Titolo: Help I'm alive
Personaggi: Sherlock Holmes, John Watson, Mary Morstan
Rating: PG-13
Genere/Warning: angst, AU, zombie gestiti a minchia
Wordcount: 3029
In cosa questa fic consiste: John e Mary fanno la loro parte nel contrastare l'apocalisse zombie e, al solito, c'è qualcuno che mette i bastoni fra le ruote.
Note: scritta per l'Horror Fest, prompt "urlo nella notte"
Quel vecchio sentimento, che non credeva lo avrebbe mai sfiorato, lo travolse completamente quando posò un bacio sulla fronte di Emma - l’idea che lei fosse la summa di tutto ciò che di perfetto avrebbe potuto mai creare in vita sua.
“Buonanotte, tesoro.”, le sussurrò accarezzandole i capelli. I boccoli erano sparsi sul cuscino, e soffriva all’idea di quando avrebbe dovuto tagliarle i capelli la prima volta - anche Harry, alla sua età, li aveva, e al primo taglio sono spariti per non tornare mai più.
Emma mugugnò qualcosa nel sonno tiepido indotto dalle favole, senza svegliarsi. John sospirò di sollievo; era solo la seconda notte di seguito, da quando Emma era nata, due anni prima, che riusciva a prendere sonno tranquillamente. Era come se, finalmente, i demoni che l’avevano accompagnata sin da quando aveva lasciato il grembo materno si fossero appisolati assieme a lei.
Le avvicinò uno dei suoi peluche preferiti, a forma di scimmia rosa, e lei lo strinse forte a sé nel sonno. In punta di piedi lasciò la stanza, appoggiando appena l’uscio. Aveva oliato i cardini una settimana prima, fortunatamente, e non scricchiolarono.
“Dorme.”, annunciò sul collo di sua moglie, seduta in una cucina illuminata, bianchissima, coi mobili di legno apparentemente grezzo, la bella cucina di cui era incredibilmente fiero. Che buon profumo che aveva sempre la sua compagna, quel tiepido sentore di arancio che lo rappacificava col mondo. La strinse in grembo, intrecciando le mani sul ricordo del suo pancione. Mary che diventava inspiegabilmente più bella ogni giorno che passava. (il nido caldo in cui far ritorno, com’era possibile che fosse davvero riuscito a ritrovarlo?)
“Due notti di seguito, ci stai prendendo la mano, allora.”, sorrise Mary, appoggiando la testa contro la pancia del compagno, morbida per il maglione. “A proposito di mano, quando hai intenzione di chiedere la mia?”
“Festeggeremo quando sarà finito tutto questo.”
“E il viaggio di nozze sarà in Italia.”
“Faremo foto idiote sotto la Torre di Pisa.”
“E Emma vedrà tutti i musei più belli. Ho sentito che c’è praticamente un esercito per ogni museo. I giapponesi continuano ad andarci. Fanno foto ovunque. Fortunati loro.”
Recitarono tutto come un mantra, una filastrocca di cui c’era necessità che l’imparassero a memoria. Ricordarsi di cosa c’era oltre. Un copione convincente più per gli attori che per il pubblico.
“Quanto hai intenzione di starci, in Italia?”
“Dal momento che stiamo lavorando come matti, speravo almeno tre mesi.”
“Perché non un anno?”
“Non mi sembra una cattiva idea.”
“Ma io scherzavo -”
“Troppo tardi. Non si scherza mai a teatro.”
John sospirò e le rise nei capelli. Anche lì profumava di frutta. Si ricordò di un periodo in cui usava solo shampoo neutri, ma poi si era accorta che a lui non piacevano così tanto. Lo aveva preso in giro, poi era tornata a comprare quelli alla frutta. “Va bene. Ci meritiamo un anno di pausa.”, un bacio sulla tempia, “Emma crescerà benissimo, con noi, ne sono sicuro.”
Mary si liberò momentaneamente della sua presa, lo baciò sulle labbra e raggiunse il mobile in fondo alla cucina; si alzò in punta di piedi e tirò fuori la sua pistola, sempre lucida e perfetta come nuova. “Andiamo a fare in modo che cresca, allora.”
John annuì in silenzio, tirando fuori la sua dal mobile sopra i fornelli. A volte pensava che l’Afghanistan fosse tornato apposta per lui, nell’apocalisse zombie.
Proiettili velenosi che facevano esplodere il cervello. Pezzi di materia grigia sugli abiti, sulle scarpe, i conati di vomito che avevano imparato a controllare. L’adrenalina, il terrore che si mescolavano nelle vene come dosi di caffeina - litri e litri di caffè e droghe e tutto quello che avrebbe potuto fargli scintillare ogni giuntura e ogni neurone.
Londra aveva abbandonato ogni sua bellezza - casa sua sembrava uno degli ultimi porti sicuri, uno dei pochissimi angoli del mondo che riuscisse a mantenere l’idea di civiltà. Emma non usciva di casa da quando era nata. L’invasione era cominciata all’ottavo mese di gravidanza di Mary, non era stato possibile abortire. L’avevano circondata di giocattoli e libri e musica e film perché cominciasse a ricreare nella testa un’idea (al tempo utopica) del mondo esterno, tranquillo e senza pericoli - quello che i suoi genitori stavano cercando di ricostruire per lei. Ogni volta che uno zombie cadeva a terra, sporcando loro le scarpe, pensavano che era uno in meno alla pace.
Voltò pericolosamente la schiena per ucciderne uno che stava per colpire Mary. Quando si voltò di nuovo, sentendo distintamente un mostro che gli si avvicinava - doveva essere l’ultimo dell’area, intorno a loro ormai c’era solo il silenzio - avrebbe voluto staccarsi gli occhi e darglieli in pasto. Di fronte a lui, Sherlock. Tramutato in zombie, scarnificato.
