[Hey! Say! JUMP] Owari no nai tabi (parte 1)

Sep 27, 2012 12:49

Titolo: “Owari no nai tabi”
Fandom: Hey! Say! JUMP
Personaggi: Arioka Daiki, Yamada Ryosuke
Pairing: Ariyama
Warnings: One Shot, Slash, Death!Fic, Family!AU, Incest
Word Count: 7.227 fiumidiparole
Rating: NC-17
Prompt: “262. L’inizio di un addio”
NdA: Storia scritta per la challenge think_angst, per il set AU e per la 500themes_ita.

Parte 2



~ Owari no nai tabi ~

Daiki non avrebbe mai pensato di riuscire a sentirsi a disagio in casa propria, eppure negli ultimi tempi si era dovuto ricredere.

Era passato ormai quasi un anno da quando Ryosuke era andato a vivere insieme a lui, eppure era solo da poco che si era lasciato cogliere da quella sensazione, come se ci fosse qualcosa che non andasse, come se ci fosse qualcosa di sbagliato.

Il più piccolo non si era ancora del tutto ripreso da quanto era successo.

Lo sentiva ancora la notte svegliarsi in preda agli incubi, ma era felice che questi non fossero accompagnati da lacrime, come invece accadeva all’inizio.

Ci si era abituato Ryosuke, alla fine.

Daiki entrò nella sua stanza, bussando piano per avvisare della propria presenza ma senza attendere risposta dal più piccolo.

“Ryo” gli disse, con un sorriso, sorpreso di trovarlo sveglio. “Buongiorno” aggiunse poi, provando l’improvviso istinto di avvicinarglisi per posargli un bacio sulla fronte, ma desistendo quasi subito.

“Buongiorno” rispose lentamente il più piccolo, facendo perno sulle braccia per mettersi a sedere sul letto, e ricambiando il sorriso. “Che cosa ci fai sveglio così presto?” domandò, alzando un sopracciglio e chinando il viso da un lato, come per guardarlo meglio.

Arioka scosse le spalle, avvicinandosi alla finestra e aprendola, per far prendere aria alla stanza.

“Io volevo sbrigare un po’ di faccende qui in casa, approfittando del fatto che non devo lavorare. Ma dovrei essere io a farti questa domanda... sono solo le sette e mezzo del mattino, Ryo-chan. Come mai non hai provato a dormire un po’ di più?”

L’altro fece una smorfia, mordendosi poi un labbro.

“Non è che non ci abbia provato, sai. È solo che...” si indicò le gambe con un gesto della mano. “Hanno fatto un male dell’inferno stanotte. E continuano a farmi un po’ male. Per cui non è che io abbia dormito poco, è meglio dire che non ho dormito affatto” gli spiegò, con un tono lamentoso che fece quasi ridere Daiki.

Quasi. L’avrebbe fatto ridere, se non fosse stato per le implicazioni di quanto gli aveva appena detto.

Si fece spazio sul suo letto, sedendosi e prendendo ad accarezzargli un ginocchio, in un movimento quasi istintivo.

“Vuoi che ti porti qualcosa contro il dolore?” gli domandò, preoccupato, qualsiasi traccia di allegria scomparsa dal suo volto.

“No Dai-chan, grazie. Non voglio abusarne, lo sai” spiegò, per poi scrollare le spalle. “Mi terrò il dolore, non importa. Devo solamente abituarmi, tutto qui” aggiunse poi, tentando di sorridere ancora.

Daiki avrebbe voluto credere a quel sorriso, avrebbe voluto credere che non fosse unicamente un modo per tranquillizzarlo, una recita volta a stroncare la sua compassione sul nascere.

Quello che Yamada non capiva, era che mai una volta il più grande aveva provato pena per lui.

Un’immensa tristezza, quella certo, ma mai pietà.

Tutto quello che provava nei suoi confronti invece, era voglia di farlo stare meglio, e il non sapere cosa fare lo uccideva.

La compassione che provava, era unicamente per la propria impotenza di fronte alla malattia del nipote.

