"Playground Love" Air
Sospirai osservando fuori dalla finestra, distratta dalle nuvole che attraversavano il cielo azzurro. La matita tra le labbra, la voce del professore in sottofondo. Distratta, con la mente che mi riportava immancabilmente ai suoi occhi nocciola. Jack, sempre lui. Non si fece più sentire dopo il concerto, se non per dirmi che stava studiando e che era impegnatissimo. Avevo sentito un velo di fredezza nella sua voce che mi aveva fatto rabbrividire. Come accarezzare un pezzo di ghiaccio. Riuscivo solo a pensare al suo viso e mi mancava, mi mancava terribilmente.
Uscii da lezione senza nemmeno un appunto sul mio blocco: distratta com’ero faticai a rimanere attenta alle parole del professore, e mi diressi verso la caffetteria del campus.
Ordinai un caffè al bancone. Rigiravo il cucchiaino nella tazzina ascoltando il ticchettio del metallo contro la ceramica, quando una ragazza al mia fianco comprò un biglietto dell’autobus.
Non so cosa scattò nella mia testa, un lampo improvviso, la voglia di correre, di scappare lontano, non importava dove, ma lontano da lì. Da tutto e da tutti.
“Un biglietto anche per me.” Esclamai dopo aver pagato il caffè. Così di getto, senza pensare ad una meta.
Senza renderme conto mi ritrovai su un autobus a caso, il primo che mi ispirò.
Mi sedetti dalla parte del finestrino e osservai il paesaggio che mi si presentava davanti. Più si allontanava dalla città più le colline apparivano vicine, i prati, gli alberi.
Quanto ero mutata in così poco tempo? Come aveva potuto Jack cambiarmi in questo modo? Come se mi avesse spogliata da una corazza e mi avesse lasciata inerme ed esposta a tutti i pericoli esistenti. Era così che mi sentivo: se prima ero una ragazza forte, sicura di sè, che non esitava a giocare coi sentimenti della gente... Che si credeva invincibile, ed invece... Solo un’effemira illusione. In realtà non ero altro che fragile. Era bastato innamorarmi per buttare giù tutto il mio castello di carte, le mie convinzioni.
E intanto, con la testa schiacciata al finestrino, guardavo quel paesaggio oramai così verde. La luce del sole che sfiorava le colline produceva effetti di luce surreali e unici e pensai a quanto fosse passato dall’ultima volta che mi ero soffermata a guardarmi intorno, ad assaporare le piccole cose che mi circondavano. Ero stata così presa dai miei mille pensieri da essermi scordata di tutto, anche del contatto con la vera realtà.
Dopo molto, non ricordo quanto, l’autobus arrestò la sua corsa al copolinea: un paesino dimenticato da dio.
Scesi e mi addentrai in quel vecchio paesetto dalle fattezze ancora medievali.
Stretti borghi che facevano rimbombare il rumore dei miei passi sulla pietra, mi entravano nella testa, la bombardavano. Nessuno intorno, solo io, in un luogo deserto.
Solo un'anziana mi passò a fianco e mi sorrise. La lunga gonna a fiorellini rossi su uno sfondo nero, un fazzoletto legato in testa per tenere raccolti i capelli e un sorriso dolce e spiazzante di chi di cose ne aveva viste anche troppe, ma non aveva mai perso la voglia di vivere. Teneva fra le braccia un cestino di vimini vuoto, chissà a cosa le serviva, magari per raccogliere i frutti del suo lavoro nell’orto. Sembrava che fosse felice che una straniera si fosse insinuata in quel luogo. Sentii il cuore battere, come se fosse stato immobile fino a quel momento, ero viva e chissà quanto lontana da casa. Avevo completamente perso la percezione della distanza.
Camminai ancora fino a che non arrivai in un prato. Mi sedetti lì. L'aria fredda mi tagliò il viso finchè non abituai alla temperatura.
Presi il mio blocco degli appunti e iniziai a disegnare tutto quello che mi passava per la testa. Cuori spezzati. Occhi gonfi. Ballerine senza arti. Fate tristi. Conigli che avrei voluto dipingere di rosa. Mira. Premi. Spara. Scrissi queste parole in ripetizione. MiraPremiSpara. Jack, mira verso di me; Premi il grilletto; Sparami. Scrissi: Assurdità. La parola del giorno. Le colline davanti a me. Le lacrime sul mio viso. La nebbia davanti ai miei occhi. Mi buttai indietro e mi ritrovai l'erba alle spalle. Chiusi gli occhi. Il vento che mi sussurava piano. Lo ascoltavo. Mani intrecciate che danzano e suonano il piano. Dolce melodia, sempre più lontana e sfumata. La voce lieve, intonai una melodia. Forse sentita da qualche parte, forse semplicemente inventata sul momento.
