Titolo: Questione di nomi (e qualcosa di più)
Fandom: Veronica Mars
Personaggi/Pairing: Veronica Mars/Eli "Weevil" Navarro
Parte: 1/1
Rating: PG13
Conteggio Parole: 3774
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EFPRiassunto: Un esperimento stilistico per una coppia assolutamente inedita e che adoro alla follia. La semplice storia di vita di una persona che si innamora.
Note: Oneshot. Ambientata parte nella prima stagione e parte nella seconda. Nessuno spoiler.
Lei si chiamava Veronica, un nome come molti. Era il nome di una donna di mezza età che lavorava a un supermarket nella via malfamata di Neptune. Era il nome di una bambina che era la figlia di non ricordava bene quale amico di amico del preside della scuola superiore della città. Era il nome di una vecchia fiamma di Aaron Echolls, una delle tante, che poi era partita per New York perché le piaceva danzare. Era il nome di una bambola con cui Mac giocava da piccola.
Quando tra gli altri si parlava di una certa Veronica nessuno si animava più di tanto.
Anche Mars era un cognome come molti. Mars è pure un pianeta, un dio romano, il soprannome di una fu famosa commediante francese e il nome di una altrettanto celebre marca di cioccolatini con il caramello. Potrebbe venire in mente qualunque cosa pensando a un Mars.
Il problema non sussisteva fin quando quel nome qualunque e quel cognome qualunque non si amalgamavano in un'unica simbiosi, e allora usciva lei, in tutto e per tutto: Veronica Mars. Quando gli altri parlavano di Veronica Mars, allora sì: l'argomento pareva diventare particolarmente più interessante. Veronica Mars non era più una qualunque, ma la figlia dell'ex sceriffo, la piccola investigatrice, l'impicciona, la ficcanaso, la fidanzata di Logan, la fidanzata di Duncan, l'ex fidanzata di Logan e di Duncan, la ragazza che scagionava, la ragazza che mandava in prigione, la biondina che sorrideva sempre da un solo lato della bocca, la cinica, l'ironica, l'imprudente e l'avveduta.
Lui invece si chiamava Eli, ma ciò non voleva significare nulla, come lo stesso il suo cognome Navarro, e facendo riportare alla mente degli altri sia il nome che il cognome non accadeva niente di speciale. Un formicolio in testa, o semplicemente un lapsus non spiegato, succedeva di esistere solo quando si ricordavano di lui come Weevil. Aveva scelto di farsi chiamare così perché era il nome di uno scarafaggio (perché questo era: lo scarafaggio di Neptune), ma soprattutto perché suonava enormemente bene e incuteva timore: evil perché cattivo, we poi sta bene con tutto.
Weevil era il motociclista, l'anti giustizia, il bullo, il meccanico, l'Henry Hill un po' più latino e il Vito Corleone un po' più giovane, il nipote della domestica degli Echolls (ma questo solo i ricchi lo sapevano, e parevano saperlo solo per poter trarci un beffeggiamento), il figlio di una sconosciuta e di cento uomini, e per un periodo di tempo era stato anche il nemico del suo compagno Thumper.
Tra la biondina-amica-di-tutti-e-nessuno e il latino-con-più-tatuaggi-che-capelli, come lo chiamava sempre lei, non scorreva buon sangue, inizialmente. Weevil in realtà la odiava proprio. Se ne accorse quando, guardando una bambina che sottometteva il suo cane col ricatto di un biscotto, ripensò a Veronica Mars.
Nessuna Veronica l'aveva mai assoggettato come la Mars, né la Veronica ragazzina con cui giocava da piccolo che aveva ben cinque anni più di lui né tanto meno la Veronica per metà sgualdrina che aveva conosciuto non ricordava bene in quale città dell'Illinois, con cui aveva avuto un rapporto tutt'altro che remissivo.
A lui non piaceva lei perché era altezzosa, perché era bionda (e lui aveva un pregiudizio innato sulle bionde), perché era figlia di un uomo che lavorava per la giustizia e perché era una persona a cui mancavano tutte le passioni. A lei non piaceva lui perché era zotico, ignorante, manesco, prepotente ed era capo di una banda di bassa lega di malviventi, e secondo lei tipi come loro si mettevano in branco perché da soli non sapevano valere niente.