Aveva pensato più volte alla possibilità di ritrovarselo davanti in quella forma. Aveva sempre sperato che non succedesse mai, che se mai lo avessero reso zombie ci fosse qualcuno che - Dio, che orrore - lo uccidesse al posto suo. Come poteva metterlo di fronte ad una tale scelta?
(come lo aveva trovato? Il loro legame era così forte che, in tutta l'Inghilterra, lui era riuscito a trovarlo? Oh, questo sì che faceva male.)
"Certo che non smetterai mai di prendermi per il culo, Sherlock."
Aveva continuato, in quei tre anni, a pensare alle proprie parole davanti alla sua tomba. Alla sua richiesta di un miracolo. All'idea che qualcuno avesse potuto ascoltarlo, che qualcuno nell'ombra raccogliesse le sue parole e i suoi desideri. Qualcuno lo aveva fatto - qualcuno aveva scavato il terreno (a volte aveva desiderato di farlo anche lui, se esisteva il modo di creare zombie doveva esistere anche la maniera di resuscitare le persone in maniera sana, doveva essere così) e l'aveva riportato in vita, in quella pseudo vita, ne aveva fatto una marionetta del proprio esercito - allora anche Moriarty era tornato in vita sotto forma di zombie? Oh, Dio, sperava che fosse così, sperava di poterlo ammazzare con le proprie mani. Non gli avrebbe semplicemente sparato, troppo facile, lo avrebbe strozzato, soffocato, lo avrebbe pestato con tutta la sua forza.
Sentì Mary avvicinarsi a lui, mentre Sherlock rimaneva immobile di fronte a lui. Fermo, muto. Lo Sherlock ideale.
"John, che succede?", gli domandò sua moglie sottovoce, stringendogli il braccio. Avevano sempre bisogno di contatto fisico, dopo il centinaio di zombie che uccidevano alla volta. "Perché ti sei fermato? Che succede, stai -"
"E' Sherlock, Mary."
Lei spalancò gli occhi, si mise le mani sulla bocca. Per la prima volta in anni le veniva da vomitare, era pallida e con una sfumatura verdognola. Aveva ascoltato per tre anni i racconti del suo compagno, a volte così tanti e numerosi e pieni da renderla appena gelosa, come se lui fosse ancora innamorato di un fantasma. Sherlock Holmes, il genio, l'investigatore, stava dritto di fronte a loro impassibile. Li fissava. Forse stava capendo qualcosa? Non ne avevano mai incontrato uno che si rendesse conto di cosa stava succedendo - tutti, dal primo all'ultimo, volevano solo mangiare. Ma Sherlock li fissava e basta.
"Congratulazioni."
La voce gli usciva da un buco della gola, le labbra quasi immobili, il tono profondo come John ricordava e come Mary si era immaginata - erano così vivi, i racconti di John (quel John Watson che aveva cominciato a conoscere sul blog e che dal vivo sembrava più timido, più restio nel suo raccontare, ma che necessitava solo di una spinta per prendere il via e non fermarsi più), erano così vivi e caldi che anche lei, a cui non era stata donata una fantasia illimitata, riusciva a figurarseli perfettamente, ad immaginare il fiatone per le corse, il sentimento d'ira pungente per il caratteraccio di Sherlock.
"Grazie.", sussurrò John, deglutendo. Strinse forte la pistola. Doveva uccidere anche lui? Pensò a lui, poi a Mary, ed Emma, pensò al mondo in cui voleva farla camminare, ai prati che sarebbero ricresciuti sotto i suoi piedi e dove lei avrebbe rotolato ridendo come non mai. Guardò Sherlock, pensò che - Dio, sì, aveva sentito qualcuno parlare di una medicina nuova, in via di sperimentazione, che avrebbe potuto guarire qualcuno. Si parlava di coscienza, di un salvataggio possibile solo nel caso di zombie con una traccia di lucidità. Sì, c'era, ne era sicuro, e Sherlock era palesemente uno di loro, riusciva a parlare, a trattenersi dall’assaltarli. Era straordinario anche dopo la morte. Questo riscaldò tutto il corpo di John.
Ma non si azzardava ad aprire bocca. Perché non parlava a Mary? Perché non le diceva quello di cui era sicuro, il suo piano meraviglioso? Cosa lo tratteneva?
(e se non fosse vero? E se fosse stato tutto un parto della sua immaginazione? C'era stato un periodo della sua vita - più periodi della sua vita - in cui non riusciva a distinguere l'immaginazione dalla vita vera, tutto impastato in un'unica grandissima bolla in cui viveva isolato per giorni, dentro la quale i rumori arrivavano attutiti, in cui il dolore si disperdeva come polvere nell'aria, colpendolo appena. E se quell'idea facesse parte di quel periodo? Non voleva allarmare Mary, la sua Mary che viveva quei momenti con terrore, che lo accarezzava e lo baciava tenendolo stretto a sé come un cucciolo orfano, in cui usciva da sola per brevi periodi, troppo impaurita per farsi accompagnare da John - John che si rendeva conto di tutto quel dolore appena la bolla scoppiava assieme a lui, in lacrime e terrorizzato da se stesso.)
Non esisteva cura, allora? Non esisteva modo di riavere Sherlock con sé?
(sarebbe stato uno zio perfetto. Non per il suo carattere, ma per come la sua influenza avrebbe aiutato Emma a diventare meravigliosamente acuta e intelligente. Lo zio Sherlock e lo zio Greg e lo zio Mycroft e la zia Molly e la zia Sarah. Sherlock avrebbe condotto la bimba con sé nel parco, per fare un piacere a John, le avrebbe insegnato a distinguere gli insetti e le foglie degli alberi e a come capire l'ora semplicemente guardando le ombre. Immaginava spesso queste cose dentro di sé. Lo zio Greg l'avrebbe riempita di regali, lo zio Mycroft le avrebbe insegnato a cucinare, la zia Molly l'avrebbe portata sempre con sé e le avrebbe insegnato a essere dolcissima ma forte, correggendo tutti gli errori dello zio Sherlock, e la zia Sarah le avrebbe letto le favole. Non aveva più idea di dove loro fossero. Le comunicazioni erano state interrotte da anni e nessuno osava fare visita all'altro. Dio, si sarebbero presentati anche loro come Sherlock? Non avrebbe retto, non era sicuro di potercela fare.)
