Titolo: For What It’s Worth It Was Worth All The While
Autrice: Vany (
vedova_nera)
Beta:
cialy_girlFandom: Slam Dunk
Personaggi: Hisashi Mitsui, Tetsuo Tanaka, Norio Hotta, Takenori Akagi (e altri menzionati in modo sparso).
Pairing: Tetsuo Tanaka/Hisashi Mitsui
Rating: PG15
Conteggio Parole: 5.935 (W)
Avvertenze: Slash, underage per una parte della fic.
Disclaimer: Personaggi tratti dal manga di Takehiko Inoue. Nessun riferimento a fatti o a persone reali. Naturalmente non c’è niente di mio, e non traggo alcun guadagno dalla pubblicazione di questa storia.
Note: • MILLEMILA AUGURI AL MIO MAGICO RAVIOLO
eowie! Amataaaaaa, spero che questo giorno sia stato epico e pieno di dolci buonissimi, soprattutto ora che sei passata nel secolo in corso equipaggiandoti di smartphone di cui io ho deciso il nome. ù_ù E che questo tentativo fallito di fic ti piaccia, ovviamente, perché c’ho l’ansia, amata. TI AMOOOOOOOOOH! ♥♥♥ In ogni caso ti dedicherò una canzone rap scritta da me che ti impedisco già da ora di divulgare e quindi dovresti ritenerti soddisfatta a prescindere. ù_ù XDDDDD
• La fic si svolge su un lasso di tempo di una decina d’anni, dal primo incontro fino all’età adulta di Mitsui. E boh, penso ci sia poc’altro da dire a parte Tetsuo/Mitsui OTP forevah! \o/
• Titolo preso da Good Riddance dei Green Day, come si può ben immaginare.
For What It’s Worth It Was Worth All The While
It was love at first sight, at last sight, at ever and ever sight.
-- Lolita, Vladimir Nabokov
Il primo pugno arriva dritto alla mascella e lo butta a terra in un lampo, l’equilibrio completamente annientato. Cerca di rimettersi in piedi ma il ginocchio - ancora infortunato, fragile, distrutto - cede e lui finisce giù di nuovo, cadendo con tutto il peso sui palmi che si graffiano e spellano contro l’asfalto del vicoletto dietro il bar, giusto in tempo per evitare un calcio che, se lo avesse centrato, gli avrebbe probabilmente fracassato una costola o due. La fortuna nella sfortuna.
Non sa bene cosa credeva di fare sfidando un gruppo di teppisti - per quanto giovani, sanno sicuramente meglio di lui come cavarsela in queste situazioni. Ha peccato di superbia nell’iniziare quel litigio, si è sentito invincibile, come quando giocava a basket in quello che sembra a tutti gli effetti un secolo fa.
“Hey, vacci piano, frequenta la mia scuola”, sente dire ad uno dei tre ragazzi. Non sa quale, ma non lo riconoscerebbe comunque: non è in grado di associare il suo volto ad un nome, non ci ha mai fatto caso, non ha mai dato peso al resto del mondo che stava al di fuori del campo da basket.
L’improvviso bagliore rosso del sole che tramonta si allarga uno spiraglio tra le spesse nubi nere che lo hanno coperto per tutto il pomeriggio. È solo un attimo, appena un battito di ciglia, ma basta a distrarlo e a impedirgli di accorgersi di un secondo pugno che arriva dalla destra e lo colpisce alla schiena.
Il dolore è tale che è sicuro gli abbia spappolato un rene e il pensiero di morire o almeno di finire in ospedale con lesioni serie gli si affaccia alla mente appena riesce a tornare a respirare - ma non gli importa, non gli importa più di nulla. Anche morire, adesso, in questo preciso istante, non cambierebbe niente.
Prova a rialzarsi ma un sinistro in pieno volto lo manda a carponi mentre dal cielo, rabbuiatosi nuovamente, iniziano a cadere sporadiche gocce di pioggia - macchie più scure che si aprono sull’asfalto come fiori in un mare grigio, le osserva ancora chino a terra, ad appena pochi centimetri dal proprio viso schiudersi come boccioli in primavera.
La fitta è lancinante e lo piega in due, non gli ci vuole molto per rendersi conto che non c’è via di fuga: è circondato da ragazzi più grandi e in quello stato non può né difendersi né scappare - non lo farebbe comunque, lui non scappa davanti a niente e nessuno, ma è stanco, così stanco di combattere, di essere forte, di provare a riprendere in mano la propria vita.
“Se Hotta lo scopre ti fa il culo”, una voce diversa adesso, ma anch’essa leggermente allarmata, la paura di insubordinazione fin troppo chiara.