Poi si conobbero realmente, e in fondo quella malvagia esteriorità che lui mostrava agli altri non era del tutto verità, scoprì lei, e quell'anima ermetica così attaccata alla giustizia non era poi così inaccessibile e vuota, scoprì lui. E cominciarono uno strano gioco di amicizia molto simile a quello che potrebbero avere un gatto e un topo, ma inusualmente funzionante: lei provava quasi un sadico piacere a comandarlo e lui un abituato masochismo nell'essere comandato. Spesso quel gatto e topo si erano messi in combutta per scacciare il cane, che a volte era un assassino, a volte un truffatore, a volte un taccheggiatore e a volte la giustizia stessa.
Il gatto e il topo, loro due erano proprio così. Lo erano maggiormente quando tra loro erano presenti le sbarre di una prigione, e allora sembrava ancor di più che il gatto, fuori, fosse il vero gatto che guardava bavoso e affamato quel piccolo topo rinchiuso in gabbia, dentro la sua cella da carcerato.
Erano sempre loro, Weevil e Veronica Mars, ovviamente lui il topo e lei il gatto. Quei momenti rafforzavano ancora di più i loro ruoli. Veronica, solitamente, entrava con disinvoltura dopo aver chiesto permesso allo sceriffo, o anche dopo non averlo fatto, poiché gli uffici della polizia erano come la sua seconda casa, e osservava con un sorrisetto stirato il compagno dietro le sbarre, sdraiato sulla branda consumata della cella, scocciato, annoiato, stufato. Lei gli diceva quasi sempre, appena entrava, che non si sarebbe annoiato così in quel momento se prima, solo per divertirsi, non avesse fatto tal de' tali cosa (rubato, scassinato, ferito, picchiato, taccheggiato, truffato o frodato, o a volte più di una di queste alla volta, o a volte anche tutte). Lui le rispondeva che la vita era breve, che andava vissuta, che quel giorno era arrabbiato, o nervoso, o aveva litigato con un conoscente, o uno sconosciuto, e che era un tipo troppo impulsivo e passionale: questo, diceva, il suo difetto. E lei, ironicamente, finiva sempre col commentare:
“E gli altri novantanove?”
Ma Weevil non riusciva mai veramente ad arrabbiarsi, perché lei era Veronica Mars.
Presto Veronica Mars e Weevil divennero un'ulteriore simbiosi di nomi, e la gente cominciò a pensare strane cose. Uno della banda di Eli, un ispanico come lui, gli si avvicinò per domandargli di loro due.
“Di me e della Mars?!” chiese a sua volta Weevil, incredulo. “Vuoi sapere chi spaccia e chi compra o chi paga e chi accoppa?”
L'uomo, incoraggiato dalla curiosità, riuscì a rispondere:
“Voglio sapere chi invita l'altro al motel ad ore e chi paga il conto.”
Weevil rise di quei risi brevi e nervosi e un po' interdetti, a tratti soffocati.
“Tu sei pazzo.”
Era una risposta che non dava risposta e che non lasciava trapelare una certa verità. Lui si accorse di questa certa verità quando, guardando un cielo terso in una giornata afosa al discarico delle macchine, si ricordò degli occhi di lei. Poi si ricordò dei suoi capelli che avevano il colore del campo di grano dei Brown alla fine della superstrada svoltando due volte a sinistra e una a destra, e dei fiori a casa sua che si seccavano perché la nonna non li annaffiava mai. E ancora, della gote che erano uguali a quelle della ragazza della pubblicità del dentifricio, delle mani affusolate e bianche, delle labbra fini e serrate che avevano gli angoli scavati e tendenti verso l'alto anche quando non sorridevano, delle spalle strette, dei seni minuti, della vita sottile come l'aveva quella diva di cui non conosceva il nome e sapeva che aveva recitato per Colazione da Tiffany (di cui non conosceva il nome fin quando si accorse che aveva la vita sottile di Veronica Mars, e per questo cominciò a rammentarlo). Si ricordava del suo sguardo birichino uguale a quello di Joe, il piccolo vicino, quando gli rubava la palla e gli diceva di non essere stato lui.