Ad un tratto dagli occhi chiusi avvertii il buio che calava. Mi drizzai seduta e mi accorsi che il sole stava tramondando. Non avevo la minima idea di quando l’ultima corsa per il capus partisse così corsi a perdifiato alla fermata dell'autobus e con mio sommo sollievo l’ultimo autobus doveva ancora partire.
Persi completamente la conizione del tempo, non sapevo nemmeno che ore fossero quando arrivai di nuovo al campus.
Quando fui quasi davanti al mio dormitorio vidi un'ombra poco lontana.
Lo riconobbi subito: era Jack, di spalle.
Sorrisi alla sua visione credendo che stesse aspettando me. Forse aveva cambiato idea, forse voleva ancora abbracciarmi. Baciarmi. Toccarmi. Mandarmi in paradiso.
Quando fui vicina vidi che non era solo. Intravidi una figura di donna davanti a lui. Erano vicini, sempre più vicini. Si baciarono. Si abbracciarono. Si sussurarono cose sorridendo.
Quella figura di donna non ero io però. Non ero estraniata dal mio corpo e mi osservavo. Non ero fra le sue braccia. Era un’altra, non mi importava chi fosse.
Mi si gelò il sangue nelle vene. Non potevo credere a ciò che avevo appena visto. Lui. Lei. Lì davanti ai miei occhi. Corsi via sperando di non farmi vedere.
Entrai nel dormitorio velocemente ancora incredula e scossa.
Appena fui dentro però sentii stringermi il polso, mi voltai di scatto. Era lui.
“Lù...”
Lo guardai senza dire una parola. Controllai le lacrime, ma scivolarono comunque dal mio viso, bagnandomi le guance. ”Lasciami.” Divincolai il braccio, non volevo più essere toccata da lui.
”Hai visto tutto, vero? Mi dispiace... Io...”
Immobile davanti alla scala, aspettavo che mi strapasse il cuore dal petto e lo gettasse a terra.
”Ti dispiace? E di cosa? Di avermi trattata come un'estranea per settimane? Di esserti fatto beccare con un'altra davanti al mio dormitorio? Di cosa? Ti dispiace sempre di tutto, ma continui imperterrito a fare lo stronzo!” alzai il volume della voce, mentre la rabbia saliva e la delusione schizzava alle stelle.
”Io... Posso spiegarti...” flebili parole confuse come dardi infuocati conficcati nel petto.
”Ah, si?” sorrisi amaramente cercando di frenare le lacrime. “Se fossi un più sadica ti farei sparare qualche bella stronzata, ma visto che ti voglio evitare una figura di merda puoi anche andartene. Quella è la porta.” Allungai il braccio verso la porta alle sue spalle, col braccio teso per non farlo tremare.
“Lo so, ma...”
“Ma... cosa?” lo interruppi, non volevo più sentire la sua voce “C'è ancora qualcosa da dire a questo punto?” mi mordicchiai il labbro inferiore nervosamente, i miei occhi puntati su di lui che non volevano schiodarsi da colui che avevo amato con tutta me stessa e che ora mi stava distruggendo, anzi... Mi aveva appena distrutta completamente.
“Io non volevo... Ho provato... Ho cercato di avere una storia seria con te, ma non ci riesco. Di costruire qualcosa di più. Non volevo farti soffrire.”
“Questa è veramente bella... Se tu non avessi voluto farmi soffrire avresti dovuto mollarmi sin dall'inizio! Non avresti dovuto prendermi in giro!” urlai fra le lacrime ormai incontrollate, perchè ogni singola sillaba pronunciata dalle sue labbra era una pugnalata al cuore, all’anima, al cervello.
“Te l'avrei detto...”
“Dirmi cosa? Cosa ti serviva la dimostrazione pratica?! Potevi farmi un disegnino, no?!”
“Dirti che non sono pronto per questa cosa. Mi ha fatto capire molte cose stare con te... Io...”
Non mi interessava sapere cosa avesse capito, mi sentivo umiliata, usata... L’ultima delle idiote.