Allora questa è la fine, pensa, tirandosi a sedere e appoggiando la schiena contro il muricciolo alle sue spalle. Sputa un grumo di sangue e saliva e presta attenzione al viso del giovane davanti a lui. Può avere un paio di anni in più al massimo, non crede di averlo mai visto in giro, una diversa scuola, probabilmente anche una diversa classe sociale, e ci sarebbe quasi da ridere del fatto che il primo scontro con qualcuno inferiore a lui sulla carta lo abbia perso, con il rischio concreto di venire ridotto in fin di vita.
È stato vinto, ancora. Non brucia più di quanto non abbia fatto in passato. Ormai è un’abitudine, qualcosa che non sa più come affrontare né tantomeno sconfiggere.
Un lampo apre in due l’oscurità ad ovest, sopra il mare, e poi un tuono copre per pochi secondi il rombo di una moto che si ferma a poca distanza dal vicolo; questo sembra riscuotere i tre, improvvisamente torna l’ordine, somigliano a bambini messi in riga da una punizione della maestra.
La testa gli sta scoppiando mentre il suono di passi sempre più vicino gli rimbomba nelle orecchie. Vorrebbe solo chiudere gli occhi, ma ha paura di farlo, paura di cedere, di lasciare andare.
“Che diavolo sta succedendo?”, domanda un uomo alcuni istanti dopo. Ha la voce roca e una sigaretta tra le labbra, ne aspira una boccata trattenendola con due dita, in un gesto pigro, casuale. “Chi è questo qui?”, chiede, nel notarlo malconcio e sanguinante. Lo guarda per un po’, come se lo stesse soppesando. Poi sorride, sposta l’attenzione sul giovane al proprio fianco e il sorriso si trasforma in una risata.
“Te le sei fatte suonare, eh, Ryu?”, lo schernisce, tornando a posare gli occhi su Hisashi. “Da un ragazzino.”
“Mi ha colto di sorpresa dentro al bar e-”
“E ti ha spaccato la faccia, sì, lo vedo”, conclude la frase al suo posto, con un ghigno. “Come ti chiami?”, gli si rivolge direttamente, senza levargli lo sguardo di dosso, come se avesse visto qualcosa di bello e raro che non vuole farsi sfuggire.
La vista è così annebbiata da non riuscire a distinguere con precisione i lineamenti dell’uomo, la sua voce gli rimbomba nelle orecchie, neanche fosse amplificata. Gli viene da vomitare e una strana confusione gli circola per la testa, come se questa fosse troppo leggera, nonostante il male che gli fa.
“Mitsui”, mormora appena, “mi chiamo Mitsui”.
“Beh, Mitsui, ora ti prendo e ti porto a casa, ok?”, dà un ultimo tiro e butta via il mozzicone, la cenere ancora accesa scivola incandescente nell’oscurità fino a toccare terra con un paio di rimbalzi, spegnendosi pochi attimi dopo.
Si china al suo fianco e gli mette un braccio attorno alla schiena indolenzita. Lo solleva come se non pesasse niente, con una facilità impossibile. Mitsui riesce a sentire odore di sigaretta, sudore e dopobarba sulla sua pelle. Un odore estraneo ma rassicurante in qualche modo, quasi familiare.
Una volta in piedi, le fitte di dolore gli attraversano il corpo in onde costanti dove l’avambraccio dell’altro lo sostiene.
“Sto morendo”, biascica allora - il sangue crea un miscuglio colloso nella sua bocca e le parole escono impastate, in gorgoglii indefiniti.
“No, ragazzino, vai tranquillo che non stai morendo, non ammazzano proprio nessuno questi qui”, replica mentre si lasciano alle spalle i tre. “Sei solo un po’ ammaccato, niente che qualche giorno di riposo non potrà sistemare.”
Glielo dice con l’onestà di chi ci è passato, di chi sa quanto può fare male venire pestati e di quanto può essere resistente il corpo umano, con che velocità guarisce; ma non sa che lui non ci crede più, che il suo corpo non ne vuole sapere di ripararsi, o forse è semplicemente più lento di quello di tutti gli altri.
Il viaggio non è confortevole e sembra durare una vita intera. Hisashi tiene salda la presa sui fianchi dell’uomo mentre l’aria fresca della sera gli colpisce il viso ferito appoggiato contro la sua schiena e una leggera ma incessante pioggerellina lo inzacchera fino al midollo. Però c’è profumo di terra bagnata nell’aria, e almeno questo lava via un po’ della sofferenza che si porta dietro.
“Siamo arrivati”, la voce pare venire da lontano, e il ragazzo si rende conto solo adesso di essere caduto in una sorta di stato incosciente, anche se le sue mani sono ancora aggrappate saldamente al giubbotto dell’uomo e in qualche modo è riuscito a non volare giù dal veicolo in corsa.
Scende a fatica dalla moto, è come se si fosse risvegliato nel corpo di un centenario, fatto di ossa fragili e muscoli raggrinziti, ogni movimento è un’agonia infinita. Un giramento di testa lo sorprende nel tentativo di mantenere l’equilibrio e l’altro lo afferra appena in tempo prima che cada a terra.