***

Ryosuke cercava sempre di non pensare troppo al passato, eppure c’erano tre momenti della propria vita che, per quanto si potesse sforzare, non riusciva ad escludere dalla propria mente.

Ricordava la morte della madre, come se da lì avesse avuto inizio la sua vita.

Era come se prima di allora non ci fosse stato nient’altro.

Aveva dodici anni all’epoca, abbastanza grande per capire, non così tanto tuttavia perché gli spiegassero che cosa stesse succedendo.

Vedeva suo padre piangere tutte le sere in salotto, mentre lei era distesa nel letto, inerme, quasi abbandonata.

Ryosuke aveva paura del dolore dell’uomo, meno del male della donna, per cui la raggiungeva e si stendeva di fianco a lei, raccontandole che cosa avesse fatto durante la giornata, cercando in quel modo di farla distrarre, di strapparle qualche sorriso.

E lei rideva ai suoi racconti, spesso esagerati per farli essere divertenti, poi lo stringeva a sé e gli diceva quanto gli volesse bene, e come lui fosse l’unica ragione della sua esistenza.

Quando se n’era andata lui dormiva.

La mattina si era svegliato e non aveva trovato nessuno dei due genitori; una vicina di casa, andata lì per dargli la notizia non appena si fosse svegliato, gli aveva comunicato della sua morte con tono freddo, impersonale, e lui ricordava di aver avuto voglia di urlare.

I mesi a seguire erano stati orribili. La compassione sul volto di compagni di scuola e insegnanti, il silenzio in casa con il padre, la voglia di fare qualcosa per sfogare tutto il proprio dolore e non riuscire mai a dire niente, perché aveva paura delle reazioni di chi gli stava accanto, perché aveva paura di non venire compreso, o di essere ignorato.

Quando poi, meno di tre anni dopo, aveva cominciato ad accusare sintomi della medesima malattia che aveva stroncato la vita di sua madre, Yamada non si era sorpreso.

Crescendo si era informato; la donna gli aveva sempre detto di prestare attenzione al proprio stato di salute, di non trascurarsi, di tenere sempre d’occhio i cambiamenti del proprio corpo, e così lui aveva fatto.

Quando aveva avuto la conferma definitiva, quando il medico gli aveva letto il risultato delle analisi e aveva usato quella parola così difficile e spaventosa, allora aveva capito che il suo destino era segnato, esattamente come lo era stato quello della madre.

Sclerosi laterale amiotrofica.

Yamada aveva impiegato un po’ anche solo per imparare a pronunciare il nome della malattia, meno a capire che non c’era molto che potesse fare per stare meglio.

Lentamente aveva cominciato a ricordare tutto quello che aveva visto a dodici anni, il lento decadere del corpo, come cose semplici quali camminare e parlare diventassero un’impresa, e rimanere inchiodati ad un letto ad aspettare che qualcosa cambiasse, senza poter nemmeno sperare in un miglioramento.

Aveva avuto paura, Ryosuke.

E poi, anche a quello, si era abituato.

L’unico pensiero al quale era certo che non avrebbe mai fatto l’abitudine, l’unica cosa che non riusciva a spiegarsi né a giustificare, era quanto accaduto poche settimane dopo la diagnosi.

Un giorno, all’uscita di scuola, aveva trovato Daiki ad aspettarlo.

Il fratello della madre gli piaceva, e parecchio; più vicino d’età a lui di quanto non lo fosse a lei, era sempre stato il suo zio preferito, per quanto non riuscissero a vedersi spesso.

Lui insegnava in una scuola superiore di Yokohama, mentre Yamada e la sua famiglia vivevano a Hiroshima, e non si incontravano che per le feste e poche altre occasione.

Per questo quel giorno si era stupito di vederlo. Subito il suo pensiero era corso al padre, che gli potesse essere successo qualcosa, e allora si era precipitato dal più grande, in ansia.

Tuo padre se ne è andato.

Ryosuke pensava spesso a quella frase.

Gli avevano detto la medesima cosa della madre, per non dirgli che era morta, per non dirgli che non l’avrebbe potuta vedere mai più.

E anche quella di Daiki, in fondo, era una frase volta ad indorargli la pillola.