Così per Weevil Veronica Mars non era più la figlia dell'ex sceriffo, l'impicciona, l'ironica e la fidanzata di Logan, ma era cielo e mare, sabbia e grano, prati e fiori, stelle e monti.
L'amava. Se ne accorse così.
Se ne accorse più concretamente un tardo pomeriggio qualunque, sulla soglia di casa sua: un'orribile catapecchia in confronto alle belle ville che costellavano i borghi alti di Neptune. Lei era seduta lì, con lo sguardo perso e trasognato, gli occhi lucidi, divertiti senza senso e motivo. Gli stessi occhi che mettono in viso gli ubriachi.
“Sono scesa dalla macchina e il posto più vicino dove potevo andare era casa tua,” disse lei, con la voce alterata e sofferta, lunghe pause tra una parola e l'altra.
“Non vedo la tua macchina, V,” le fece notare Weevil. Il motivo era semplice:
“Non guidavo io. Non ero da sola.”
Eli si chiese con quale dei due ragazzi avesse litigato stavolta, se il figlio dell'assassino o il fratello dell'assassinata, e se a scendere dalla macchina era stata lei di spontanea volontà o meno. Se così fosse, che imprudente il suo ragazzo: cacciarla in mezzo alla peggior delinquenza di Neptune di pazzi e squilibrati, o, a seconda di come si ha voglia di vederla, tra la più deplorevole dimostrazione di morti di fame che non vivono ma sopravvivono, facendoli quindi somigliare, più agli uomini che sono, a delle bestie.
Si chiese se quella bottiglia di whisky che aveva ancora in mano era stata bevuta prima del fattaccio o per dimenticarlo. Si chiese se la sua lite d'amore era finita con uno schiaffo o con uno schiaffo e un addio. Ma quali fossero stati i fatti, la situazione rimaneva la stessa. Weevil era un tipo pragmatico e di poche parole.
“Entra,” le disse soltanto, aprendo la porta cigolante e facendole un segno veloce con il capo.
“Sei uno dei più cari amici che ho,” gli confessò Veronica appena fu dentro casa. “Sei il bullo più pericoloso, pazzo e violento di Neptune e uno dei più grandi amici che ho.”
E poi rise, non si sa bene se per la constatazione appena avuta, se perché doveva sentirsi una povera fallita per questo o se perché quando si è ubriachi si è propensi a ridere molto.
Quando Veronica ricominciò a sorseggiare il suo whisky (anche se sorseggiare è un termine un po' troppo raffinato rispetto al modo in cui beveva, ma riferito a una ragazza è forse migliore di tracannare), Weevil, con un movimento brusco, le afferrò il braccio e le allontanò la bottiglia dalla bocca. Era così il suo modo di preoccuparsi, un po' rude e un po' distaccato, perché la persona che la consolava con una chiacchierata era Mac, la persona che la consolava con una passeggiata e una risata era Wallace, la persona che la consolava con un film noleggiato era suo padre, e lui era la persona che la consolava con la sola presenza fisica. Una vicinanza comunque sentita, tanto quanto i ci-sono-io-con-te di Mac, i la-conosci-la-barzelletta-del-camionista-che-trasportava-zucche di Wallace, i è-un-filmetto-di-Coppola-il-regista-che-ti-piace-tanto di Keith.
La bottiglia che Veronica manteneva in mano cadde a terra, inaspettata; si ruppe in mille piccoli pezzi di vetro, colorati di verde e di quell'ambra un po' rossastro che era il colore del whisky, impregnati d'alcool del cui sentore cominciò pian piano a diffondersi per la piccola stanza dove si trovavano. Un clamore che avrebbe spaventato chiunque, o per lo meno fatto sussultare, ma Weevil e Veronica non si mossero di un millimetro, gli occhi su quelli dell'altro rapiti da una strana atmosfera in un certo senso sconcertante. Così era anche lo sguardo che cominciò a mettere in viso la ragazza: una Veronica Mars che non si era mai vista prima, volubile e stordita, con l'occhio lucido e le guance rosse; eccitata, come fosse una ragazzina che sta scoprendo qualcosa di nuovo e sporco con un fremito che non aveva mai sentito prima (quasi con innocenza), o forse come una puttana discinta di cui i fremiti le sono diventati un abituale presupposto per il lavoro (quasi con indecenza). A quale dei due casi si avvicinasse di più Veronica Mars, Weevil non sapeva dirlo, perché Veronica Mars era qualcosa che era sempre stato imparagonabile con chiunque.