“Ti serve una mano?”, domanda. Mitsui si volta verso l’edificio e la mente corre ai suoi genitori, alla scusa che dovrà inventare per lo stato in cui è ridotto, per l’orario - perché saranno almeno un paio d’ore più tardi di quando aveva detto che sarebbe rientrato -, per non aver chiamato. L’ultima cosa di cui ha bisogno è venire scortato fino alla soglia di casa da un uomo più grande con il viso meno rassicurante che abbia mai visto, per quel che riesce a distinguerne.
“No, ce la faccio”, afferma e con passo traballante si dirige verso il cancello, cercando nelle tasche della giacca le chiavi. “Grazie”, aggiunge poco dopo, girandosi a guardarlo, fermo a cavalcioni della moto. Per avermi salvato la vita o qualcosa del genere, vorrebbe aggiungere, ma non lo fa, lascia sottintesa la reale motivazione della sua gratitudine.
Ha già aperto la porta d’entrata quando sente il motore della motocicletta accendersi e scivolare via in lontananza.
*
L’accoglienza dei suoi genitori la sera precedente non è stata peggiore di quanto avesse immaginato nel breve tragitto dal cancello alla porta di casa. O forse sì, perché non aveva messo in conto il viaggio all’ospedale per gli accertamenti quando, nel tentativo di controllargli le ferite mentre suo padre aveva deciso di occuparsi della colonna sonora di quella serata di merda urlando furibondo, sua madre aveva visto i primi segni del livido che stava uscendo alla base della schiena e aveva temuto ci fosse qualche danno serio.
Così aveva trascorso metà notte in attesa di farsi medicare, riuscendo a chiudere gli occhi solo di tanto in tanto, fino a quando lei non se ne accorgeva e lo svegliava, mormorando qualcosa su una possibile commozione cerebrale.
L’unica nota positiva di tutta quella faccenda sono i giorni che trascorrerà a casa perché non può nemmeno a reggersi in piedi, mentre gli antidolorifici gli annebbiano la mente per gran parte delle ore.
E c’è un sacco di tempo per pensare, solo in un’abitazione vuota, ma anche per respirare, essere libero, per non dover fingere che tutto vada bene quando invece il mondo è imploso su se stesso e i pezzi per rimetterlo insieme non si trovano da nessuna parte, iniziando a fargli dubitare siano persi per sempre.
Sta leggendo distrattamente un trattato di storia per la scuola, in modo da non restare indietro col programma quel tanto che basta per non essere bocciato, quando il pensiero dell’uomo si riaffaccia alla mente. Non ricorda con precisione neppure i lineamenti del volto, appena qualche dettaglio sparso della sua presenza, il suo odore soprattutto, la voce, ma il viso no, il viso non è riuscito ad afferrarlo la sera prima, potrebbe essere il viso di qualsiasi persona in quella dannata città.
Non gli ho nemmeno chiesto il nome, ché forse quella è l’unica cosa che gli sarebbe potuta rimanere di lui, se gliel’avesse domandata.
Per il resto sono giorni tranquilli, di solitudine, abbandonati a se stessi. Sono giorni che sente suoi.
*
Dopo quasi due settimane di assenza è strano alzarsi al mattino, lavarsi, pettinarsi e vestirsi per andare a scuola. È strano tornare ad occupare un posto nella società quando ha scoperto di stare meglio ai suoi margini, in piedi sul confine pronto per saltare dall’altra parte.
Gli cresce un’ansia improvvisa nel petto all’idea di rivedere i suoi compagni di classe, dover dare spiegazioni alle domande preoccupate di Kogure, affrontare l’espressione delusa di Akagi, e gli sguardi, soprattutto gli sguardi, forse incuriositi, forse di pietà, degli studenti che non conosce mentre cammina per i corridoi.
È quasi sul punto di filarsela quando si accorge della due ruote davanti ai cancelli dello Shohoku, parcheggiata non lontano dall’entrata; potrebbe giurare che sia la stessa moto, ma dell’uomo non c’è traccia, solo nugoli di studenti a perdita d’occhio.
Poi lo vede, a poca distanza da essa, parzialmente coperto da un paio di liceali alti quanto lui con cui sta parlando. Lo nota subito, come se il suo sguardo fosse stato attirato da una luce improvvisa - anche gli altri si voltano ad osservare la ragione di tanto interesse e Mitsui riconosce Hotta in uno dei due.
“Ti sei rimesso bene?”, chiede avvicinandosi, un sorriso storto e la sigaretta sempre in bocca.
E quello è l’inizio, Mitsui lo può intuire chiaramente, come se fosse una proiezione di se stesso all’esterno del proprio corpo e assistesse alla scena avendone una visuale completa. L’inizio, e non c’è modo né desiderio di tornare indietro.