"John."
Non fu Mary a portarlo alla realtà, ma Sherlock, di nuovo un sussurro roco.
"Sì, Sherlock?"
Pronunciare il suo nome in un discorso diretto era una stilettata nel cuore, del sale sugli organi aperti. Nei racconti sul blog, in quelli che ripeteva a Mary, per anni Sherlock era stato “lui”, nient’altro che un pronome innocuo.
"Aiutami."
Spalancò gli occhi e Mary gli strinse il braccio più forte. Gli occhi di Sherlock erano bianchi, non aveva più neppure le pupille; i muscoli vivi delle braccia erano immobili, il buco in mezzo alla gola secco, verdastro, come se l'avessero seppellito in mare e si fosse ricoperto di alghe. Ma la voce, per quanto roca, era venata di quel dolore e quella supplica che John aveva sentito, da lui, solo una volta, sul tetto del Barts.
Disperato, John cominciò ad urlare, rimbombando nella Trafalgar Square deserta, assolata. Aveva il desiderio di avvicinarlo, di prenderlo per il colletto della camicia ancora praticamente integro, ma un istinto più primordiale e basso gli impediva di farlo - inoltre avrebbe portato Mary con sé, Mary che non lo avrebbe mai lasciato andare, neppure sotto minaccia.
"Come posso, Sherlock? Come posso? Lo sai, tu ne hai una minima idea? Tu sei un genio, no? Tu dovresti saperlo! Dimmelo!"
Come osava ripresentarsi ed essere così egoista?
(era proprio Sherlock, non c'erano più dubbi, se non ne fosse stato sicuro in quel momento tutte le domande sarebbero evaporate al sole.)
Come si permetteva?
(ma, se lo faceva, significava qualcosa? Significava che lui sapeva, che era al corrente di un modo per salvarlo? Doveva essere così, doveva. Sherlock era Sherlock, le sue vie erano sempre state imperscrutabili.)
"Aiutami, ti prego."
Sherlock gli si avvicinò e lui non osò indietreggiare. Mary gli si strinse, non per propria paura ma per svuotarsi del proprio coraggio e infonderlo tutto in John. Mary che era diventata il suo faro, il suo scoglio.
"Aiutami."
"Come, Sherlock? Come posso aiutarti?"
Le sue parole rimbombavano, rimbalzavano sulla statua di Napoleone, sulle pareti dell'atrio del museo, e gli ritornavano più profonde, macabre, come se lo prendessero in giro. "Come, Sherlock?" "Come, Sherlock?" "Come, Sherlock?", un esercito di pappagalli che si prendeva gioco del suo dolore.
"Non lo so. Non lo so. Aiutami."
Una coperta fredda lo avvolse, il terrore e la consapevolezza lo presero a pugni nello stomaco. Era così, non c'era modo, l'ancora della sua salvezza era parte della bolla. Non esisteva cura, non esisteva modo.
"Ti prego aiutami."
Non aveva mai sentito un dolore così forte, neppure quando aveva dovuto seppellirlo. Dio, perché non taceva? Perché doveva sempre parlare e parlare e parlare? E perché quel tono? Stava cercando di farlo sentire in colpa perché non aveva strumenti per aiutarlo? Che Dio lo stramaledicesse.
"Sherlock non so come fare! Non continuare a chiedermelo, non ho idea! E vorrei, cazzo, tu non puoi averne idea! Sherlock ti prego vattene, posso fare solo questo --"
In un attimo, Sherlock si avventò su di loro, prese Mary per un braccio, giocando sullo sconcerto di John che non ebbe i rifletti abbastanza pronti per acchiapparla; Sherlock la strinse a sé come una sposa.
"Aiutami.", mormorò ancora, la bocca vicina al collo di Mary che, terrorizzata, guardava John, muta, la bocca spalancata e il sangue che evaporava dal suo corpo.
Sherlock e Mary, di fronte a lui, come aveva immaginato il giorno del suo matrimonio. Quando ancora non conosceva Mary fantasticava su un possibile matrimonio con una donna il cui viso era il riassunto delle sue storie più importanti. Immaginava la sua sposa e Sherlock vicini, in chiesa. Immaginava che Sherlock gli avrebbe tenuto il muso per tutta la cerimonia - oh, le sceneggiate che faceva quando solo andava agli appuntamenti, quando si raggomitolava su se stesso e si scavava nel divano. Negli ultimi tempi era migliorato, ma immaginava che al matrimonio si sarebbe comportato così. Ma a pranzo avrebbe sorriso, anche solo per finta, facendo complimenti alla sposa (di sicuro l'avrebbe insultata, ma con insulti mascherati da complimenti), baciandole le guance, e abbracciando lui. Sherlock e Mary di fronte a lui erano, adesso, il suo incubo. Avrebbe perso entrambi. Di fronte ai suoi occhi Sherlock la stava già mangiando, Emma cresceva chiedendosi dove fosse la sua mamma - anche se nella realtà neppure il suo alito l'aveva sfiorata.
"Sherlock, ti prego, io non -- non c'è modo, Sherlock!"
"Aiutami, John, aiutami."
Come pronunciava il suo nome con dolore.
John voleva disperatamente che se ne andasse. Lo avrebbe lasciato andare, avrebbe affidato quel compito a qualcun altro. Arreso all'idea che il tempo non può essere riscritto, e che i lutti rimangono attaccati al cuore come pietre di carbone, si arrese anche all'idea che qualcun altro avrebbe ucciso Sherlock. Era così che funzionava, non c'era altro modo, non esisteva. Non poteva fare niente, e non voleva fare niente.