Era meglio di ‘Tuo padre ti ha abbandonato’ o ‘Tuo padre di te se n’è lavato le mani’.

Erano frasi che facevano più effetto, ma non cambiavano comunque il modo in cui Ryosuke si era sentito.

A quello ancora non si era abituato. Era felice con Daiki, gli piaceva stare con lui e si sentiva sempre amato, al punto tale da potersi forse definire anche un po’ viziato, ma questo non cambiava lo stato delle cose, e non cambiava il fatto che il padre lo avesse abbandonato a se stesso, usando come scusa la propria debolezza di fronte alla malattia, e l’incapacità di affrontare per l’ennesima volta un calvario la cui destinazione non poteva che essere la morte.

Ryosuke non voleva morire, ma anche a quella idea si era ormai abituato.

Guardava il proprio corpo e altro non provava che disgusto nei confronti di quello che stava lentamente diventando, e per quello che ancora gli sarebbe successo prima della fine.

Ma se quello era ciò che gli toccava, allora non aveva senso rimanere fisso a pensare a come sarebbe stato andarsene.

Avrebbe preferito fare tesoro del tempo che gli rimaneva, e trovare un modo di uscirne vincitore.

Presto, ma almeno da vincitore.

***

Daiki si guardò allo specchio, trovando quasi difficile sostenere ancora quella visione.

Si sentiva sporco, malato.

Si ripeteva che non era giusto provare quel tipo di sensazioni nei confronti di Ryosuke, eppure non riusciva a farne a meno.

Da quando la sorella era morta, si era fatto sempre meno vivo con lui; non gli piaceva il cognato, non gli era mai piaciuto, e non si era mai sentito troppo propenso a farsi vedere a Hiroshima, a meno che non fosse strettamente necessario.

Ma Ryo gli piaceva, da sempre. Era maturo per la sua età sin da quando era bambino, e questa sua maturità era andata crescendo con la malattia della madre, con il risultato che a soli diciassette anni gli sembrava già essere un uomo, e doveva sforzarsi per ricordare che invece non era altro che un adolescente.

Nelle ultime settimane poi, aveva cominciato a vederlo in modo del tutto diverso dal solito.

Quando aveva ricevuto quella telefonata da parte del cognato, quando gli aveva detto di occuparsi di Ryosuke perché lui non aveva la minima intenzione di farlo, non aveva esitato neanche per un momento.

Era scattato in lui una sorta di istinto di protezione, come se volesse proteggere il nipote dalla malattia, dal dolore per l’abbandono del padre, come se volesse evitargli sofferenze inutili, e allora l’aveva preso con sé senza nemmeno starci a pensare, forte di un istinto paterno che non sapeva nemmeno di avere.

Negli ultimi mesi quell’istinto era sparito, lasciando spazio a qualcosa di molto diverso.

Ryo era cresciuto.

I suoi lineamenti non erano più da bambino, avevano perso quelle rotondità infantili e si erano affinati, così come si era affinato il suo corpo, tanto che Daiki si era ritrovato in casa qualcuno di completamente diverso, come se non conoscesse più la persona che aveva visto crescere da quando era nata.

E con i cambiamenti di Ryosuke, era cambiato anche il proprio modo di approcciarsi a lui.

Aveva cominciato a sentire come una stretta al cuore ogni volta che gli era vicino, a ritrovarsi assorto a guardarlo senza una motivazione apparente, ma sempre poi pensando che fosse maledettamente bello, e odiandosi per quel genere di pensieri.

Si ripeteva che era sangue del suo sangue, che era un ragazzino e che lo aveva visto crescere, dicendosi quanto innaturale fosse provare quel genere di sensazioni nel guardarlo.

Ma non era riuscito a smettere, e allora si era detto che forse non importava davvero.

Yamada stava male, e quale che fosse il motivo per cui gli era accanto, avrebbe dovuto continuare a proteggerlo.

Fino alla fine, ma questo era un pensiero sul quale non gli piaceva soffermarsi.

Più tardi quella stessa giornata, entrò nella sua stanza forzando sempre un sorriso, avvisandolo che la cena era pronta.