Appoggiò la mano libera su Eli, perché era in equilibrio precario e se non l'avesse fatto sarebbe caduta e perché, in fondo, le andava di mettergli una mano lì, sulla spalla, calda, tatuata, scura, in un certo senso fresca (chissà perché lei pensò a questa strana sinestesia). Sorrise per questo, e rise, con voce flautata, sbarazzina, soffocata, prima di baciarlo. Un bacio che non era languido ma neppure casto, un dilemma che secondo lui poteva sussistere su Veronica Mars perché era Veronica Mars, perché per questo non c'era spiegazione. Lei, che era l'investigatrice, la migliore amica di Lilly, la peggior nemica di Aaron Echolls, l'ex membro degli 09, il suo cielo, il suo mare, i suoi prati, i suoi fiori, le sue stelle, i suoi monti, un respiro represso, un battito di cuore impazzito, una mano tremola, qualcosa che valeva la pena di esistere. Le mise il palmo dietro la nuca per avvicinarla a sé e assaporare maggiormente il suo bacio. Il resto venne da sé.
Una gonna coi lembi un po' strappati si ritrovò improvvisamente a terra, una camicia fu sbottonata (quella a righe rosse e gialle che lei mise il giorno che lo aiutò per i compiti di matematica), una maglietta azzurra senza maniche era stata gettata sopra la lampada accesa, e tutto attorno a loro si era colorato di celeste. Gli anfibi di lui e le scarpe da ginnastica di lei, che avevano ambedue i lacci troppo aggrovigliati per essere slacciati e presi in considerazione, restarono quindi lì, sui loro piedi, perché i due non davano un attimo di pausa al tempo che doveva riversarsi tutto su di loro e quell'atto, passionale, infuocato, assurdo, disarmante.
Ma, riprendendo quel discorso fatto di cielo e mare, sabbia e grano, prati e fiori, stelle e monti, non fu così che lui si accorse di amarla. Non era certo amore quel sentimento incauto che si stava impadronendo di Eli, anche se, dicono alcuni, l'amore non è razionale ma irrazionale, non cerca ragioni o comandi o freni, e quando si può presentare si presenta e punto. Amore è anche libido: senza quel presupposto non può autentificarsi nella sua totalità. Se così è allora si può dire che l'amore di Weevil era razionale e non irrazionale, ma era senz'altro uno scalino più alto di tutti gli altri amori, perché cercava anche quello dell'altra persona.
Quando smise di baciarla, Veronica lo scrutò confusa dicendogli che i suoi occhi sapevano di cadavere. Lui le rispose che la sua bocca sapeva di whisky.
“Non sai quello che fai,” le spiegò.
“Sì che lo so,” rispose lei. “Sono sicura di tutto quello che faccio.”
Weevil arrise con una punta di malinconia.
“Chi beve alcool non è mai sicuro di niente.”
Si accostò maggiormente a lei, che rimase ancorata nel suo abbraccio, tra gli arti caldi, tatuati, scuri e freschi di un uomo che era forte e buono.
“Sei il principe azzurro che veste di pelle nera e cavalca una moto,” gli disse. “E' come un sogno.”
“E' tutto un sogno,” fece l'altro. E lo ripeté mille volte. “E' tutto un sogno.”
Durante quella dolce litania, Veronica Mars si addormentò. E fu guardandola senza staccarle gli occhi di dosso, senza smettere di contemplare quella persona e quel nome che per lui erano tutto un mondo e qualcosa di più, senza chiedere e pretendere nulla a parte vegliarla nel sonno in silenzio... fu in quel momento che Eli si accorse concretamente di amarla.
