Si guardava allo specchio, sera dopo sera, tracciava con il dito le cicatrici che il più grande gli lasciava addosso quando non prestava abbastanza attenzione, quando si lasciava prendere troppo la mano dai suoi giochi a letto, ma continuava a ripetersi che erano un buon prezzo per la sua vita e per la sua vendetta.
“Che cosa è successo di così terribile?” domandò, cercando di mostrarsi sinceramente interessato a quello che faceva durante la giornata.
Il più grande scrollò le spalle, dando un altro sorso alla birra, prima di rispondergli.
“Le solite cose. Un idiota era convinto di potersi mettere a spacciare coca nel nostro territorio, e ci siamo dovuti occupare di lui. Non è stato semplice, si è messo a sparare e ha colpito uno dei nostri.” spiegò, facendo una smorfia infastidita. “Non è stato divertente. Si lamentava come una ragazzina.” sospirò, continuando a sorseggiare la birra. “E poi come se non bastasse, poco fa il capo ha chiamato me e Kota e ci ha detto che nei prossimi giorni ci manderà ‘nuove leve’” disse, scimmiottando il modo di parlare del boss. “Che, tradotto per i comuni mortali, significa avere fra i piedi un ragazzino che sa a malapena premere un grilletto.” concluse, reclinando la testa contro lo schienale della poltrona, per poi voltarsi in direzione del più piccolo. “Tu che cos’hai fatto per tutto il giorno?” gli chiese, alzando un sopracciglio.
Chinen scrollò le spalle, come a dire che non valeva poi così tanto parlarne.
“Mi sono annoiato, non ho fatto niente di particolare. Ho fatto un giro nel quartiere, ma non è che sia poi così divertente. E poi sono passato al conbini e ho comprato del ramen precotto per pranzo. E poi...” sospirò, guardandosi intorno. “E poi mi sono annoiato, te l’ho detto. Niente di più, niente di meno.”
Takaki chiuse brevemente gli occhi, sbuffando.
“Devi trovarti un passatempo, ragazzino. Non puoi continuare a ciondolare in giro per casa con quell’aria depressa. Mi innervosisce, e lo sai. I tuoi genitori sono morti quasi due settimane fa, direi che è il momento di smetterla di pensarci, ti pare?”
Chinen assottigliò le labbra, tirando le gambe contro il petto e mettendosi sulla difensiva.
Che cosa ne sapeva lui di quello che pensava?
Che cosa ne sapeva di come si sentiva?
“E che cosa c’entrano adesso i miei genitori? Non penso affatto a loro. Ho fatto quello che dovevo e basta. Non mi sono più nemmeno passati per la mente.” mentì.
La verità era che ci pensava, anche troppo.
Continuava a vederli, in quella villetta rispettabile, con quell’aspetto da brava coppia felice che sembrava aver dimenticato il pesante scheletro nel proprio armadio, che sembrava aver dimenticato che al mondo c’era un ragazzino figlio loro che era stato dato in pasto a delle belve solo perché loro potessero avere quella casa e quel sorriso in volto.
Tutto sommato, era felice di averli uccisi. Era tutto quello che aveva desiderato dal momento in cui era stato portato via da quella topaia a San’ya. Ma non era semplice, non lo era affatto.
Yuya poteva anche essere abituato a uccidere, ma lui non lo era.
E quei due omicidi, l’immagine del buco in mezzo alla fronte della madre e del padre, continuava a perseguitarlo, che lo trovasse giusto o meno.
Takaki fece un mezzo sorriso, alzandosi in piedi e mettendosi dietro il divano, posandogli con lascivia le mani sulle spalle.
“Ok, d’accordo. Fingeremo che io ti creda. Anche perché non mi interessa dei tuoi conflitti interiori, non me ne potrebbe davvero fregare di meno. Mi basta solo che tu non giri con quell’espressione per casa quando ci sono anch’io. Non vuoi irritarmi, vero Yuri?” mormorò, all’altezza del suo orecchio, e il più piccolo ebbe un brivido.