La sua vita ha ripreso a scorrere nel momento in cui l’ha incontrato di nuovo, in una mattina di primavera, la fine della scuola quasi alle porte.
*
“Sigaretta?”, chiede Tetsuo, allungandogliene una senza aspettare l’assenso. Mitsui la prende fra le dita e la appoggia alle labbra mentre il più grande si avvicina e l’accende con la propria, i visi a poca distanza l’uno dall’altro.
Infila dietro l’orecchio una ciocca di capelli mentre aspira il primo tiro: continua ad avere un sapore terribile ma è uno di quei gusti acquisiti di cui non riesce a liberarsi, che gli ricorda troppe cose, troppi attimi sprecati, troppi pugni presi e dati, troppe risate con la banda, pomeriggi pigri passati con Hotta a giocare a pachinko in una sala semi-deserta, le sere a scopare con Tetsuo quando non avevano altro da fare, in un continuo promemoria della rotta che ha preso la sua esistenza.
“Ti aspettano a casa?”, i suoi quesiti hanno sempre un certo tono casuale, quasi annoiato, come se non gli importasse granché della risposta, ma Mitsui ha imparato a discernere quando non è così semplicemente dalla piega delle sue labbra, dal fatto che non lo guarda mai in faccia quando uno dei responsi possibili può far male.
“No, hanno smesso di aspettarmi da un bel po’”, replica allora, levandosi la casacca della divisa scolastica e rimanendo in maglietta. Dà un fiato alla birra e torna ad appoggiarla sul tavolino di fronte al divano su cui sono seduti. “Dormo qua”, afferma poi, dando risposte a domande che l’altro non osa fare, decidendo per entrambi.
In alcune occasioni gli è capitato di scorgere un’espressione strana sul viso di Tetsuo, come se si chiedesse cosa sta facendo lì, con lui, a sprecare la sua vita bighellonando fino a notte fonda per le strade della città in cerca di guai, quando potrebbe avere tutto quello che vuole se solo decidesse di prenderlo.
Anche lui se l’è domandato, di tanto in tanto, il pensiero di rimettere insieme i pezzi gli ha attraversato la mente in più di un’occasione, ma senza il basket non ha niente, niente a cui aggrapparsi per tirarsi fuori da quella situazione, così si è cercato una fonte di felicità alternativa, che non è proprio felicità, è forse più un sopravvivere, ma con la persona giusta al proprio fianco.
Ed è questo, in fondo, tutto ciò di cui ha bisogno, solo un po’ di amore gratis che Tetsuo gli offre senza pretendere nulla in cambio, quando nessun altro riesce a capire, riesce a vedere cosa sta attraversando, quanto duramente sta cadendo. Lui gli ha teso la mano nell’unico modo che conosce per salvarlo, l’ha tenuto con sé e, sbagliato o giusto che sia, glien’è grato.
Spegne la cicca nel portacenere e toglie dalla presa del più grande la bottiglia, il liquido ambrato oscilla pericolosamente mentre l’abbandona di fianco alla sua con un gesto rapido. Si sfila la maglietta e lo attira sopra di sé, sente il peso del suo corpo sul proprio, lo bacia, assapora l’amaro delle sigarette e dell’alcol sulla sua lingua, ed è in momenti come questi che scopre di non volere niente di più.
Questa è la sua vita, ora, e possiede una certa bellezza rovinata quando riesce a scacciare i rimpianti, il ricordo di occasioni sprecate; quando addenta la libertà arrogante di non dover nulla a nessuno, di poter fare quello che desidera, con chi desidera.
E fanculo al resto.
*
“Torno a giocare”, gli dice qualche sera dopo la rissa, le mani sprofondate nelle tasche dei pantaloni della divisa. Lo ha evitato per un paio di giorni, nei quali ha rimesso in ordine almeno una fetta dei casini che ha combinato nel corso di quei due anni.
Non sta a raccontargli dell’amarezza per il tempo perso, del fatto che ha bisogno del basket come di respirare, non vuole rovinare il loro passato insieme con confessioni inutili. Tra di loro non è mai servita nessuna spiegazione e le parole rovinano tutto, così le mette da parte, le allontana da entrambi.
“Lo so”, risponde l’altro, e un mezzo sorriso gli increspa le labbra. Non gli ci vuole molto per rendersi conto che lo sta semplicemente lasciando andare, perché è la cosa giusta da fare, perché non è mai stato egoista a tal punto da desiderare di tenerlo legato a sé, ad una vita sbagliata, fatta di pochi attimi buoni e troppa merda.
Il vento che arriva dal mare gli scompiglia i capelli ancora lunghi, l’ultimo residuo di un istante che non esiste già più. Osserva le luci del porto in lontananza, macchie di colore nel blu scuro della notte.