Si era svegliata la mattina dopo, tra le spire di un vento mattutino e fresco che agitava le tende, sopra un letto con lenzuola perfettamente ordinate. Si mise con il busto eretto, ritrovandosi addosso tutti i vestiti del giorno prima (parevano esser restati lì per tutta la notte). Si alzò dal letto e con confusa curiosità si avviò verso la cucina. Lui era lì; aveva la sensazione già dal primo risveglio che era casa sua, ma non ne sapeva il motivo preciso. Si appoggiò con una spalla sullo stipite della porta e lo guardò girato di schiena versare il latte in una tazza di porcellana.
“'Giorno,” disse lui, che si era accorto della presenza di Veronica ancor prima che parlasse. Quando si voltò gli vide stampato sulla maglia rossa un logo già visto, di chissà quale arcana squadra di basket: un canestro era l'unico indizio. A Veronica stonò qualche particolare, e con una logica istintività si voltò verso il comodino vicino al letto. Si aspettava di trovare una lampada con una luce azzurra, ma non vide niente.
“Se vuoi puoi continuare a guardarti intorno per sempre,” le disse Weevil, porgendole la tazza di latte, “oppure io posso spiegarti perché sei qui,” soggiunse sorridendo e portando verso l'alto solo la parte più interna delle sopracciglia, un tipo di espressione un po' difettosa che aveva solo lui.
Veronica sorrise distendendo totalmente le labbra. “Forse con la seconda opzione riesco a non perdere un giorno di scuola.”
“Dormivi sulla soglia della porta di casa,” si affrettò a spiegare lui. “Sembravi una barbona. Ho cercato di svegliarti ma eri ubriaca fradicia, così ti ho portato a casa e ti ho fatto dormire sul mio letto.”
“E tu?” chiese immediatamente Veronica Mars, gli occhi che brillavano di quella strana luce solo in due casi precisi: quando doveva investigare e qualcosa non quadrava o quando, semplicemente, qualcosa non quadrava.
“Ho dormito sul divano,” e lo indicò col dito, sfatto e consumato, con sopra una coperta di lana gialla. Tutto faceva presupporre che ciò che aveva asserito fosse vero, e così anche l'indumento che si era volutamente cambiato e la lampada sparita, oltre i vestiti di Veronica ritornati anch'essi miracolosamente sul suo corpo.
Dopo vari indugi Veronica Mars gli credette perché era l'investigatrice che in ogni indagine seguiva i fatti e le prove e non le chiacchiere e le parole (a volte anche più delle sue intuizioni), o forse semplicemente perché la forte emicrania che aveva in quel momento non riusciva a farla ragionare adeguatamente. Si girò la tazza più e più volte tra le mani, fermando quel vorticoso gioco quando alzò gli occhi su Weevil.
“Che c'è?” chiese lui con genuina normalità.
“Niente... pensavo...” rispose. “Pensavo a uno strano sogno che ho fatto stanotte.”
Lui sorrise, quasi teneramente e quasi sfacciatamente, e le ricordò un'opera che avevano studiato qualche mese fa che parlava di un sogno. C'erano creature fatate, c'erano mostri e cantastorie. Era Shakespeare, gli informò lei: Sogno di una notte di mezza estate. Continuarono a parlarne dopo essere usciti di casa. Eli aveva messo le chiavi nel cruscotto della moto per accenderla, e mentre aveva tolto il cavalletto disse, a un certo punto, Romeo e Giulietta, e lei meditò uno scherzoso come-le-storie-segrete-d'amore-tra-la-parte-alta-di-Neptune-e-quella-povera. Lui, inevitabilmente, ripensò a Lilly, e Veronica, imbarazzata, fece un sorriso di circostanza. Weevil le avrebbe voluto dire che non doveva sentirsi in colpa, perché da un po', quando rievocava Lilly, era come rievocare un ricordo sfocato e tenero. Veronica Mars era invece tutto il resto e uno sguardo felice al presente. Ma non disse nulla.