“No che non lo voglio. Non oso sfidare la tua inventiva quando sei irritato.” lo derise lievemente, senza scherzare poi così tanto.
Sapevano entrambi che quando Yuya se la prendeva, non gli bastava una notte di sonno per dimenticare il dolore delle ferite infertegli.
Il più grande sorrise, facendo scivolare le mani lungo il suo petto, accarezzandolo.
“Yuri...” gli disse, piano, con tono quasi lamentoso, e l’altro comprese che cosa volesse da lui.
Era stato lì troppo tempo perché ormai non conoscesse a menadito il significato delle sue richieste, perché non comprendesse da ogni sfumatura della sua voce quello che voleva da lui.
E lui era sempre pronto a soddisfarlo, perché non importava quanto tempo avessero passato insieme, non importava quanto potessero essere diventati abituati l’uno alla presenza dell’altro, lui conosceva comunque il suo ruolo.
Era la sua puttana. Era il suo giocattolo sessuale. E il suo compito era quello di soddisfarlo ogni volta che voleva, in qualsiasi modo volesse.
Non protestava, mai.
Perché sebbene avesse la libertà di muoversi per casa e per il quartiere, la libertà di gestire il suo tempo come meglio credesse, non poteva negare di essere in catene in quell’esistenza.
Erano catene che Yuya si divertiva ad allentare, ma che continuava a sentire come un peso costante che lo teneva legato allo yakuza, conscio del fatto che non ne sarebbe mai stato libero.
Si mise in ginocchio sul divano, voltandosi verso di lui e trovando che il più grande si era già slacciato la cintura, abbassando i jeans quel tanto che bastava perché lui si ritrovasse immediatamente di fronte al suo sesso, già duro fra le sue gambe.
Yuya lo afferrò forte per la testa, e lui aprì obbediente la bocca lasciando che l’erezione ci scivolasse dentro, lasciando che si spingesse fino in fondo alla sua gola.
Si era abituato ai modi dello yakuza, e ormai ci faceva poco caso.
Aveva abituato il proprio corpo a lottare contro i conati di vomito ogni volta che l’altro si spingeva oltre i suoi limiti, aveva abituato la mascella a non dolergli per il brusco trattamento ricevuto, aveva abituato il proprio respiro a mantenersi regolare ogni volta che l’aria si faceva troppo poca.
Si era abituato a questo, così come si era abituato a tutto.
E per quanto Yuya continuasse a trovare di che lamentarsi nella sua condotta sessuale, sapeva perfettamente di quanto fosse compiaciuto dei suoi miglioramenti.
Per Chinen, la questione era puramente logica: se rendeva Yuya felice, se gli dava il suo orgasmo, se lasciava che facesse di lui e del suo corpo quello che credeva senza lamentarsi, avrebbe avuto meno spunti o motivazioni per prendersela con lui.
Lo lasciò spingersi nella sua bocca fino a quando non si sentì stringere maggiormente sulla testa, e gemette piano mentre lo sperma di Yuya lo colpiva al fondo della gola, mettendo a dura prova la sua resistenza.
Cercò di respirare con il naso, certo che l’altro non si sarebbe spostato fino a quando non avesse ingoiato.
Andava così da più di due anni, del resto, ed era l’ennesima cosa che aveva imparato.
Fece come voleva lui, con poche difficoltà, e prese un respiro profondo quando finalmente Takaki lo lasciò andare.
Quest’ultimo gli prese il viso in una mano, scoccandogli un veloce bacio sulle labbra, quasi irridente, prima di stiracchiarsi e dirigersi verso la camera da letto, con aria soddisfatta.
“Non c’è niente da fare, Yuri... per quanto io possa tornare stanco dal lavoro, farselo succhiare da te è sempre un toccasana!” gli disse, con un sorriso rilassato, buttandosi di peso sul materasso.
