[Sherlock BBC] Santa fest \o/

Jan 06, 2013 15:00

Titolo: Brothers lie in shallow graves, fathers lost without a trace
Personaggi: Mycroft Holmes, Sherlock Holmes, signori Holmes
Rating: PG-13
Genere/Warning: angst
Wordcount: 4018
In cosa questa fic consiste: Si era spesso domandato quando il fratello avesse cominciato a pretendere una fetta così grossa della sua vita - senza volerlo, semplicemente essendo quello che era. Lui non richiedeva la compagnia ad alta voce, ma pretendeva che tutti fossero attorno a lui, faceva chiasso perché tutti lo ascoltassero e poi restava muto, trincerato dietro una testardaggine autodistruttiva.
Note: scritto per il Santa Fest con prompt "Mycroft Holmes, essere fratelli maggiori". Per il piacere di grandi e piccini è tornato quel momento dell'anno in cui io non ce la posso fare con gli Holmes. #buh

Mycroft vide suo fratello per la prima volta una settimana dopo la nascita. Era rimasto in incubatrice perché nato sottopeso, e per anni i suoi genitori avrebbero ripetuto quanto fosse problematico sin dal primo momento di vita. Soprattutto, lo avrebbe spesso ricordato Violet che si era portata quel piccolo disastro nel grembo per nove mesi; lo avrebbe ricordato ridendo mentre riusciva a metterlo a dormire dopo infiniti capricci e lo avrebbe ricordato stringendo gli occhi quando se lo ritrovava in salotto mentre grondava sangue dal sopracciglio o dal braccio.
Mycroft sentì la porta aprirsi dietro di lui e, il più silenziosamente possibile, si avvicinò ai suoi genitori. Suo padre aveva chiamato dall’ospedale per dirgli, sottovoce, che stavano tornando tutti a casa, e Mycroft aveva corso quasi fino a rischiare di spaccarsi il collo lungo le scale - andando contro ogni logica, pensò quando si sedette sul divano di pelle con il libro che stava prima leggendo in camera da letto, perché di certo ci avrebbero messo quaranta minuti, almeno, per arrivare dall’ospedale a casa.
Da quando gli avevano detto che sua madre aspettava un bambino per la seconda volta, era rimasto in uno stato perenne di elettrica eccitazione per tutto il tempo. Aveva letto ogni sorta di libro, destinato per lo più ai genitori, su come accudire un bambino, come avrebbe dovuto accoglierlo, come si sarebbe dovuto comportare con lui. Aveva più teoria in testa lui che generazioni e generazioni di padri e madri, sapeva come cambiare il pannolino e la temperatura ideale per il latte - non era sicuro che sua madre allattasse al seno e non gli sembrava una domanda da farle - e sapeva quasi una cinquantina di ninnananne. E quando sua madre gli fece vedere il bambino, il suo fratellino minore, tutto scomparve per qualche attimo, e si sentì così eccitato da aver paura di scoppiare; gli baciò la fronte tiepida con cautela, quasi timidamente, per paura di romperlo - o, peggio, svegliarlo.
“Benvenuto, Sherlock.”