Si mise di fianco al suo letto in silenzio, subito pronto ad aiutarlo senza che dovesse essere lui a chiederlo.

“Scusa, ci metto sempre un po’ di più ad alzarmi” gli disse il ragazzo, sorridendo imbarazzato.

Daiki fece un gesto con la mano come a dire che non importava.

“Non ti preoccupare. Ho preparato il nabe, e avremmo comunque dovuto aspettare che si raffreddasse.”

Lo vide annuire brevemente, prima di mettere la lingua in mezzo ai denti, come per concentrarsi.

Fece perno sulle braccia, tirandosi a sedere e scostando le coperte da sopra le gambe.

Le fissò, in attesa di riuscire a muoverle abbastanza da scenderle dal letto.

Daiki si incupì, rendendosi conto di come qualsiasi movimento sembrasse essere sempre più complicato per lui, e domandandosi quanto ancora avrebbe impiegato prima di perdere definitivamente l’uso degli arti inferiori.

Quando finalmente il più piccolo riuscì a sedersi sul letto con le gambe sul bordo, gli andò più vicino, mettendogli un braccio intorno alla vita e lasciando che lui ne portasse uno oltre le sue spalle, sollevandosi e tirandolo con sé.

Era sempre più un peso morto contro di lui, ma cercò di non pensare nemmeno a questo.

Si concentrò invece sul calore emanato dalla sua pelle oltre la stoffa sottile del pigiama, su cosa sentisse nell’averlo così vicino, ancora sentendosi un mostro e ancora scegliendo di non dare la dovuta importanza a quei sentimenti.

Arrivati non senza fatica in cucina, Daiki lo aiutò a sedersi su di una sedia, lasciandolo andare solo quando fu sicuro che l’altro avesse il dovuto appoggio.

Poi si affrettò a mettere la terrina con il nabe al centro della tavola, sedendoglisi accanto e facendogli cenno di iniziare a mangiare.

Durante i primi minuti rimasero in silenzio, eccezion fatta per i complimenti di Ryo sulla pietanza; poi fu il più grande, invece, a prendere la parola.

“Oggi ho parlato con il tuo medico. Ha detto che non c’è da preoccuparsi se le gambe ti fanno un po’ male, che è perfettamente normale e che hai fatto bene a rifiutare gli antidolorifici. Ha detto che finché riesci a sopportare il dolore senza, è meglio” gli spiegò, con lo sguardo chino sulla propria ciotola.

Ryosuke alzò un sopracciglio, come sarcastico.

“Sì, lo immaginavo. Suppongo di dovermi tenere bene in forze per quando arriverà il dolore vero, no Daiki?” chiese, per poi scuotere la testa. “Scusami. Sono un po’ di cattivo umore oggi” aggiunse poi, mordendosi un labbro. “Dopo cena guardiamo un film insieme? Oggi ho studiato un po’ sugli appunti che mi hanno portato i miei amici, e non mi va di rimettermi a leggere” gli chiese, nel chiaro tentativo di cambiare argomento.

Arioka fu tentato di insistere, per spingerlo ad aprirsi un po’ di più con lui, ma alla fine parve desistere.

Sorridendogli annuì, riprendendo a mangiare.

“Certo, Ryo. Scegli che cosa ti va di vedere e ci mettiamo in salotto a guardarlo” gli disse, dopodiché entrambi tacquero, presi ognuno dai propri pensieri.

Daiki avrebbe voluto capire che cosa passasse per la testa del più piccolo, ma non osava chiederlo.

Entrambi sapevano bene che cosa sarebbe successo, ed erano come in attesa di vedere realizzarsi le loro peggiori paure, ma non ne parlavano fra loro.

Finito di mangiare, il più grande aiutò Ryo a mettersi sul divano, lasciandolo con il cofanetto contenente tutti i suoi DVD affinché potesse scegliere cosa gli andasse di vedere, mentre lui metteva velocemente in ordine la cucina e lavava i piatti.

Quando tornò in salotto il nipote gli porse un disco, sorridendo.