“Allora ci si vede in giro, bello”, butta lì il più grande e sale sulla moto, accendendola e dando gas. Il rumore del motore spezza il silenzio e copre quello regolare e più quieto delle onde che si infrangono sulla battigia.
“Sì, ci si vede”, risponde lui, e Tetsuo vola via, con un ultimo cenno di assenso, senza voltarsi indietro.
A Mitsui sale un nodo alla gola che non riesce a sciogliere, nel vedere la sua figura illuminata appena dalla luce dei lampioni allontanarsi e pian piano scomparire. Quel saluto sa tanto di addio e gli addii fanno sempre un po’ schifo e un po’ paura.
Fanno sempre un male cane.
*
Anche mesi dopo aver ripreso il basket, gli allenamenti sono duri, il corpo ha disimparato così bene la resistenza allo sforzo che dopo metà partita è sfibrato, senza più un briciolo di energia. Eppure è una fatica che accetta, sebbene porti con sé un’onda di rammarico ogni qualvolta ripensa a tutto il tempo che ha gettato via e che avrebbe potuto impiegare per mantenersi almeno un po’ in forma, invece di bere e fare a botte e prendersela per offese inesistenti - invece di odiare chiunque avesse in mano delle carte migliori delle sue.
Di tanto in tanto, invece, lo coglie ancora il desiderio di fumare: il suo corpo può aver scordato come si sopporta una giornata di duro lavoro in palestra, ma non certi sapori, certi odori, ricordi che sono stati la quotidianità per troppo tempo. La continua sensazione di mancanza gli occupa la mente come nient’altro riesce a fare, e non credeva possibile sentire nostalgia per momenti che desiderava dimenticare, fatti di piaceri basici e disagio.
Attira l’attenzione di Ayako con un gesto della mano, dopo essersi buttato un asciugamano sulle spalle, e quando lei dà segno di averlo visto le indica la porta con un lieve movimento del capo.
Si siede su uno dei gradini fuori, cercando di riprendere fiato. Senza l’armata è una sessione stranamente quieta, ma non gli dispiace un po’ di tranquillità durante la preparazione per la partita contro il Toyotama.
Il respiro sta lentamente tornando regolare quando Norio si avvicina, la casacca della divisa aperta, un sorriso e una sigaretta in bocca. Gli ricorda Tetsuo, in certi momenti, come adesso, mentre fuma in piedi al suo fianco.
“Un tiro?” scherza, fingendo di allungargliela. Mitsui sorride, gettandogli un’occhiata divertita. È strano trovarsi insieme di nuovo - come mesi fa, quando tiravano l’alba bevendo birra, passando da un locale all’altro in una sorta di rinnovata normalità che ha abbandonato nell’attimo in cui ha fatto ritorno a ciò che aveva perso - dopo aver messo un punto al giro di boa della sua vecchia vita, quella di cui Hotta e Tetsuo facevano parte. Gli dispiace averli lasciati indietro, ma vederli, continuare a frequentarli sarebbe solo un dolore in più, un’ancora gettata nel passato.
Gli mancano, anche se non lo confesserebbe mai.
“Tutto bene?”, domanda, fissando la recinzione poco distante da loro ricoperta da una siepe i cui fiori rosa spuntano qua e là.
“Tutto bene, il solito”, risponde, accomodandosi alla sua destra.
Nessuno dei due sa esattamente di che parlare, condividono un’amicizia leale e sincera, ma hanno separato i loro cammini tanto bruscamente che sembra non essere rimasto nulla, alcun punto di contatto.
Poi glielo chiede, perché non sapere sta iniziando a pesargli, e quell’addio vicino al mare è stato più spaventoso di tutti i pugni e i calci che ha preso nella propria vita. “E lui?”, lo butta lì così, facendo finta di niente.
Norio si volta a guardarlo e ridacchia, “lui sta bene, tira avanti come sempre, lo sai”, e aggiunge, “puoi anche passare al garage qualche volta, sono sicuro che gli farebbe piacere”.
Il rumore di passi alle loro spalle interrompe la conversazione e Hisashi si limita ad annuire col capo mentre si alza. Akagi è in piedi sulla soglia della palestra, lo sguardo indecifrabile fermo sul proprio compagno di squadra.
“Devo tornare dentro, adesso, ci si becca in giro”, mormora Mitsui a testa bassa.
“Ok, bello”, risponde, afferrando la situazione e sparendo in direzione della scuola.
Mitsui oltrepassa il capitano senza gettargli un’occhiata.