***

“Sì, mamma, vengo subito. No, no, una mezz’ora guidando veloce. Vado direttamente da Sherlock - sì, sto benissimo dove si è cacciato, altrimenti perché ti ho detto che vado direttamente da lui? … sì, scusa, mamma, sono solo un po’… lascia stare. Lo trovo e lo tengo con me, stasera, d’accordo? Henry non avrà problemi ad ospitarlo. Per il cambio vado a comprargli qualcosa domattina, tranquilla, non lo lascio andare in giro con i vestiti di oggi. Sì, sì, quando lo trovo vi faccio chiamare. Sì, mamma, lo so, ma sono sicuro che non si sia fatto male. Sì, mamma, sì, ma devo andare, d’accordo? Vado a recuperare la peste.”
Mycroft agganciò la cornetta e appoggiò la fronte all’apparecchio attaccato al muro, desiderando di riempirlo di testate per verificare quanto il dolore potesse essere rigenerante per la mente. Si voltò verso Henry, che aveva ascoltato tutta la conversazione appoggiato allo stipite della porta del salotto - cercò di dissimulare di essere stato attento ad ogni parola, per una sorta di strano pudore, come se ancora non fosse consapevole di quanto fosse inutile, e quasi dannoso, cercare di mentire davanti a Mycroft.
“Vado. Dovrei tornare…”, controllò l’orologio da polso rapidamente, “per mezzanotte, al massimo. Mi dispiace di averti fatto cucinare inutilmente. Mi tieni in caldo qualcosa, per favore? Dividi la mia cena in due piatti, così il secondo lo diamo a Sherlock, sperando che mangi. Non mangia dal mio stesso - no, facciamo che io prendo qualcosa per strada e tu lasci la mia cena a Sherlock.”
Sospirò prendendo il cappotto appeso alla parete, dando la schiena a Henry. Quello sbuffò, probabilmente roteò gli occhi, i due erano sempre gesti concatenati.
“Tuo fratello è proprio una piaga, eh?”
Con il suo sorriso migliore Mycroft si girò verso di lui, mentre metteva a posto la sciarpa.
“Esatto. A questo proposito, dubito che accetterà di entrare in una casa così piccola e mal arredata, sai, è una piaga assai capricciosa. Lo porterò in albergo, e domandi manderò qualcuno a recuperare i miei vestiti. Buon proseguimento di serata. Ah, credo che per la tua incolumità fisica sia meglio non vederci più.”
Chiuse la porta dietro di sé con delicata educazione, anche se avrebbe voluto sbatterla così forte da far crollare la casa.