Daiki lesse il titolo di una commedia che gli piaceva abbastanza, e ricambiando il sorriso inserì il DVD nel lettore, mettendosi poi accanto al più piccolo sul divano, cercando di sistemarsi in modo tale da non arrecargli alcun fastidio.

Ma fu Ryosuke a risolvere questo problema fin dalle prime battute iniziali del film.

Aggrappandosi con le braccia alla spalliera, si spostò sui cuscini fino a che non fu all’altezza del più grande, lasciandosi poi ricadere con la testa sulle sue gambe, sollevando lo sguardo solo per il tempo di rivolgergli un sorriso che l’altro avrebbe definito imbarazzato.

Dal canto suo Arioka era sì felice, ma anche alquanto nervoso da quell’improvvisa vicinanza di Yamada, da quella posizione così intima.

Ebbe non poche difficoltà a concentrarsi sul film, fino a che non ci rinunciò del tutto.

Guardò invece il più piccolo, e prese ad accarezzargli un braccio lasciandolo passare per un gesto puramente affettuoso, scendendo a cingergli il polso e poi sulla mano, giocando con le sue dita, lasciandole passare fra le sue, il tutto sempre fingendo disinteresse, come se fosse qualcosa di istintivo anziché studiato.

Ryosuke, dal canto suo, non pareva trovare strane quelle attenzioni nei suoi confronti. Era preso dal film, e si limitava a spostarsi di tanto in tanto per stare più comodo, cedendo ben facilmente alle carezze del più grande, stringendo le dita intorno alle sue in un gesto automatico.

E fu quello a spaventare Daiki, o se non altro a preoccuparlo.

Avrebbe voluto sentirsi respinto, avrebbe voluto che Ryosuke si sottraesse a quel contatto, che lo guardasse anche male se fosse servito; ricambiando la sua stretta, avallando un gesto così apparentemente innocente, non faceva altro che far sembrare naturale quel suo modo di sentirsi, come se fosse giusto provare quel tipo di sensazioni nei suoi confronti, come se l’affetto si fosse lentamente trasformato in amore perché era così che doveva essere.

Bruscamente sciolse la presa sulla sua mano, alzandosi in piedi facendogli perdere l’equilibrio e borbottando qualche scusa priva di significato, mentre lasciava la stanza per dirigersi verso il bagno, sentendosi addosso lo sguardo confuso del più piccolo.

Chiusosi la porta alle spalle si poggiò contro il lavello, respirando a fondo.

Cosa c’era che non andava in lui?

Perché non riusciva a non pensare a Ryo in un certo modo, perché non riusciva ad essergli indifferente?

E fosse stata solo l’attrazione fisica a turbarlo, forse si sarebbe anche potuto trovare una facile distrazione dal nipote, ma ciò che più lo atterriva in quel momento era che quella stessa attrazione, andata a mescolarsi con l’affetto e con la tenerezza per la sua condizione, si erano trasformati in qualcosa di così pericolosamente vicino all’amore che lui temeva di non poter far niente per mettere a tacere quel sentimento.

Con questa realizzazione, per la prima volta accarezzò l’idea di rivelargli quanto provava, come se fosse perfettamente normale.

Respirando a fondo valutò i pro, forse un po’ egoisti da parte sua, e i contro, invece molto più chiari.

Quanto era disposto a rischiare? In quel momento così orribile, quando la malattia stava lentamente divorando il suo corpo, Ryo non aveva che lui accanto.

Era davvero disposto a dirgli che lo amava, rischiando di perdere la sua fiducia?

Era disposto davvero a lasciarlo da solo perché non era in grado di domare ciò che sentiva per lui?

Sospirò, ancora, e ancora si guardò allo specchio.

Ryo era nell’altra stanza, senza nemmeno la possibilità di seguirlo, di chiedergli che cosa ci fosse che non andava.

Si fece forza e, pregando di reggere se non altro alla fine del film, tornò da lui.

Parte 2

hey! say! jump: yamada ryosuke, challenge: 500themes-ita, challenge: think_angst [au], group: hey! say! jump, pairing: ariyama, hey! say! jump: arioka daiki, r: nc-17

Previous post Next post
Up