*
“Li frequenti ancora?”, domanda Akagi appena l’altro esce dagli spogliatoi, la figura immobile appoggiata contro la parete. Sono rimasti solo loro due e Mitsui è sicuro che abbia trovato una scusa con Kogure per attardarsi così tanto, o forse gli ha semplicemente detto di aver captato qualcosa che non gli piaceva nel sentire la conversazione tra lui e Hotta. Non è certo di quanto abbia udito, ma si aspettava di venir confrontato sulla faccenda. Nondimeno, questa curiosità lo indispone: non sono fatti suoi chi vede e quando, purché mantenga la promessa fatta ad Anzai.
“No”, risponde, ed è la verità: incontra Norio raramente fuori dalla scuola e Tetsuo da quella sera poco dopo la rissa. Non lo vedo da quasi tre mesi eppure sembrano mille anni, ce l’ha sulla punta della lingua, pronta a rotolare fuori, ma non crede aiuterebbe ammetterlo davanti ad Akagi - quell’affermazione lascia scoperta una parte di cuore, lascia intendere un bisogno a cui lui non vuole dare voce, perché renderebbe tutto più difficile e miserabile. La lontananza, prima o poi, sistemerà quel che c’è da sistemare.
“No? La squadra non ha bisogno di altri casini, quanto manca per tornare alle risse e al resto?”
“Al resto?”, si rivolge a lui con un mezzo ghigno storto, un’ombra del vecchio se stesso che affiora sulla linea sottile della superficie, mentre sente di nuovo quella sensazione violenta, che gli faceva prudere le mani in cerca di qualcuno da pestare per le ragioni più futili, nascergli dentro. “Cosa sarebbe il resto, capitano? Cosa credi di sapere?”, lo interroga senza aspettarsi una risposta, fissandolo dritto negli occhi, mentre l’altro non si tira indietro alla possibilità di uno scontro. “Sai cos’è il resto? È Tetsuo che mi ha impedito di annegare, e non mi avrà tirato fuori dalla merda in cui ero finito, ma mi ha tenuto a galla fino a quando ce n’è stato bisogno, quando nessun altro si era preso il disturbo di farlo. Questo è il resto.” E glielo devo, glielo devo.
Si butta la borsa in spalla, provando a trattenere la rabbia, e imbocca l’uscita della palestra senza voltarsi indietro, prima che il groppo che ha in gola si sciolga.
*
Lo ha visto, in qualche occasione, sugli spalti durante le partite.
Non era mai insieme alla banda né all’Armata, ma sempre nei pressi di qualche uscita, come se fosse di passaggio o pronto ad andarsene da un momento all’altro.
In quella che identifica come la prima volta, sebbene non sia certo lo fosse, lo aveva notato per puro caso: era seduto in panchina per un cambio, giusto il tempo di riprendere fiato, riacquistare le forze, quando aveva alzato lo sguardo ad osservare la folla. Aveva riconosciuto la figura di Tetsuo nell’istante in cui l’aveva adocchiata, sebbene distante, e all’improvviso gli era parso che il suo cuore avesse dato due battiti in più del dovuto e gli fosse salito su fino alla gola, per la sorpresa e anche per qualcosa di fin troppo simile all’affetto.
Anni dopo avrebbe maturato la convinzione che era stato un segno del destino posare gli occhi su di lui in mezzo a quel mare di gente, come se il suo sguardo vi fosse stato attirato. Era destino, ma questa è un’altra di quelle cose che non racconterebbe ad anima viva.
Era restato a fissarlo per un po’, ma quando era stata ora di rientrare in campo lo aveva perso di vista, e alla fine della partita era scomparso.
Non è mai corso fuori per vedere se c’era ancora, magari ad aspettarlo in sella alla moto di fronte all’edificio, in un attimo di tentennamento in cui il desiderio di vederlo era riuscito a sopraffare la ragione. E Mitsui sa che non è mai uscito a cercarlo per la stessa ragione per la quale lui non è rimasto fino alla fine: non volevano attraversare il ponte che avevano costruito insieme e li teneva separati, perché hanno sempre creduto fosse meglio così e Tetsuo gli aveva dato questa enorme possibilità di avere una vita migliore, di andare avanti senza sentire il bisogno di voltarsi indietro.
Eppure, ad ogni nuovo incontro, non può fare a meno di cercarlo in mezzo a centinaia di visi estranei.
*
Non sa come ci sia arrivato, cosa lo abbia condotto fin lì. O forse sì, ma non vuole ammetterlo nemmeno a se stesso. È che tutto ciò a cui più tiene gli ricorda quanto ha perso nella vita - cose belle, per cui vale la pena lottare, invece di metterle da parte in favore di altre, ma lui è un campione nel fare sempre le scelte sbagliate e la catasta di rimpianti che si porta dietro ne è una prova convincente.
La claire dell’officina è alzata nonostante l’ora tarda. Una luce fioca si riversa sulla strada e Mitsui vi si affaccia titubante, il cuore in gola. Non è paura di rivederlo quella che sente, è qualcosa di differente, più simile al rammarico o alla tristezza, ma non paura, non ne ha mai avuta di Tetsuo, neppure la sera in cui lo ha incontrato per la prima volta. Ha avuto il terrore di morire, di venire pestato a sangue da Ryu, ma non di Tetsuo. Di lui mai.