“Chi sei?”
“Tuo fratello.”
“Dimostramelo.”
“Hai battuto Capitan Uncino facendogli notare che doveva pulire l’uncino al più presto o il braccio si sarebbe corroso del tutto, quindi l’hai buttato in pasto al Coccodrillo e sei diventato capitano tu.”
“Cosa vuoi?”
“Che andiamo in albergo assieme. Ti va di mangiare fuori, stasera?”
“Non ho fame.”
“Hai cenato?”
“No, ti ho detto che non ho fame, idiota.”
“Sherlock, esci di lì, per favore…”
Piegato sul terreno ancora umido di pioggia allungava la mano verso suo fratello come con un animale randagio spaventato dalla tempesta, e come tale si era rifugiato in un angolo della casetta di legno del parco giochi, troppo piccola perché Mycroft ci si potesse infilare. Avrebbe voluto rimpicciolirsi per entrare e sedersi accanto a Sherlock che, ancora più piccolo, si sarebbe addormentato in braccio a lui, tranquillo.
“Non voglio uscire. Mi riporterai a casa.”
“Sherlock, per l’amor del cielo, l’ho mai fatto?”
“Potresti cambiare idea da un momento all’altro.”
“Non recitare la parte dello stupido. Su, vieni qui, Lock.”
Sherlock non rispose ma, lentamente, gattonò verso l’uscita. Mycroft notò gli occhi rossi, gonfi, e immaginò che i suoi genitori non avessero ancora imparato ad avere la decenza di litigare in una stanza che fosse lontana dal bambino. Come potevano meravigliarsi se Sherlock, alle otto di sera, in pieno inverno, scappava? Avrebbe voluto prendere Sherlock in affidamento e tenerlo lontano da loro almeno fino a quando non si fossero resi conto del ragazzino con cui avevano a che fare.
Sherlock si appoggiò al suo petto come ad un muro, e Mycroft lo nascose sotto il cappotto.
“Dove andiamo a mangiare?”, gli domandò Sherlock con un filo tremulo di voce. Aveva i capelli umidi e tremava. Mycroft si azzardò a prenderlo in braccio e quello non si ribellò.
“Dove vuoi.”
“Mc Donald’s.”
“D’accordo.”
Mycroft odiava visceralmente i fastfood, e Sherlock lo sapeva, e sapeva anche altrettanto bene, il piccolo approfittatore, che non gli avrebbe mai negato nulla.
Attraversò il cancello con Sherlock che teneva mollemente la testa nell’incavo della sua spalla. Con difficoltà aprì la macchina e lo fece sdraiare sui sedili posteriori. Si addormentò prima di arrivare al Mc Donald’s. Prese qualcosa da portare via, perché immaginava che si sarebbe svegliato durante la notte e avrebbe avuto fame.
Alle tre del mattino Mycroft non aveva ancora voluto chiudere occhio, leggeva al fianco del fratellino, e Sherlock si svegliò stropicciandosi gli occhi e allungando la mano verso i Mc Nuggets sul comodino, senza rendersi pienamente conto della propria esistenza. Mycroft chiuse gli occhi, rabbrividendo, davanti a tutte le briciole di unto che lasciava sulle lenzuola. Sherlock ne mangiò sei, di quelle disgustose crocchette di pollo ormai gelate, e gli chiese dove fosse la Coca Cola. Prima che Mycroft potesse portargliela fredda di frigo si era addormentato di nuovo.
Alle otto e mezza scese a fare colazione mentre Mycroft si lavava i denti. Quando lo raggiunse, in sala, poteva a malapena vederlo sopra la torre che aveva formato davanti a sé: panini impilati uno sopra l’altro per formare una muraglia, un cornicione di brioche, un prato di burro e marmellate, uno stagno di salumi. Non avrebbe mai mangiato tutto, ma gli piaceva giocare col cibo. Un’abitudine terribile che non aveva mai avuto il coraggio di provare a correggere, perché per Sherlock lui doveva essere l’unico angolo di pace.