Chinen gli si stese di fianco, alzando un sopracciglio.
Avrebbe voluto dirgli che la sensazione era reciproca, ma sapeva che lo yakuza non avrebbe sopportato il sarcasmo.
“Che programmi hai per domani?” gli domandò, mentre l’altro accendeva la televisione, senza prestarvi realmente attenzione.
Yuya storse il naso, alzando una mano per grattarsi la fronte con aria pensierosa, che Yuri trovò particolarmente buffa.
“Che programmi abbiamo.” specificò. “Domani arriva il novellino, e suppongo che io e Kota dobbiamo dargli qualche dritta su come sopravvivere il più possibile là fuori senza prendersi una pallottola vagante. Non che a me importi così tanto, è chiaro. Ma Kota ha blaterato qualcosa sull’insegnargli quello che sappiamo e il mantenerlo in vita, per cui alla fine ho accettato, se non altro per farlo stare zitto. E poi...” fece una smorfia, poco contento. “Si porta dietro lo psicopatico. Cerca di stargli dietro tu, non ho intenzione di avere fra i piedi anche lui domani.” concluse, togliendosi la maglietta e lanciandola in un angolo della stanza, per poi stendersi sotto le lenzuola.
Yuri storse il naso, irritato.
“Lo sai che non mi piace quando dai a Kei dello psicopatico. Non è uno psicopatico, è solo... ha soltanto...” cercò di spiegarsi, ma l’altro lo interruppe con una risata.
“Non ha tutte le rotelle a posto, no? Non mi piace averlo intorno, non mi piace il fatto che Kota se lo debba portare dietro qualsiasi cosa faccia, come se fosse un cane. Ma del resto, chi prova a dirgli nulla sul suo piccolo Kei.” derise l’amico, alzando le sopracciglia, poi passò un dito sotto il mento del più piccolo, guardandolo dritto negli occhi. “E non fare tanto il perbenista con me. Non piace nemmeno a te averlo intorno.”
Chinen scrollò le spalle, senza rispondergli.
Gli piaceva Kei, in qualche modo. Parlavano spesso quando erano insieme, e gli raccontava pressoché tutto quello che gli accadeva.
Non era certo di quanto il più grande lo stesse a sentire, o di quanto la sua mente registrasse, ma continuava comunque a parlargli, trovando in lui una pratica valvola di sfogo.
Ma no, non gli piaceva averlo intorno.
C’erano delle sfumature nei suoi occhi che non sempre gli piacevano.
Era come una bomba ad orologeria pronta ad esplodere, tutti loro ne erano consapevoli, e nessuno voleva essere lì quando fosse successo.
Ma non disse niente di tutto questo a Takaki. Non avrebbe fomentato la sua idea secondo cui Inoo era uno psicopatico, non l’avrebbe mai fatto.
Prendendo un sospiro profondo si distese a sua volta, mentre il più grande gli dava le spalle.
Guardò il drago tatuato sulla schiena e trattenne il respiro.
Ricordò la prima volta in cui l’aveva visto, e ricordava di aver provato un leggero timore.
A quello ancora non aveva fatto l’abitudine.
Era quello che gli ricordava chi fosse veramente Yuya, era quello che gli ricordava che non aveva speranza, che non avrebbe mai spezzato quelle catene, che ormai il suo destino era segnato.
Si domandava se a quel pensiero, ci si sarebbe abituato mai.

***

Yabu era appena rientrato in casa.
Come sempre, l’aveva fatto con una certa ansia.
Durante tutti quegli anni, aveva sviluppato una sorta di paura nel rincasare. Non sapeva mai che cosa ci fosse ad aspettarlo, non sapeva se Kei potesse aver fatto qualcosa, se potesse anche non essere lì ad aspettarlo.