"Sherlock --"
Fu un attimo, di nuovo. La bocca aperta sul collo di lei e John con la pistola in mano, dritta nel cervello di Sherlock, il grido lancinante di Mary che fu il più forte che quella notte limpidissima avesse sentito. (John odiava le belle giornate, il cielo terso e la luna vergine, come una presa in giro di Dio che non avrebbe mai dovuto donare temperature gradevoli e primavere nel periodo più abominevole che l'umanità avesse mai vissuto.)
(aveva sorriso, cascando al suolo?)
Mary, piangendo sotto il corpo di Sherlock, tese la mano al suo compagno perché l'aiutasse a tirarsi in piedi. Non riusciva a parlare. Dritta, cadde addosso a John, si aggrappò al suo maglione e cominciò a piangere.
John era muto, come se gli avessero strappato la voce dalla gola. (come se Sherlock gli avesse ficcato le sue dita ammuffite in bocca e gli avesse reciso tutte le corde vocali.)
Mary, cercando di riprendersi, lo strinse più forte che poté. Lo riempì di baci, di carezze.
"Passiamo al supermercato, dopo.", mormorò, alludendo ai minuscoli bunker che qua e là erano riusciti a sopravvivere. "Spero che Emma non si sia svegliata mentre eravamo a lavorare."
Erano le quattro del mattino ed Emma dormiva. In cucina l'unico suono era il borbottio del latte sul fornello. Una tazza di latte e miele erano il rimedio della nonna di Mary. Anche la morte può essere combattuta con del latte caldo nello stomaco, ripeteva la nonna accarezzandole i capelli, cercando di aiutarla a sopravvivere. Mary accarezzò la testa del suo uomo nella stessa maniera, con la stessa forza e affetto.
Avrebbe voluto dirgli che le dispiaceva. Si sentiva in colpa, irrazionalmente. Non voleva davvero essere morta al posto di Sherlock, ma in fondo allo stomaco qualcosa le faceva male, come se avesse provocato in John una ferita impossibile da rimarginare.
"Ha voluto che lo uccidessi io, il bastardo.", sussurrò John, parlando dopo quasi un'ora di silenzio ermetico - non aveva avuto quasi neppure la forza di camminare verso casa. "Sono sicuro che sia così."
Mary tacque, non sapendo come rispondere. Gli strinse la testa al petto, lo riempì di baci, cercò di guarirlo col proprio zucchero - qualche granello inutile, ma non c'era nient'altro in suo potere.
"E' morto com'è vissuto, da completo stronzo."
Mary si sedette, gli prese il viso, gli baciò la fronte, il naso, le labbra, in una successione infantile, tenera. Gli baciò le mani, tornò a baciargli il viso. "Ti amo.", sussurrò sulle sue labbra, con tutta la forza che riuscì a trovare, ogni briciolo di volontà nascosto tra le pieghe della pelle, tra le ossa. "Ti amo, ti amo."
"Ti amo anche io."
John si alzò dopo averla baciata. Emma aveva cominciato a piangere, e in quel momento gli sembrò un miracolo. Gli ricordò che qualcuno viveva, che qualcuno aveva realmente bisogno di lui per vivere. Il pianto di Emma era tutto ciò che gli serviva. Sorrise alla sua compagna, la baciò di nuovo, più teneramente di prima. "Vado a raccontarle dell'Italia, così magari si tranquillizza. Io mi tranquillizzerei all'idea di un viaggio così. Un anno in Italia. Fantastico."
"In bocca al lupo.", gli sorrise Mary. Lo guardò sparire nel buio del corridoio.
Titolo: To the bottom of the sea
Personaggi: Sherlock Holmes, John Watson
Rating: PG-13
Genere/Warning: AU, slash, angst
Wordcount: 2064
In cosa questa fic consiste: John, che ha cercato le sirene per tutta la vita, ne trova una con gli occhi chiari e i capelli ricci.
Note: scritta per l'Horror Fest, prompt "There is a ghost town in the ocean"
Si svegliò lentamente, con un rumore vago di onde, una culla. L'acqua sciabordava accanto al suo orecchio, come il suono lontano di mille campane ovattate. Prima l'udito, poi il gusto. Attorno a lui tonnellate di sale - quando si leccò le labbra lo sentì distintamente. Quando aprì gli occhi li richiuse immediatamente per il terrore.
Con le palpebre serrate ricordò di essersi tuffato. Un capitano che abbandonava la propria nave - non c'era niente di più disonorevole. Di certo era meglio che non tornasse, se poi mai ne avesse avuto voglia - come poteva averne, in fondo? Si era tuffato per una sirena. Ne aveva sentito il canto e tanto bastava, dopo vent'anni di ricerche, dopo vent'anni sulla stessa nave, quasi con le stesse persone, a fingere di voler servire l'Inghilterra ma con in testa un solo obiettivo. Qualunque marinaio lo avrebbe deriso fino alla violenza fisica se lo avesse saputo, ma ora lui avrebbe riso di loro, perché di fronte a lui una sirena - lunghissimi capelli ricci color della notte, occhi chiari e magnetici, di taglio vagamente orientale - li accarezzava il viso, i capelli. Si rese conto di essere sul fondo del mare. Com'era possibile?
"Abbiamo quella magia che voi umani avete abbandonato in nome della scienza anni or sono.", rispose la sirena con voce profonda, leggendogli nella mente. Sorrideva. "Come ti chiami?"
"John. John Watson.", rispose lui, sbattendo più volte le palpebre. Poteva parlare. E la sirena parlava inglese - la sirena che, si rese conto, aveva la parte superiore del corpo come quella di un uomo. Certamente non potevano esistere solo sirene di sesso femminile, come potevano riprodursi?
Allungò la mano verso il suo viso. Che volto tagliente, che occhi indagatori. Nessuna dolcezza femminile in lui, ma il suo canto era stato così magnetico da non lasciargli neppure lo spazio per pensare al suo gesto. Gli venne da ridere: non era colpa della sua voce, di certo Sherlock non aveva colpa della propria bellezza e meraviglia - ma era colpa della propria mente. Non l'avrebbe mai lasciato andare, neppure se in cambio gli avessero offerto il trono d'Inghilterra.