Gli sorrise e si sedette davanti a lui, aspettando che Sherlock gli porgesse il piatto perché la colazione la preparasse lui. Gli spinge sotto al naso due panini, un panetto di burro, uno di marmellata di fragole, e due fette di mortadella. Aveva appena aperto il primo panino che Sherlock iniziò il loro gioco dell’albergo, sbocconcellando la brioche con morsi da uccellino:
“La signora dietro di te è un uomo.”
“E la coppia dietro di te è una coppia di adulteri.”
“Davvero?”
“Mh-mh, non te ne sei accorto?”
“Solo perché non li ho guardati bene. Il cameriere che è salito per riordinare la nostra stanza se la fa con la tizia della reception, quella coi capelli rossi e ricci lunghissimi.”
“E lo sai che la tradisce con la cuoca?”
Sherlock aggrottò le sopracciglia, strappando pezzettini alla brioche e lasciandoli cadere su un secondo piattino. Sbuffò gonfiando le guance. “Tu non hai dormito neppure un minuto.”
“Questo non vale, Sherlock, anche una pecora lo avrebbe intuito.”
“È comunque una deduzione.”
“Hai tecnicamente ragione.”
“Come sempre.”
“Esatto.”
Sherlock sorrise, allungando le mani verso il panino con la mortadella. “Mi porti a casa, dopo colazione?”
Come se gli avesse semplicemente chiesto di passargli la forchetta, Mycroft annuì. “Come vuoi, Lock.”, ed aprì il secondo panino.

Alla fine si fece portare in centro, perché pensava di aver bisogno di vestiti - non lo aveva, e lo sapevano entrambi, ma ancora Mycroft non riusciva a dirgli di no. Tre camicie e due maglioni, quattro paia di jeans, cartoni animati in cassetta, un gelato che buttò a metà. Nel pomeriggio inoltrato disse a Mycroft che era stanco, e che voleva tornare a casa. Una volta in macchina non aprì bocca. Cominciò a respirare più forte e più veloce quando iniziò a riconoscere la strada che lo avrebbe condotto a casa. Al solito. Mycroft allungò una mano verso la sua testa, accarezzandola, facendolo calmare appena, impercettibilmente, ma abbastanza perché non si mettesse a piangere.
Quando entrarono Sherlock schizzò in camera sua senza neppure togliersi il cappotto, ignorando completamente la madre che fu subito sull’orlo delle lacrime appena lo vide. Mycroft non riusciva neppure a pensare di biasimarlo. Da quando l’aria in quella casa era diventata così insalubre, soffocante?
Si guardò attorno, percependo un’assenza troppo pesante. Ma la mamma sembrava ferita a sua volta e, se avesse infierito (“Dov’è papà, mamma? Perché quando Sherlock scappa lui non c’è mai?”), sarebbe stato come ucciderla nel sonno.
“Tuo fratello è diventato così maleducato…”, sospirò lei, con la voce bassissima perché non si rompesse. Aveva sempre cercato di darsi un contegno, davanti ai propri figli, di mostrarsi la donna più forte ed integra che avrebbero mai conosciuto, ma Sherlock metteva spesso alla prova quella sua forma esteriore, come se andasse con un minuscolo scalpello ad infilarsi, con cognizione di causa, in tutte le più piccole crepe, per godersi il suono della caduta.
Mycroft appese la giacca all’attaccapanni. Era già stanco prima di iniziare. “È solo un bambino, mamma, imparerà. C’è del the? Devo aver preso freddo, oppure sto diventando troppo vecchio, ma ne ho davvero bisogno.”
Fare il the calmava sua madre come nient’altro. Dal sorriso fu evidente che apprezzò come Mycroft avesse ancora quelle piccole attenzioni per lei. Si asciugò le lacrime in fretta, facendosi seguire da suo figlio in cucina. “Alle more ti piace? Ne ho preso uno nuovo l’altro ieri, volevo giusto provarlo…”
“Proviamo. A Sherlock fai quello alla fragola, sono sicuro che ne prenderà una tazza anche lui, se gliela porto io.”