Sarebbe stato un problema. Sarebbe stato complesso cercarlo, convincerlo a tornare, convincerlo per l’ennesima volta del fatto che non era lui quello cattivo.
Kota sospirò.
Mise la testa in salotto, e sorrise apertamente quando vide il fidanzato comodamente seduto su una sedia, intento a prendere un tè.
Gli si avvicinò con passo svelto, abbracciandolo.
“Ciao tesoro.” mormorò, stringendogli la testa contro il petto, cercando di non fare movimenti bruschi o eccessivi che potessero in qualsiasi modo infastidirlo.
“Ko! Sei tornato!” esclamò il più piccolo, strofinando il viso su di lui più e più volte, come a crogiolarsi nella sensazione di quella stretta.
Yabu tentò di sorridere, mordendosi un labbro.
“Certo che sono tornato, Kei! Dove volevi che andassi senza di te?” mormorò, lasciandolo andare per dirigersi verso la camera da letto.
Si tolse i vestiti di dosso, fermandosi per qualche secondo a rimirare il proprio viso allo specchio.
Aveva gli occhi cerchiati da segni violacei, rossastri sulla pupilla. Aveva delle rughe sporadiche sul viso, e continuava a ripetere a se stesso che ventisei anni erano troppo pochi per avere il volto già così segnato.
Ma non poteva farci niente.
Non avrebbe barattato Kei per un viso più riposato, non l’avrebbe mai fatto.
Si sedette sul materasso, facendo una smorfia quando sentì le proprie ossa fare dei rumori ambigui.
Si stese, solo per qualche minuto, fissando il soffitto e pensando.
Non ne poteva più di fare quella vita.
Passava tutta la sua giornata con Takaki, e temeva che continuando su quella strada avrebbe fatto la sua fine.
Sarebbe diventato un individuo che non prova pietà per altri esseri umani, qualcuno che pensa sempre e soltanto a se stesso, qualcuno che va dritto per la propria via, senza contare i cadaveri che si lascia alle spalle.
Quando era diventato il suo shatei, durante i primi tempi, contava i corpi privi di vita che vedeva durante una giornata.
Poi erano diventati troppi, aveva perso il conto, e si era detto che in fondo non importava.
Era una sua scelta, del resto.
Nessuno l’aveva costretto a fare quella vita, nessuno l’aveva costretto a diventare un criminale, nessuno lo aveva costretto a diventare qualcuno di cui effettivamente si vergognava.
L’aveva fatto per comodità, e non se ne pentiva.
Si sentiva sempre più egoista, ma non poteva perdere tempo a piangere la morte di sconosciuti, quando c’era Kei che lo aspettava a casa.
Avrebbe solo voluto poter passare più tempo con lui, ma con il passare degli anni avevano costruito una routine che funzionasse, e il suo terrore che gli capitasse qualcosa si era lentamente mutato in un lieve timore, che accompagnava costantemente i suoi passi.
Chiuse gli occhi, li strinse, e quando li riaprì si sentì un po’ meglio.
Erano passati otto anni.
Otto lunghissimi anni, e le cose gli sembravano essere sempre le stesse.
Lo ricordava come se fosse accaduto il giorno prima.
Ricordava Kei semi-sdraiato in quel vicolo vicino la scuola, ricordava le cicatrici sul suo corpo.
Ricordava quel pianto infinito, quelle lacrime che non faceva mai in tempo ad asciugare.
Aveva pianto anche lui.
Nel corridoio dell’ospedale, mentre lui cercava di riposare, quando il medico gli aveva detto quello che il più piccolo gli aveva taciuto.
Non riusciva a sopportare il pensiero di mani che non erano le sue sul corpo di Kei.
Non riusciva a pensare che l’avessero preso contro la sua volontà, che gli avessero fatto del male, quando lui era sempre stato così attento nel cercare di farlo sempre stare bene, di renderlo sempre felice.