Avrebbe dovuto catturarlo. Farne il suo uccellino in gabbia. Avrebbe costruito una villa e un lago artificiale in cui farlo nuotare, e avrebbe cantato per lui per tutta la vita. Oh, il motivo tutto della sua esistenza riassunto in quelle dita che lo accarezzavano. Già lo amava, forse? Sì, già lo amava. Ma, era sicuro, non era colpa di un sortilegio, del maleficio di cui parlavano le leggende. Era certo, sicuro che quello fosse amore vero, così forte e limpido che non lo aveva mai sentito respirare dentro di sé. Cos'altro faceva battere così il cuore? Cos'altro poteva essere, da cos'altro poteva derivare quel desiderio profondo e pulsante di stringerlo e tenerlo tutto per sé? Nessuno lo avrebbe mai visto. La sirena avrebbe vissuto con lui, per lui, nella sua casa. Avrebbe passato la vita a cantare per lui, mentre lui gli accarezzava i capelli, mentre lo baciava e lo riempiva di regali, mentre gli insegnava a leggere e scrivere. Allungò una mano per farlo. Che bei boccoli aveva, come gli incorniciavano il viso.
Vent'anni della sua vita e finalmente era lì, seduto sul fondo del mare, mentre una sirena gli sorrideva. Guardò i fianchi che sfumavano nelle squame e pensò di non aver mai visto nulla di più bello. Accarezzò anche quelli, e la sirena sobbalzò. Sembrava giovane. Ma le leggende dicevano che le sirene non invecchiavano. Aveva il viso e il corpo di un ragazzo, ma chissà quanti secoli avevano visto i suoi occhi chiarissimi, ipnotici, che mai stavano fermi, vagando ovunque sul corpo di John. C'era qualcosa che lo inteneriva, quella sorta di curiosità infantile.
"Non hai mai visto un umano?", gli domandò con voce dolce, appena divertita da tutto quel movimento attorno a lui, accarezzandogli una mano. Lui, annuendo rapidamente, la prese e gli guardò le dita, scivolò in mezzo alle sue gambe e gli abbassò i pantaloni - ma non come le puttane dei bar in cui John passava le notti. Gli osservò le cosce passando le dita sulle cicatrici, perduto e affascinato. Passò la mano dall'attaccatura delle natiche alle dita dei piedi, che accarezzò rapito.
"Fantastico."
Palpò le cosce e i polpacci, duri come legno. Un cucciolo, pensò John. Era innamorato di ogni singola fibra di quell'essere. Perduto nelle profondità marine dei suoi occhi.
"Sei il primo che non ha paura di me.", disse mentre osservava il suo inguine da vicino. Dalle labbra uscivano tante piccole bollicine. Una prostituta aveva le sue stesse labbra, ricordò John, a forma di cuore. "Ho cercato spesso, negli anni, di avvicinare altri esseri umani. Tutti scappavano, o cercavano di farmi del male. Non sono mai riuscito ad avvicinarmi, mai quanto avrei voluto. Il corpo umano è così interessante."
Aveva un'espressione così seria, così corrucciata. Come uno scienziato, come un dottore. Il padre del migliore amico di John era un dottore, un dottore di campagna, e qualche volta lui e Sebastian avevano dovuto aiutarlo mentre amputava un braccio o una gamba, e aveva la stessa espressione della sirena. Sirena. Che bel suono aveva in bocca, com'era bello poterlo pronunciare. Si. Re. Na.
"Come ti chiami?", gli domandò John mentre la magnifica creatura gli esaminava il collo.
"Sherlock.", rispose lui rapidamente, e John non seppe dire per fretta o per vergogna.
"Che splendido nome, Sherlock."
Sher. Lock. Lo accarezzò in punta di lingua, ne amò ogni lettera. Un nome così singolare, così bello. Bello come lui, gli donava. Aveva un suono dolce come la curva delle sue labbra. Gli accarezzò il fianco. I capelli erano così lunghi che, sulla terra ferma, gli avrebbero sfiorato la curva della coda, dove le squame sfumavano nella pelle. Sherlock lo guardò con occhi enormi, stupiti. Qualcosa come un lampo di sorpresa gli attraversò il volto. "Sei il primo che me lo dice. Che strana creatura sei, John Watson."
"John, chiamami solo John. Hai un nome meraviglioso, come può essere che nessuno te lo abbia mai detto?"
"Nessuno lo ha mai fatto.", continuò la sirena avvicinandosi di più. Gli alzò le cosce, probabilmente per constatare come funzionassero e quando potesse piegarle. Si domandò come si riproducessero le sirene. "Nessuno mi fa mai i complimenti per nulla. Dicono tutti che sono strano."
"Perché?"
"Perché mi interesso così tanto degli umani. Dicono tutti che siete solo un popolo di assassini, che volete farci del male e che a voi interessa solo poterci possedere, come degli oggetti. Ma sono sicuro che si sbaglino. Non siete tutti così. Vero, John? Vorrei conoscere tutto quello che è possibile del vostro popolo, la vostra cultura. A volte arrivano degli oggetti che non volete più, e a volte riesco a tenerli nascosti in un angolo della mia casa. Vorrei capirli. Mio fratello non vuole che io li tenga, dice che non servono a nulla, non vuole che io abbia contatti con voi. È lui che dice a tutti che siete crudeli e basta. Ma si sbaglia, vero John?"
Aveva una tale dolcezza nella voce scura, e sembrava nascondesse una tale fragilità. L'amore di John si espanse terribilmente, come infuocato, come una stella. Esplose per tutto il corpo. C’era un uccellino fra le sue mani, una creatura forte e meravigliosa, un pulcino di vetro e cristallo.
Non c'era bisogno di fargli del male per portarlo in superficie. Lo avrebbe convinto a venire a casa con lui. Gli avrebbe promesso di dargli tutto quello che desiderava, una vita meravigliosa con lui accanto. Avrebbe conosciuto tanti uomini, tutti gli uomini più importanti d'Inghilterra e del continente. Nessuna creatura al mondo avrebbe avuto una vita migliore del suo Sherlock.