Si svegliò con Sherlock appallottolato contro di lui. Si ricordò improvvisamente che aveva solo otto anni. Cosa facevano i bambini, a quell’età? Decise che avrebbe portato Sherlock di nuovo in giro e sarebbero stati al parco giochi. Sherlock adorava la giostra dei cavalli e la ruota panoramica, ci sarebbero stati così tante volte da fargli venire la nausea. Lo lasciò dormire un altro po’, mentre pianificava la sorpresa. Era grato che riuscisse ancora ad ingannarlo come un bambino vero.

***

“Sherlock, vieni, vieni a dare un saluto al nonno…”
“No.”
Sua madre aveva sempre creduto in una forte dignità e decoro, per questo non prese suo figlio per un braccio trascinandolo fra urla e lamenti e piagnistei ridicoli. Si limitò a sbuffare, entrando da sola nella stanza d’ospedale di suo padre. Mycroft pensava che anche questo atteggiamento contribuisse al brutto carattere di suo fratello.
Il ragazzino, tredici anni e la stessa insolenza di quando ne aveva sette, se ne rimase a braccia conserte in sala d’aspetto, premendo così tanto contro la sedia di plastica che Mycroft credeva volesse conficcarcisi dentro.
“Il nonno non morirà.”
Lo disse all’improvviso, Sherlock, con voce fragile. Mycroft gli stava ad una sedia di distanza, in quella vuota poteva vedere il fantasma di un rapporto preso a pugni.
“Lo so.”
“Non stavo parlando con te.”
Lo detestava come detestava il loro padre. Mycroft sapeva che in lui riconosceva tratti simili, ma non grattava abbastanza la superficie di rendersi conto di quanta distanza ci fosse tra loro, di quanto enorme fosse l’affetto e il senso di protezione di suo fratello rispetto a quello di Siger Holmes, che come se nulla fosse li aveva abbandonati per farsi una nuova famiglia. Sherlock avrebbe sopportato l’abbandono di tutti, tranne quello del padre, l’uva che non sarebbe mai riuscito a raggiungere, quindi quella che desiderava di più di tutti.
Mycroft rimase in silenzio.
Non era il benvenuto nella stanza del nonno, perché era colpa sua se si era fatto male. Questa era la versione ufficiale. Sherlock lasciava deliberatamente i propri oggetti in giro perché qualcuno inciampasse, e così era successo. Era un’abitudine a cui nessuno sembrava dar peso; era un ragazzino disordinato, non lo faceva apposta. E poi il nonno non era forse inciampato nell’ombrello di Mycroft? Se solo fosse stato più attento, e non avesse insegnato il disordine a suo fratello minore, niente di questo sarebbe successo. Preferiva ferire se stesso piuttosto che suo fratello. Tutti cercavano, come per rimediare agli errori che sicuramente avevano commesso (altrimenti perché Sherlock, così intelligente, si comportava in maniera così infantile, insopportabile?), di essere più cortesi con Sherlock, più comprensivi, come se questo potesse lenire il dolore che gli avevano provocato finora con lo stesso metodo, ignorando i suoi segnali di fumo.
“Vado a prendere una cioccolata calda. Vuoi qualcosa, Sherlock?”
Ovviamente non gli diede la soddisfazione di rispondere. Non mangiava da quasi ventiquattr’ore, poteva sentire il gorgoglio affamato del suo stomaco, ma considerava infetto tutto quello che Mycroft toccava. Prese, come sua abitudine, l’importo esatto per la macchinetta, lasciando lì il portafogli. Si addentrò nei corridoi asettici dell’ospedale senza guardare Sherlock negli occhi.
Incontrò suo padre, straordinariamente da solo, che quando lo vide assottigliò gli occhi. Aveva un caffè in mano, immobile di fronte alla macchinetta al piano terra. Doveva essere appena arrivato, senza nessuna voglia di trovarsi in quel luogo.
“C’è tuo fratello con voi?”
“No.”
Mycroft sapeva, istintivamente, che Siger si sarebbe scagliato contro suo figlio, perché era conscio delle bugie di quello più grande. C’era qualcosa di insopprimibile in lui, una sorta di nervosismo patologico che non era mai riuscito a guarire, nei confronti di Sherlock.
“Non mentire.”
“È voluto rimanere a casa. Ti sembra così fuori dal suo carattere? E poi tu che fai qua? Ti presenti come gli avvoltoi solo quando qualcuno sta male?”
“Come ti permetti di parlare così a tuo padre?”
“E tu come ti permetti di definirti padre? Nel momento in cui ci hai abbandonato - no, nel momento in cui hai rifiutato Sherlock così apertamente hai smesso di esserlo.”
Se stesso non era importante, non quando c’era suo fratello in mezzo. Non era importante che avesse ferito lui, quanto che avesse cominciato a far sanguinare Sherlock senza che l’odore lo disturbasse, senza che fosse importante che smettesse.
Si sorprese del tono freddo che riusciva a mantenere. Si era sempre immaginato in preda ai singhiozzi quando finalmente sarebbe riuscito a parlargli a quel modo.
Lo guardava freddamente, conscio del fatto che se avesse potuto lo avrebbe insultato. Ma aveva gli stessi principi di sua madre. Qualcosa lo convinse a lasciar perdere, ad arrendersi. Mycroft incassò la vittoria.
“Dov’è tuo nonno?”, gli domandò cercando di trattenere la rabbia nella voce.
“Cercatelo.”
Con un ringhio girò sui tacchi, andando alla reception. Mycroft attese che si mettesse a parlare con un’infermiera per tornare, il più velocemente possibile, da Sherlock. Non voleva che Siger lo vedesse, né che Sherlock vedesse Siger. Quel bambino doveva pur essere difeso da qualcuno.
“Sherlock, raccogli le tue cose, andiamo a casa.”
“Ma la mamma -”
Entrò per un attimo in camera del nonno, annunciò la sua partenza, si prese l’occhiata d’odio del padre di sua madre (per lui assomigliavano tutti troppo a Siger, che gli aveva rubato la sua bambina senza che lui potesse fare nulla), e prese Sherlock per un braccio. A lui non interessava di fare brutta figura - non in quel momento, non con il pericolo dietro l’angolo che un uomo qualunque, quello che aveva solo fisicamente contribuito affinché Sherlock esistesse ma non aveva fatto nient’altro, potesse fargli male.
Lo fece salire in macchina, si beccò l’odio che gli urlò in faccia, e guidò fino a casa in silenzio. Gli fece abbassare le gambe dal cruscotto, gli lasciò cambiare la stazione radio in continuazione nonostante non lo sopportasse, si fermò da Mc Donald’s. A casa subì la porta della sua camera sbattuta così forte da far venire giù la casa e il silenzio lungo giorni.