Tutta la sua fatica era stata sprecata.
I genitori l’avevano abbandonato al suo destino, e quando Kota li aveva chiamati dall’ospedale avevano detto di fare di lui quello che meglio credeva, che loro non avrebbero sborsato nemmeno uno yen per le spese mediche.
Yabu aveva urlato con tutto il fiato che aveva in gola, aveva detto loro che quello era il figlio, che stava male, che aveva bisogno d’aiuto.
Se ci tieni così tanto, allora pensaci tu, ragazzino.
Questo gli aveva risposto il padre di Kei.
E questo aveva fatto.
Era per quella ragione che Yabu si era ritrovato a fare lo yakuza.
Per un po’ di tempo aveva cercato di tirare avanti solo con le sue forze; aveva convinto la madre a far stare Kei da loro per un po’, ma si era ben presto reso conto del fatto che la donna non era a suo agio nell’avere il ragazzo in casa, non era in grado di gestire i suoi attacchi di isteria improvvisa, e non aveva intenzione di fare più dello stretto necessario per lui.
Yabu lavorava giorno e notte per pagare le spese ospedaliere prima e gli psichiatri poi, ma non aveva impiegato che un paio di mesi prima di arrendersi di fronte al proprio fallimento.
Era stato allora che aveva preso la sua decisione.
Aveva mandato al diavolo il suo diploma e il fatto di essere stato accettato alla Todai, aveva mandato al diavolo i suoi lavori part-time, e aveva fatto di tutto per poter essere accettato nel mondo della yakuza.
Non era stato semplice. Non sapeva cosa dovesse fare, né se sarebbe riuscito effettivamente a condurre quel tipo di vita.
Continuava a dirsi che dovevi nascere in quell’ambiente o venirci trascinato a forza per diventare come loro, ma lui non aveva intenzione di indebitarsi fino all’osso per poi rischiare che qualcuno di loro venisse a bussare alla sua porta un giorno, uccidendo lui o facendo del male a Kei.
Se non puoi batterli unisciti a loro, ecco cosa si era detto.
E ora aveva quell’appartamento.
Niente di che, ma a Kei sembrava piacere.
Aveva i soldi per permettersi di pagare le visite psichiatriche e le medicine del fidanzato, e per fargli avere qualsiasi cosa chiedesse, nel costante tentativo di renderlo felice.
E ci riusciva anche, quando le sue giornate erano buone.
Quando si svegliava senza aver fatto incubi, quando gli sorrideva e passava tranquillamente i pomeriggi anche quando Kota non poteva essere in casa, Kei gli sembrava davvero felice.
Erano le giornate no che lo atterrivano.
Era quando tentava anche solo di toccarlo e lui urlava, era quando piangeva senza sosta, quando si rifiutava di prendere i tranquillanti.
Quando lo guardava come se non fosse migliore di quegli animali che lo avevano stuprato anni prima.
E Yabu si sentiva così miserabile che i suoi occhi riuscivano a convincerlo davvero di non fare abbastanza per lui.
Yuya se la prendeva sempre per questo.
Quando andava a prenderlo a casa e lui saliva in macchina con aria accigliata o depressa, il più grande gli ripeteva che non poteva farci niente, che era così che andavano le cose, che non poteva aspettarsi niente di meglio da quella vita.
Che poteva solo sperare che il giorno dopo andasse meglio, tutto qui.
Odiava la superficialità con la quale trattava Kei, ma non lo biasimava.
Non era suo compito trattarlo meglio di quanto facesse. E non era nemmeno chi l’aveva trattato peggio nel corso degli anni, per cui Kota non aveva mai osato ribattere alle sue battute infelici sullo stato mentale del proprio fidanzato.
Chinen era diverso.
Quando Yuya l’aveva preso con sé era solo un ragazzino, ma a Kota era piaciuto subito il modo in cui si approcciava allo yakuza, come gli rispondeva a tono, come non si lasciasse mai condizionare del tutto dai suoi desideri e dalle sue richieste spesso insensate.