Prima che potesse proporglielo - avrebbe potuto sposare una sirena, sulla terraferma? O si sarebbe dovuto costituire una nuova Chiesa solo per la sua necessità? Oh, lo avrebbe fatto, se avesse dovuto, lo avrebbe fatto di certo - Sherlock lo guardò dritto in viso. "Vuoi venire a vedere dove abito, John? E' un posto stupendo."
Gli prese le mani tra le sue, prima ancora che potesse accettare - ma come avrebbe fatto a dirgli di no? Lo amava così tanto, era impossibile rifiutare. Sorrise mentre Sherlock lo trascinava gentilmente con sé.
Cercò di registrare tutti gli animali e tutte le piante e tutte le forme di vita che riuscì a scorgere, ma Sherlock nuotava troppo velocemente perché potesse annotare tutte le forme. Nella sua mente si formò un enorme vortice colorato, ma sapeva che era così bello da mozzargli il fiato. Si ricordò di quelli che lo aveva preso in giro riguardo alla storia delle sirene, ricordava sua sorella che ne aveva fatto lo zimbello e la barzelletta delle sue amiche. Si pregustò l'umiliazione che le avrebbe inferto quando le avrebbe presentato Sherlock - il suo Sherlock bellissimo. Poteva esistere, in tutto il creato, un amore più forte di quello che provava per la sua sirena? Neppure quello di Dio per le Sue creature poteva minimamente sfiorare la sua grandezza. Al solo pensiero si sentì traboccante, impossibilitato a tenerlo solo per sé. Chiese a Sherlock di fermarsi. Lo tirò a sé per i fianchi e lo baciò forte sulle labbra salate. Non aveva mai neppure pensato di baciare un uomo nella sua vita, e ora stava baciando un maschio di sirena. Ma lui era Sherlock, era qualcosa a parte, una considerazione a parte. Andava chiaramente al di là di tutto.
Sherlock rimase immobile, accettando senza ricambiare. Quando John gli accarezzò i fianchi fece scivolare appena la lingua fuori dalla bocca. A John sembrava di baciare una fanciulla vergine. La sirena cercava di baciarlo, ed era buffo e tenero, si aggrappava alla sua camicia, stringendola sul petto. Sentiva l’acqua mossa dalla sua coda come quella di un cagnolino felice. Che bel colore avevano le sue squame, di quel verde brillante che stava così bene con i suoi occhi, li risaltava così tanto.
"Ti amo.", confessò pianissimo tra un bacio e l'altro, senza che Sherlock potesse sentirlo - Sherlock che gli sorrise, quando staccarono le labbra. Lo abbracciò, prima di voltarsi e tornare a nuotare, la mano ben stretta attorno al suo polso.
Lo fece entrare in una grotta. Non sembrava così bello come aveva detto Sherlock, o come l’aveva immaginato dai racconti - che parlavano di una civiltà rigogliosa, architetture migliori di quelle umane - ma se alla sirena piaceva, significava che era lui quello con il gusto estetico sbagliato. Decine di sirene dormivano raggomitolate sulle sporgenze di roccia, negli angoli. Come un incantesimo rotto, il loro ingresso le svegliò tutte. Tutti guardavano Sherlock, e John sentì una fitta di gelosia. Loro che lo avevano deriso non avevano diritto di sorridergli, dovevano strisciare e domandargli scusa per averlo ferito. Lo strinse a sé, prendendolo per un fianco, per rimarcare un territorio che era stato suo fin dalla nascita della sua sirena.
Si avvicinò una sirena maschio, col viso simile a Sherlock, ma che sembrava più adulto. Suo fratello, quello che lo soffocava. Neppure lontanamente bello come la sua sirena. Il verde della sua coda era più spento, ed era più largo sui fianchi.
Il fratello sorrise e accarezzò i capelli di Sherlock. John avrebbe voluto morderlo. Di certo neppure lui lo trattava come meritava.
“Ben fatto, Sherlock.”
John guardò la sirena adulta aggrottando le sopracciglia. “Ben fatto?”
Quando si voltò non c’era più la pelle pallida e liscia del volto di Sherlock, ma solo le sue ossa. Uno scheletro con la coda di pesce. Si guardò attorno, e tutte le sirene si erano trasformate. Sherlock gli si avvicinò di più, accarezzando con quelle che prima erano mani lunghe dalle dita da musicista.
“Sherlock, come -”
“Abbiamo tutta la magia che voi umani avete lasciato perdere, John.”, gli sfiorò il viso,“Questo mi ha permesso di darti l’illusione che avessimo un corpo simile al vostro. Ma abbiamo bisogno della vostra carne per continuare a sopravvivere, e tornare ad averlo. Hai visto quanti pochi siamo? Non posso permettermi di morire, non ancora, non dopo duecento anni appena. Non sei contento di sacrificarti perché io viva, John, amore mio?”
Sherlock lo strinse forte, e John abbandonò il capo sulla sua spalla. Sospirò, tante piccole bollicine che partivano dalla sua bocca incredibilmente secca. Il suo tesoro, il suo unico amore gli stava domandando solo un piccolo favore. Cos’era la sua vita, se non poteva rendere felice la sua sirena?
“Eternamente grato.”
Si lasciò andare ad una straziante agonia mentre veniva fatto a pezzi. Ma morì col viso di Sherlock negli occhi, il suo sorriso dolcissimo e sporco di sangue mentre si cibava delle sue carni. E sorrise a sua volta.
Titolo: (beasts of) Blood
Personaggi: Sherlock Holmes, John Watson
Rating: PG-13
Genere/Warning: AU vampiresca
Wordcount: 1633 (sempre meno DDD:)
In cosa questa fic consiste: Sherlock, frequentato abituale del cimitero, sente un odore nuovo, che lo attrae. Ed è quello di John.