Lo scorge mentre sta lavorando ad una moto, probabilmente una commissione da finire entro domani, che spiegherebbe il trovarlo ancora lì invece che in giro con gli altri.
“Hey”, dice, varcando dopo quasi un anno intero la soglia del garage. C’è odore di olio e grasso per motori, come al solito, e la sensazione di déjà-vu lo investe mentre l’altro si gira, leggermente sorpreso. Non è cambiato nulla, e rendersi conto di questo fa persino più male.
“Hey”, gli fa eco, alzandosi e pulendosi le mani sui jeans sdruciti. “Come mai da queste parti?”, chiede, accendendosi una sigaretta. Sembra sul punto di offrirgliene una, in un gesto automatico, un’abitudine che la lontananza non gli ha permesso di perdere, poi si ricorda - del basket, della persona diversa, estranea, che è diventata Mitsui.
“Niente, passavo di qui e…” e tra una settimana parto per l’università, ma non ce la fa a finire la frase. Potrebbe terminarla con qualcosa di banale, con una di quelle espressioni che si sentono sempre durante i commiati, ma quando guarda il viso dell’uomo in attesa davanti a lui, ne segue i lineamenti, la linea degli zigomi, la barba incolta, la mente lo ributta alla sera in cui si sono salutati in riva al mare e non ce la fa a mentire di nuovo. È che questa volta sa proprio di chiusura, di addio vero, che non lascia spazio a insicurezze, e non ha idea se quella sensazione di definitivo sia legata al trasferimento in un’altra città o al non avere nessuna certezza che lui sarà sempre lì, a lavorare al garage tirando su soldi extra girando pezzi rubati, come ha fatto fino ad ora anche se non si sono più visti, se non incontrandosi per caso, fermandosi a scambiare due parole prima di andare ognuno per la propria strada.
Lo sgomenta dover mettere un punto a tutto questo, dover scrivere una fine sapendo di aver sprecato buona parte del tempo che avrebbero potuto passare insieme - perché, semplicemente, è questa la questione: aver sprecato di nuovo tempo prezioso, non aver imparato niente dagli errori del passato.
O forse ancora, il vero problema non è quello ma sta nel fatto che è sempre stato lui l’egoista che non ha mai saputo lasciar andare, ma certe persone ti si annidano dentro e ti cambiano, che tu lo voglia o no, ti fanno nascere il bisogno di portarle con te.
Vorrebbe dirgli questo, provare a spiegarglielo, raccontargli tutto, di quanto gli è mancato e di come sia incapace di imparare. Che devono smetterla di fingere di stare insieme a tempo perso, tra una scopata e l’altra, ma loro due sono un po’ così, senza meta. Allora tiene gli occhi bassi e le mani chiuse a pugno mentre stringe forte la mascella per non piangere, per mantenere almeno un briciolo di contegno - anche se non serve, non con Tetsuo, ché lo ha visto ridotto in condizioni ben peggiori.
“E?”, lo incalza il più grande, aprendo una birra e allungandogliela.
“E stanotte resto”, aggiunge solo.
*
Il sesso con Tetsuo è stato facile fin dall’inizio, naturale, qualcosa che entrambi sapevano sarebbe successo nel momento in cui si sono visti, in quel vicolo anni prima, senza che conoscessero i rispettivi nomi e il loro passato. Doveva succedere e basta, gli è sempre sembrato giusto, neanche fosse stato scritto nelle stelle - e lui non è il tipo da lanciare in aria frasi simili, se ne guarda bene, però non può fare a meno di pensarle mentre osserva la sagoma rilassata del suo corpo steso a fianco al proprio. Forse è solo una questione di familiarità, di certi gesti, certe abitudini.
Il loro stare insieme è stato scandito da altre esperienze, entrambi sono stati a letto con diverse persone, frequentato altra gente; fondamentalmente crede che la ragione sia da imputare al fatto che la loro non sia una storia, non sia mai stata una storia, non sia niente che imponga principi da rispettare o divieti da non oltrepassare.
Eppure sembra non finire mai.
Cerca l’accendino sul comodino - prima di andarsene vuole riassaporare ancora una volta appieno la vita che ha condotto per quasi due anni. Ci sarà sempre una parte di lui a cui mancheranno le corse in moto nel cuore della notte e le risse con sconosciuti che avevano semplicemente fatto l’errore di far scorrere lo sguardo su uno di loro, l’alcol e le sigarette e il disagio di quegli anni, gli abbracci di Tetsuo, il peso del suo corpo, il suo profumo addosso dopo aver lasciato l’appartamento, l’assenza di regole che scandiva le giornate.