Arrivati a scuola ripassarono Romeo e Giulietta perché la professoressa, novantanove su cento diceva Veronica, avrebbe interrogato lui, e avrebbe avuto almeno qualcosa da poter dire. Lui la conosceva già la storia (aveva visto il film di Baz Luhrmann, ma ciò che lo aveva colpito era stata la lotta tra Mercuzio, Tebaldo e Romeo. In fondo, adorava di più i film con le sparatorie che quelli romantici) e quindi le chiese di fargli imparare a memoria alcune strofe. E lei cominciò: O Romeo, Romeo! Perché sei tu Romeo? Rinnega tuo padre; e rifiuta il tuo nome: o, se non vuoi, legati solo in giuramento all'amor mio, ed io non sarò più una Capuleti. E ancora: Il tuo nome soltanto è mio nemico: tu sei sempre tu stesso, anche senza essere un Montecchi. Che significa "Montecchi"? Nulla: non una mano, non un piede, non un braccio, non la faccia, né un'altra parte qualunque del corpo di un uomo. Oh, mettiti un altro nome! Le chiese come mai conosceva così bene l'opera, e lei: è solo una parte importante dell'opera, la conoscono molti, e poi l'ho ascoltata un milione di volte mentre provavamo per la recita scolastica. Giulietta era Meg, che era bella e pura come lei. Continuò: Che cosa c'è in un nome? Quella che noi chiamiamo rosa, anche chiamata con un'altra parola avrebbe lo stesso odore soave; così Romeo, se non si chiamasse più Romeo, conserverebbe quella preziosa perfezione, che egli possiede anche senza quel nome. Romeo, rinunzia al tuo nome, e per esso, che non è parte di te, prenditi tutta me stessa.
Weevil portò in alto l'interno delle sopracciglia, incerto, e borbottò qualcosa di incomprensibile. Veronica lo osservò interrogativa.
“Qualche rinnovabile critica costruttiva per quest'opera da niente?” domandò ironicamente lei.
“Non mi torna il fatto del nome. E' un po' una cazzata,” confessò lui.
“Una cazzata?” fece lei. E' romantico, pensò, e tu sei un maschio e non capisci. Ma ponderò bene che anche l'autore era un maschio, e lasciò taciti i suoi lamenti femministi.
“Secondo me un nome non sarà mai solo un nome e niente più,” spiegò Weevil, gesticolando freneticamente come succedeva quando si trovava a fare discorsi seri. “E poi t'immagini se Romeo avesse avuto un nome di merda?” E con voce volutamente più acuta e stridula: “O Eustacchio, Eustacchio! Perché sei tu Eustacchio? Rinnega tuo padre!”
Veronica rise.
“E poi,” continuò lui, “un nome può voler dire tante cose. A volte niente, a volte solo qualche ruolo per qualcuno, e a volte, per qualcun altro, anche cielo, mare, sabbia, grano, prati, fiori, stelle, monti...”
“Questo nome è facile, Weevil: è il pianeta Terra,” scherzò lei, ma lui la guardò serio.
“E' qualcosa di più.”
La lasciò così, nel corridoio di scuola vicino al suo armadietto, e lei non seppe fare altro che rimanere in un confuso silenzio.
Quando Weevil entrò in classe, uno della sua banda lo fermò bruscamente. In viso aveva un'espressione di goduta scoperta.
“Mezza scuola ti ha visto che accompagnavi con la moto l'impicciona di Neptune. Che, ti sei fottuto la figlia dello sceriffo?”
Eli lo guardò con spasso, ma era anche quel tipo di sguardo che loro sapevano voler dire come-cazzo-ti-è-venuta-solo-in-mente-una-idea-del-genere. Ma d'improvviso quello sguardo divertito s'intenerì, come succede a chi rievoca il nome di qualcuno che non è solo qualcuno e non è solo un ruolo.
“Perché la chiamate la figlia dello sceriffo? Chiamatela col suo vero nome. Chiamatela Veronica Mars,” disse.
Veronica Mars era una simbiosi di parole perfetta, dopotutto. E sentirla, per lui, era come riuscire a toccare in un secondo tutto il mondo. (E qualcosa di più).