Note: scritta per l'Horror fest con prompt "Vecchio cimitero"
Percepì, forte e distinto, un odore estraneo, una scia quasi invisibile, ancora prima di toccare terra. Briciole che lo solleticarono; certo di conoscere tutte le creature che frequentavano il cimitero, il nuovo venuto non lo mise in allarme, ma lo incuriosì. Lo inspirò più profondamente, riempiendosi i polmoni fino all'orlo, e riconobbe sabbia impastata con sangue. Un soldato di terre africane. L'inverno gelido e la neve fresca cercavano di nasconderlo, quasi con intenzione, ma Sherlock acuì i sensi e la traccia fu palese come un sentiero, si aprì davanti a lui come un'enciclopedia. Essere umano di sesso maschile, attorno ai quaranta - un profumo poco costoso, ma dalle note troppo mature per un ragazzo -, un ex soldato. L'immagine della strada gli riportò alla mente l'istinto di accucciarsi e avvicinarsi all'odore a quattro zampe, come quando da piccolo fingeva di essere il licantropo figlio dei vicini per imbarazzare, con crudele lucidità, i suoi genitori. Ululò per spaventare l'umano - i mortali erano istintivamente più intimoriti da qualcosa che possiede più animo animale che umano, piuttosto che da fattezze a loro speculari. Si lasciò guidare pregustando il suo sangue - caldo, pulsante, se lo immaginò denso, appiccicato al palato. Il desiderio gli tamburellava nei polsi, lì dove ancora le cicatrici dei propri denti splendevano appena alla luce del sole. Più si avvicinava in silenzio - voleva spaventarlo, godersi per bene il terrore sul suo viso prima di sbranarlo - più l'odore si faceva solido, quasi poteva sentire i granelli di sabbia sotto le unghie.
Sentiva le lucertole strisciare fra le vecchie lapidi, i lombrichi infilarsi tra le crepe del granito, le ali dei gufi sbattere dopo aver catturato la cena. C'erano anime nuove, ne percepiva i flebili lamenti. Qualcuno aveva ucciso di recente, lì in mezzo - o perlomeno vi aveva trascinato i cadaveri seppellendomi sommariamente, a quanto notava dalla terra smossa e non appiattita. Lestrade quando aveva intenzione di chiamarlo, quando anche gli assassini sarebbero diventati polvere e lamenti detestabili? Ma non gli importava, non ora, ora non c'era tempo per quelle sciocchezze, la fame era pulsante - e ancora di più la curiosità; quanto tempo era passato dall’ultima caccia? Avrebbe saputo contare i minuti.
L'umano aveva le spalle larghe e una strana puzza di rimpianto - oh, nauseanti sentimenti umani. Pestò dei ramoscelli per fare rumore. L'umano si girò e gli puntò contro la pistola. Sherlock fu quello che dovette spaventarsi, suo malgrado. Deglutì e cercò di riprendersi la propria gelida calma.
“Guarda che -”
Strizzò gli occhi quando l’umano premette il grilletto - ma non ci volle più di una frazione di secondo perché si rendesse conto di non essere la vittima; l’odore del sangue che usciva non era il suo. Si voltò e guardò in basso: un uomo anziano, con una pistola ancora stretta tra le dita, boccheggiava, sotto shock più per essere stato colpito che per la vita che effettivamente lo abbandonava.
“Ti puntava la pistola alla testa. Proiettili d’argento, saresti morto sul colpo.”
L’umano parlò con tono freddo, distaccato, come se uccidere un altro della sua specie non fosse poi così degno di nota. (come succedeva a lui, d’altronde) Qualcosa che sembrava compiere quotidianamente - o fino a poco tempo fa, da ciò che Sherlock aveva capito. Il suo sguardo fermo, come la voce immobile, avevano confermato la sua idea.
Quando stava per chiedergli perché avesse salvato un vampiro, una zaffata d’odore fortissimo quasi lo stordì; veniva dal vecchio, e non era solo il suo, ma un chiasso infernale. Sherlock sbuffò.
“Come ti chiami?”
L’umano sembrò più sorpreso dalla domanda di Sherlock piuttosto che dal vecchio morente davanti a lui - vecchio a cui Sherlock diede un calcio alla mascella perché la smettesse di uggiolare come un cane. L’umano non si scompose minimamente.
“John Watson, perché? Bastava un grazie, comunque.”
“Beh, John, hai appena ucciso un assassino.”
Sbuffò di nuovo perché gli aveva rubato il lavoro. Roteò gli occhi, mentre quelli di John si illuminarono appena.
“Ah, da -”
Ma c’era un altro campanello che aveva risuonato, uno più forte del trillo insistente delle deduzioni che gli rimbalzavano nel cranio.
“Sei John Watson.”, ripeté interrompendolo.
L’umano aggrottò le sopracciglia, vagamente confuso. “Mh… sì, mi chiamo così, te l’ho detto tre secondi fa? Mi sembra un nome abbastanza comu --”
“John Watson il traditore. Quello che ha combattuto per i vampiri.”
La notizia più importante che ricordasse, per la storia collettiva della sua razza. Non che gli interessasse. Ma era curioso. Perché era arrivato ad aiutarli così in profondità, così intimamente da essere uno dei loro medici?
Roteò gli occhi e sospirò. “Sì. Ma oggi non concedo interviste.”
“Chissà come la prenderanno gli altri umani quando sapranno che hai ucciso uno dei vostri.”
“Era un assassino.”
“E cosa conta per loro, secondo te?”
L’umano sospirò più forte, buttò fuori più fiato. “Suppongo non mi importi più da un pezzo. Come fai a sapere che era un assassino? Poteva essere semplicemente un cacciatore. Qui al cimitero se ne trovano tanti di vampiri.”