“E' stato un esperimento molto interessante, vero?! Spero tu ti sia anche divertito, Jack!! E ora vattene da qui... Vai via...” girai le spalle e corsi via, salendo le scale.
“Lù... Aspetta...” allungò un braccio verso di me.
Mi fermai a metà delle scale. Lo guardai ancora una volta con un’espressione indecifrabile, troppi stati d’animo dentro di me per poter essere tutto lucido e chiaro.
"Avresti potuto avere almeno il buon gusto di non venire davanti a casa mia a sbaciucchiarti con un'altra. Sei proprio stupido, Jack..." furono le ultime parole che pronunciai prima di riprendere la mia corsa.
Non mi fermò, rimase là a guardarmi.
Corsi veloce verso la nostra sala prove. Spalancai la porta con violenza per poi richiuderla altrettando forte senza guardare nulla davanti a me e inciapai, sbattendo un ginocchio a terra.
Imprecai fra le lacrime, ma in fondo non sentì nulla: ero soprafatta da qualcosa di molto più forte. Avrei voluto squarciarmi il petto. Avrei voluto distruggere tutto quello che avevo intorno, l'intera stanza. Ma rimasi lì, in un angolo della stanza, a piangere, a maledirmi di essermi innamorata della persona sbagliata.
Avevo affidato a lui tutta me stessa, la realtà era semplicemente che non gliene era mai importato nulla. Ero solo una cavia per i suoi esperimenti. Ero stata un giocattolo. Una stupida bamboletta che ora si era rotta e non aveva diritto a stare nel cesto nei giochi. Mi passavano davanti le immagini di lui che l'abbracciava e la baciava. La stringeva. Le sussurrava all'orecchio. Mi scoppiava la testa. Mi accasciai al suolo con la testa fra le mani. Nulla aveva importanza. Gli avevo donato il cuore, l’avevo posato tra le sue mani e lui le aveva richiuse, strette in un pugno mandandomi in pezzi il cuore.
Si aprì piano la porta lasciando entrare uno spiraglio di luce.
Volatai lo sguardo. Elvira mi guardava sulla porta. Si mordeva le labbra. Ero sicura che avesse sentito e visto tutta la penosa scena. Si avvicinò lentamente e senza dire una parola imbracciò la mia chitarra.
Nonostante fosse una bassista, aveva imparato qualche accordo con la chitarra. Il minimo per un’appassionata di musica come lei. Se la cavava.. Iniziò a cantare per me The House of the Rising Sun. Non era stonata come diceva, tutt’altro: aveva la voce d'angelo. Forse fu il momento, ma mi sembrò la voce più dolce che avessi mai sentito: roca, sensuale, ma pulita e chiara. Non le importava di stonare o sbagliare, continuò. Mi penetrò nelle crepe del cuore. Lentamente, come linfa. Cantava per me. Cantava per i pezzi di orgoglio che avevo perso. Cantava per le mie lacrime. Cantava per il mio cuore. Per il mio cervello. Per il male che avevo dentro. Perfettamente intatta fuori, distrutta all'interno. Infuocata dalla rabbia. Inerme dal dolore.
"-Ditemi quando dire ti amo senza sbagliare- Ditemi a chi affidare l'anima senza essere uccisa. Non voglio mai più innamorarmi. Mai più." pensai. Mentre il viso era ancora ricoperto di lacrime.
Sarei potuta morire in quell'istante e non me ne sarebbe importato nulla. Se non ci fosse stata Lei quella sera... Cantava ancora per me. Quando finì appoggiò la chitarra e mi accarezzò una guancia.
”Avrò sempre cura di te, come tu hai avuto cura di me. Quando non saremo insieme ballerò per te sotto i temporali incazzati. Canterò per te tutte le volte che sarai triste. Ti prometto che farò di tutto per far ritornare il tuo viso sereno.”
Mi accarezzò la fronte dolcemente e mi sorrise, non nascondendo una vena di preoccupazione nell’espressione, in quel viso così perfetto.
Non riuscivo nemmeno a parlare, piangevo ancora, ma riuscii a dire solo ”Grazie... Di cuore.” con un filo di voce mentre ricambiavo il suo abbraccio, stringendomi forte a lei.
Due ragazze. Due amiche. Due sorelle. Due anime che si erano incontrate e si erano arrampicate l'una all'altra come edera. Due fiori a cui avevano strappato i petali, nella stessa stanza, si tenevano a vicenda la vita inchiodata a terra.
Dedicated to M.