***

Lo ritirò da scuola quando venne a sapere che sarebbe stato espulso. Aveva rubato nel laboratorio di chimica e aveva picchiato il professore che lo aveva scoperto. Pagò di tasca propria la nuova iscrizione e pagò per fare silenzio sulla questione e pagò perché il preside non procedesse con la denuncia, e non ne parlò in famiglia. Prese con le mani nude tutto il peso e se lo posizionò sulle spalle, nel punto più debole possibile perché facesse più male. Disse che non gli piacevano gli insegnanti, che non erano in grado di fornire a suo fratello il nutrimento che il suo cervello necessitava, quello che invece la nuova scuola gli avrebbe fornito. Ma Sherlock non riuscì a trovare un equilibrio neppure lì - anzi, incontrò Victor Trevor, che fu la sua completa rovina.

Aveva cominciato a lavorare e non riusciva a tornare a casa spesso. Aveva affittato un appartamento in centro a Londra, abbastanza grande per due persone. Tutte le scelte che prendeva includevano Sherlock.
Si era spesso domandato quando il fratello avesse cominciato a pretendere una fetta così grossa della sua vita - senza volerlo, semplicemente essendo quello che era. Lui non richiedeva la compagnia ad alta voce, ma pretendeva che tutti fossero attorno a lui, faceva chiasso perché tutti lo ascoltassero e poi restava muto, trincerato dietro una testardaggine autodistruttiva.
Quando era cominciato? Quando era scappato la prima volta? I suoi genitori litigavano - avevano cominciato a tavola, e Sherlock si era alzato come sempre (forse da lì aveva cominciato a mangiare sempre meno, come se ricollegasse al cibo tutte le urla e tutto l’odio che per forza di cose gli rimbalzavano addosso, e che la sua pelle assorbiva) per chiudersi in camera; ma quando Mycroft era salito per il racconto della buonanotte (aveva ancora sette anni e la voce di suo fratello lo tranquillizzava, riusciva a farlo dormire senza che si svegliasse urlando) il bambino non c’era e la finestra era aperta. Si era calato dall’albero, la giacca per proteggerlo dal freddo dell’autunno era rimasta impigliata al ramo. Era sceso in salotto, aveva urlato contro i loro genitori (“Vi rendete conto che alla sua età è costretto a scappare di casa per colpa vostra? Ha sette anni! Non dovrebbe neppure pensarci, e per colpa vostra che non riuscite a comportarvi da persone adulte quel bambino - Dio! Perché non riuscite mai, una sola volta, a comportarvi decentemente? Fingete, almeno! Almeno davanti a Sherlock, Cristo!”) ed era uscito. Come se avesse odorato l’aria si era diretto nel parco in cui, da quel giorno in poi, Sherlock si sarebbe sempre rifugiato, quello in cui Mycroft gli aveva insegnato ad andare in bicicletta.
Forse sì, forse era da quel giorno che aveva cominciato a pensare prima a suo fratello che a se stesso. Si ripeteva spesso che, visto che non avevano i genitori, doveva sopperire lui ad entrambe le mancanze.
Ed ora Sherlock si sentiva incredibilmente abbandonato, e solo, e perso, ed era tutta colpa sua. Da quando aveva iniziato l’università, da quando aveva iniziato a lavorare, Sherlock si negava, non si faceva mai vedere se non costretto - e quelle volte era sarcastico, fuggevole, come se volesse punirlo del più grave dei crimini, averlo lasciato da solo ad affrontare il mondo.
E come poteva questo essere più sano del comportamento dei genitori? Gli faceva male soffocandolo, cercando di metterlo sotto una campana di vetro che lui puntualmente distruggeva, tagliandosi le braccia coi cocci di vetro, inginocchiandosi sopra con un sorriso che rivolgeva solo a Mycroft.
Due weekend al mese portava Sherlock fuori Londra, per tre giorni ogni due mesi lo portava in Europa. Aveva paura di starsi evolvendo nel loro padre, che cercava di comprare l’affetto con i soldi e i regali. Per tranquillizzarsi si ripeteva che lo faceva per la sua cultura, perché comprendeva bene come poteva morire soffocato un cervello come il suo privo di stimoli. Piano piano Sherlock stava imparando il tedesco, un po’ di italiano, sapeva che aveva ripreso in mano il violino che aveva abbandonato a dodici anni.
In marzo, a Parigi, lo beccò a comprare una dose di cocaina. Impedì che concludesse la trattativa ma restò in silenzio. Doveva essere l’ultimo dei suoi segnali per attirare l’attenzione - come le risse, come il rispondere male a scuola, i piccoli furtarelli. Quando erano tornati a casa dall’ospedale non aveva forse trovato il portafogli vuoto? Trecento sterline in contanti; Sherlock non era così stupido, se non avesse voluto farsi notare ne avrebbe prese trenta, cinquanta al massimo. La cocaina era, sicuramente, una bravata dello stesso stampo.
Doveva esserlo.