Sherlock si chinò sul cadavere ancora caldo. Si trattenne dal berne il sangue perché era vecchio, sarebbe stato acido, e la sete non era così forte da fargli andare bene un pasto qualunque. Nessun Holmes era mai stato abituato ad adattarsi. Inspirò forte l’aria attorno a lui. Sangue, sangue, sangue. “Si sente dall’odore. Ha addosso l’odore del sangue di troppe persone - nessun parente, di cui poteva avere addosso l’odore per qualunque altro motivo che non fosse l’omicidio, nessun bambino, perché non c’è nessun odore troppo fresco,” continuò ad annusarlo mentre l’essere umano gli si avvicinava appena “tutti maschi adulti sopra i trent’anni. E non odora come noi - cioè, non del tutto. Ha anche ucciso vampiri, ma non solo. Era pazzo, suppongo. Ha ucciso qua altre volte, l’ho percepito mentre venivo qua -”
“Per uccidermi a tua volta, suppongo. Si vede che hai sete. Da come ti lecchi le lebbra.”
Sherlock scrollò le spalle. L’umano gli era vicinissimo, riusciva a sentire il profumo della giugulare. Ma non poteva cibarsene, non di lui. Voleva sapere, voleva conoscere.
“Suppongo che se potessi andare al supermercato lo farei. La maggior parte degli esseri umani fa schifo, puzza.”
Lo guardò negli occhi - gli occhi che gli brillavano. Lo stesso sguardo di Lestrade.
“È stupefacente tutto quello che riuscite a capire semplicemente dall’odore di qualcuno.”
Sherlock lo guardò piccato. Si scrollò la neve dal cappotto con gesti stizziti, che trasudavano offesa. “Non siamo tutti così, anzi. Non siamo tanti diversi da voi, solo è più difficile per noi sopravvivere. Ma non credere. È pieno di idioti.”
“Ehi, no - non volevo offenderti - sono rimasto sbalordito dalle tue capacità, sul serio!”, cominciò a giustificarsi, preso appena dal panico, ma senza mai distogliere lo sguardo da lui. “È che sul campo ne ho curati tantissimi che riuscivano a dirmi cos’avevo mangiato tre giorni prima solo dall’odore -”
“Oh, al diavolo, eravate in guerra, tirava ad indovinare su quelle tre cose che potevate mangiare. Abbiamo i sensi più sviluppati dei vostri ma non tutti hanno un cervello collegato.”
Secondo campanello, un suono più vivace e cristallino.
“Volevi osservarci. Ecco perché sei andato in guerra dalla nostra parte. Gli esseri umani erano troppo noiosi, anche quelli più strani, anche i soldati. Perché assomigliavano a te.”
“… come -”
“Controlli ogni mio movimento, e non perché sei spaventato, col tuo addestramento riusciresti a recuperare la pistola coi proiettili d’argento e almeno ferirmi. Hai sentito un ululato, che poteva essere quello di un licantropo quanto un vampiro, e non sei scappato. Non è il dolore ad averti fermato, per quanto lo percepisca forte - sorella morta prima della guerra -, ma volevi vederne uno da più vicino possibile ancora una volta. Ti manca terribilmente, non riesci più a farne a meno.”
L’umano sbatté le palpebre tre volte di fila, si passò la lingua sul labbro inferiore, e disse semplicemente: “Wow.”
“… wow?”
“Wow.”
“… wow.”
“D’accordo, comincia a diventare imbarazzante. Non tutti i vampiri sono riusciti a dirmi tutto questo. Fantastico.”
“Lo so.”
Guardò l’umano, guardò le proprie scarpe sporche di sangue, osservò il proprio ghigno, come se si guardasse allo specchio. Sentì le sirene della polizia. Qualcuno li aveva avvertiti dello sparo e l’umano avrebbe testimoniato.
“Sherlock, che strano che tu sia qui.”, sbuffò Lestrade alle sue spalle. “… però è strano ci sia qualcun altro. È la tua cena?”
“Potrebbe rivolgersi a me come se fossi ancora vivo, grazie. Sono John Watson.”
Gli occhi dell’ispettore si allargarono appena. “Oh.”
“… il mio nome ha fatto il giro del mondo in fretta.”
“Già. Comunque - per l’amor del cielo, ma il cadavere - Sherlock! Immagino che c’entri tu, in tutto questo!”
“No.”
“Il tuo amico?”
“No, ispettore, altrimenti lo avrei già consegnato nelle tue professionalissime mani.”, sorrise Sherlock. Lestrade, dopo averli fatti allontanare, incrociò le braccia sul petto.
“Sherlock.”
“L’assassino è corso via. Ha cercato di uccidere me ma ha preso questo pover’uomo, e io e John siamo rimasti qua ad aspettarla. Di sicuro è un cacciatore, io comincerei da lì. Pensa che avresti potuto perdere l’unico cervello pensante di tutta Scotland Yard. Non è vero, John?”
L’umano annuì, indossando un’espressione seria e convinta. Sherlock sapeva che sarebbe scoppiato a ridere appena lontano dalle orecchie di Lestrade e la sua comitiva di figuranti idioti che si era cominciata a radunare attorno al cadavere tiepido del vecchio. “Andiamo, John, il nostro dovere lo abbiamo fatto. Cinese? Quando non posso bere sangue è la mia alternativa preferita.”
Il vampiro si incamminò fuori dal cimitero prima ancora che l’essere umano rispondesse - e senza ascoltare Lestrade che aveva volentieri cercato di rispondere, fallendo miseramente. John, camminando, non riusciva ad imitare la stessa posizione spavalda di Sherlock che camminava a viso alto, fermamente deciso a rimarcare la propria superiorità sempre, in qualunque istante.
“C’è un ottimo ristorante, qua vicino.”, propose John, sorridendo sotto le parole.
“Lo so.”, rispose Sherlock senza guardarlo, sorridendo a sua volta.
“… stiamo ridendo in un cimitero.”
“Mai fatto? Conoscerai un sacco di cose, d’ora in poi.”
“Dio, fantastico.”
Sherlock cominciò a ridere, febbricitante ed elettrico, e John lo seguì nello stesso identico stato.