Vedeva i segni sul suo corpo, certo.
Ma in fondo continuava a dirsi che quei segni la vita li lasciava un po’ a tutti, che fossero visibili o meno.
E Yuri poi, si prendeva cura di Kei quando poteva. Si sarebbe quasi azzardato a dire che i due fossero amici, per quanto quel termine in sé veniva aborrito in partenza dal più piccolo, il quale cercava sempre di fingere che ci fosse una certa distanza fra loro due.
E Kota sorrideva e annuiva, e aspettava sempre la volta successiva in cui lui e Kei si fossero recati insieme a casa di Takaki, per vedere il più piccolo attenderli con ansia, prendendosi Inoo da parte quando gli altri due avevano da lavorare e raccontandogli quello che aveva fatto nel tempo in cui non si erano visti.
Era quanto di più vicino Kei avesse ai rapporti umani al di fuori di lui, e non poteva che essere grato al ragazzino per aver dato una possibilità a quello che il resto del mondo vedeva come un nevrotico di venticinque anni con problemi mentali.
Sospirò, cercando di chiudere tutte le definizioni che avevano affibbiato al suo fidanzato fuori dalla sua mente.
Si alzò nuovamente, infilando una maglietta e dei pantaloni da casa, raggiungendo nuovamente Kei in salotto.
“Kei-chan?” lo chiamò, attirando la sua attenzione. Il più piccolo alzò lo sguardo in sua direzione, sorridendogli.
“Cosa, Ko?”
Il più grande lo prese per una mano, facendolo alzare e portandolo con sé sul divano, facendolo stendere contro il suo corpo e prendendo ad accarezzargli i capelli, dolcemente, cercando come sempre di evitare movimenti bruschi.
“Che cos’hai fatto oggi di bello, Kei?” gli domandò, mentre il più piccolo chiudeva gli occhi e sorrideva, lasciandosi andare alle sue carezze.
“Ho guardato la televisione.” rispose, contento.
Yabu sospirò, passandosi la lingua sulle labbra.
Non era sorpreso. Quasi tutti i giorni quando gli chiedeva che cosa avesse fatto, l’altro gli dava la stessa identica risposta.
“Ti sei divertito?” chiese, con tono piatto, ma cercando comunque di mostrarsi allegro di fronte a lui.
Inoo annuì con convinzione, mettendo una mano su quella del più grande e toccandogli piano le dita.
“Sì. C’erano un sacco di programmi divertenti. Non mi sono nemmeno annoiato come ieri, che invece non c’era niente di interessante.” gli rispose, con convinzione.
Kota sospirò, di nuovo, e sapeva che avrebbe continuato ancora a lungo se non si fosse distratto.
Fece spostare Kei in camera da letto, con la scusa di andare a dormire, e una volta che si distesero gli si mise più vicino di quanto non facesse di solito.
“Kei?” mormorò, con fare vagamente suadente, sperando che l’altro non si lasciasse inibire da un comportamento troppo esplicito.
“Che cosa c’è, Kota?” domandò il più piccolo, sulla difensiva.
Yabu passò una mano sul suo fianco, sopra la maglietta, accarezzandolo con movimenti ripetitivi.
“Kei, ti va se...?”
Si morse un labbro subito dopo, lasciando che fosse Inoo a comprendere da solo che cosa gli stesse chiedendo.
E il più piccolo poteva anche fingere di non capire del tutto quello che gli accadeva intorno, quando semplicemente si divertiva ad estraniarsi, ma Kota sapeva invece che comprendeva perfettamente tutto.
Soprattutto quel genere di cose.
Non rispose, probabilmente non lo ritenne necessario. Si limitò a fare un breve cenno di assenso con il capo, spostandosi meglio sotto il fidanzato, senza mai staccare gli occhi dai suoi, senza mai perdersi nemmeno un suo movimento.