Non aveva mai amato commettere errori, soprattutto quando questi errori lo avevano portato a non valutare abbastanza bene una situazione. Sherlock non stava lanciando alcun segnale. Si era ormai perso nel bosco e non aveva intenzione di tornare.
Quando aveva diciassette anni lo trovò per la prima volta in overdose in camera sua, con Victor che era andato nel panico accanto a lui. Quando vide Mycroft iniziò a tremare visibilmente. Aveva gli occhi enormi, ed era pallido, ma mai quanto Sherlock.
Dovevano tornare a Berlino assieme, dovevano andare assieme in aeroporto, l’aereo sarebbe partito da lì a due ore, non avevano tutto il tempo del mondo, dovevano -
“Non - non sapevo chi chiamare, io -”
“Fuori. Fuori!” tuonò Mycroft, feroce e pericoloso come un leone. Victor non se lo fece ripetere due volte. Fuggì, e Mycroft pensò che avrebbe voluto farlo uccidere per aver osato avvicinarsi a Sherlock. Avrebbe, anzi, voluto rompergli il collo con le sue stesse mani, sentirlo spezzarsi sotto le dita. Pensò tutto questo mentre prendeva suo fratello in braccio e correva il più velocemente alla macchina. Conosceva delle cliniche perché, nonostante tutto, dopo Parigi si era informato. Non voleva saperne nulla ma il suo cervello aveva fatto tutto per lui - come al solito.
Si sentiva come se avesse rovinato Sherlock per sempre, come se non potesse mai più fare affidamento su se stesso. Aveva fallito come genitore, aveva fallito come fratello maggiore, aveva fallito come essere umano. Gli aveva fornito tutti i rasoi con cui tagliarsi, aveva fatto silenzio sui suoi errori per non ricordarsi dei propri, aveva viziato l’aria attorno a lui e gliela aveva fatta respirare con la forza. Lo aveva gettato in una camera a gas ricoperta d’oro, di cui aveva chiuso la porta con chiavi pesantissime.
Di fianco a lui Sherlock respirava, e il cuore di Mycroft si chiuse in una morsa che non sarebbe più riuscito ad aprire.

***

“Mycroft?”
“Mh?”
“… no, niente.”
“No, dai, dimmi, si sentiva che volevi dirmi qualcosa. Ti vergogni?”
“Mh.”
“Perché?”
“Perché non sono cose che si dicono tra fratelli.”
“E chi te lo ha detto?”
“A scuola nessuno è attaccato al proprio fratello maggiore.”
“E quindi?”
“Quindi non va bene che io lo sia.”
“Ma lo sai che noi Holmes siamo speciali, quindi va bene. Su, dimmi.”
“No, non voglio.”
Si limitò ad accoccolarsi a lui, avvolgendo le braccia attorno al suo. Mycroft lo prese per bene in braccio, posizionandolo in modo che potesse continuare a leggere con il fratellino in braccio, che cominciò subito a fare i capricci per avere qualcosa da leggere anche lui. Quando Mycroft gli suggerì di andare a prendersi qualcosa in camera lui replicò che dopo non ci sarebbe stato lo stesso posto per lui. Allora Mycroft ne prese uno dal comodino, uno abbastanza facile per un bambino della sua età.
“Non andare mai via.”, gli borbottò Sherlock a pagina venti, con il viso per metà nascosto nel suo braccio. Mycroft gli baciò la testa.
“Non me ne andrò mai, neppure morto. Te lo giuro.”
Sherlock, felice e soddisfatto, tornò a leggere più veloce di prima.

rating: pg-13, serie: sherlock, genere: angst

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