Yabu chinò il capo, come a darsi coraggio, e prese ad accarezzarlo con più decisione, mentre con la bocca tracciava linee di baci sul suo collo e sulle clavicole, togliendogli la maglietta e poi i pantaloni, lasciandosi prendere da una sorta di urgenza di cui aveva deciso di preoccuparsi soltanto dopo.
Fu cauto come sempre nel far scivolare le proprie dita dentro di lui, non volendo spaventarlo né tantomeno fargli male.
Continuava a guardarlo, a studiare le sue espressioni, in cerca di qualcosa che gli dicesse di fermarsi, di segnali che gli dicessero che non era a suo agio.
Ma, per quanto potesse essere teso, non gli sembrava in procinto di avere una crisi di nervi.
Si spostò fra le sue gambe, facendo pressione sulla sua apertura prima di penetrarlo, lentamente, facendolo abituare a sentirlo dentro di sé un poco per volta, prima di spingersi del tutto dentro di lui.
Il calore che lo avvolse era indescrivibile.
Da quanto era che non lo sentiva, e quanto l’aveva desiderato?
Forse rimase fermo per troppo poco tempo prima di farlo abituare del tutto, ma non gli riuscì di fare altrimenti.
Spinse dentro di lui, forte, posando la fronte contro la sua spalla, e perdendosi quel lieve spasmo nel corpo del più piccolo, quel gemito che non avrebbe saputo definire, le sue mani che gli si artigliavano sulla schiena.
Ma, mentre continuava a muoversi dentro di lui, non poté fare a meno di notare il grido lancinante che lanciò Kei.
Si immobilizzò, facendo perno sui gomiti e alzando la testa per guardarlo, con gli occhi spalancati.
Il più piccolo si agitava, tentando di colpirlo, con gli occhi chiusi ed un’espressione terrorizzata.
“Smettila, smettila! Sei come loro, smettila! Ti prego, non mi fare del male, non...”
Kota interruppe il suo delirio mettendogli una mano sul volto, cominciando ad accarezzarlo.
“Kei... Kei!” sibilò, aggrottando la fronte. “Sto uscendo Kei, d’accordo?” mormorò poi, sfilandosi controvoglia da quel corpo, mettendosi di fianco a lui e prendendolo fra le sue braccia, mormorandogli all’orecchio di tranquillizzarsi.
“Conta insieme a me, Kei... uno...”
“U... uno.” ripeté il fidanzato, con il respiro affannato e tremando.
“Due... tre... quattro...”
Arrivarono insieme, contando, fino al dieci, e a quel punto Kei parve essere tornato alla normalità.
Non dissero più una parola.
Kota attese che si fosse addormentato prima di alzarsi lentamente, attento a non svegliarlo, e dirigersi verso il bagno, chiudendosi dentro a chiave e appoggiando la schiena contro il muro, lasciandosi andare ad un verso esasperato.
Afferrò la propria erezione con un gesto quasi brutale, cominciando a masturbarsi velocemente, come se non vedesse l’ora di finire.
Era da quasi due mesi che non facevano sesso.
E prima di allora... non ricordava nemmeno quanto fosse passato.
La loro vita sessuale non era un granché, Kota capiva il perché e non se ne era mai lamentato.
Venne con un gemito strozzato nella propria mano, poi si lavò velocemente e tornò nell’altra stanza, preoccupato dal fatto che Kei potesse svegliarsi e non trovarlo.
Si addormentò guardando il fidanzato dormire, guardando quell’espressione apparentemente serena, e domandandosi come ogni sera che cosa accadesse in quella mente, che cosa ci fosse di sbagliato in lui, che in tutti quegli anni non era riuscito a cancellare dal suo corpo i segni di quegli uomini.
Kota chiuse gli occhi, stanco.
Maledettamente stanco.

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