“Quando parti?”, la sua voce lo coglie di sorpresa.
“Tra qualche giorno, Sabato prossimo”, risponde, fissando la fiamma. Non ha senso negare, probabilmente Hotta ha saputo che è stato contattato e gliel’ha riferito.
“Si cresce, eh?”, dice, rubandogli la sigaretta. “Non dovresti fumare”, aggiunge poi, un sorriso appena accennato sulle labbra, “ce l’hai quasi fatta ad andare avanti”.
“Forse, ma per ora sono ancora qui”, replica Mitsui, riprendendola e tirando una boccata.
*
L’università per un paio di anni è stata solo basket e studio e uscite con i compagni di squadra, qualche ragazza di tanto in tanto, per riempire i vuoti. Poi ha conosciuto Kyoko e tutto si è messo in moto verso il futuro; ha provato fin da subito a mettergli la testa a posto e lui se n’è accorto troppo tardi che non c’era spazio per lei nella propria quotidianità, che lo stava spingendo verso un domani che non desiderava, con moglie e figli e un lavoro e orari da rispettare, responsabilità che non voleva prendersi - lui che sogna solo di essere libero, di quella libertà totale che non deve rendere conto a nessuno, a cui non è ancora pronto a rinunciare.
Sta cercando il modo di lasciarla, adesso, mentre la guarda mettersi lo smalto, una tonalità sbiadita di rosa quasi invisibile, l’attenzione completamente focalizzata sull’atto. Sta cercando le parole giuste ma non sembra trovarle da nessuna parte.
Si domanda se anche lei vede già la loro storia al capolinea, se registra la noia di giornate uguali che non potranno che diventare una gabbia per entrambi.
È che non sa da che parte prenderla, perché di se stesso non le ha mai confessato nulla che contasse davvero. Non è mai stato a dirle di cosa significhi il basket né degli anni bui in cui girava fino a notte alta con la banda, né di Tetsuo, che almeno lui meritava un accenno, una menzione all’interno della storia della proprio vita.
Però non ce l’ha fatta; è che tutto questo è così personale, così suo, così vivo che non può diluirlo confessandolo a qualcun altro.
C’è una canzone che non conosce alla radio, una di quelle ballate rock struggenti che parlano di amori sofferti e persi, ma eterni. È una canzone che gli si addice, gli cade addosso come un vestito su misura. Amore e perdita, un connubio fin troppo familiare.
“A cosa stai pensando?”, lo sorprende lei, incuriosita.
“Al mare”, risponde semplicemente, mentre Kyoko gli getta un’occhiata in tralice e rimane in attesa.
Lo sa già, in fondo.
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Lo strappo al ginocchio è un dolore micidiale che si snoda come una scarica elettrica per tutto il corpo. Finisce a terra in un attimo, ed è come anni dieci fa, la stessa fitta, lo stesso sguardo annebbiato, la stessa maledetta sensazione di sconfitta.
La corsa in ospedale gli ricorda la sera del suo primo scontro con la vita vera ed è come un tuffo nel passato, è mettere da parte un pezzo di strada percorsa e tornare al punto di partenza.
La prognosi non è delle migliori ma non si aspettava il contrario: aveva ripreso a fargli male da un po’ e se lo sentiva che sarebbe andata così continuando a sforzarlo, ma voleva dimostrare ancora qualcosa, voleva quell’ingaggio anche se l’allenatore era stato chiaro sul rischio che non intendevano correre scegliendo lui, con quel ginocchio rovinato, quel passato imprevedibile.
Fine dei giochi, quindi, per sempre questa volta, e non c’è nulla che lui possa fare, non c’è più nulla da recuperare.
E allora torna indietro, semplicemente.
*
Il suono dei gabbiani e lo sciacquio delle onde a riva lo accolgono mentre esce dalla stazione, aspira una boccata di aria salmastra gettando uno sguardo attorno a sè.
Lo scorge poco più in là, parcheggiato in una zona d’ombra, la solita sigaretta tra le labbra e il solito ghigno, gli occhi che lo seguono mentre si avvicina.
“Non avevi nessuno che ti venisse a prendere?”, domanda Tetsuo, mentre l’altro lo raggiunge, nemmeno un saluto ad aprire la conversazione.
“Nah”, risponde con un sorriso. Vorrebbe chiedergli com’è andata in tutto quel tempo, se ha messo la testa a posto, se ha ricevuto le cartoline che gli mandava quando capitava, e dirgli che lo aveva visto, la mattina della partenza qualche anno fa, lo aveva visto guardarlo andare via. Ma sa troppo di strappalacrime per i suoi gusti, così lascia stare.
“È tutta lì la tua roba?”, indica la sacca con un gesto del capo.
“Ci hanno pensato i miei settimana scorsa, quando mi hanno dimesso”, replica lui con una scrollata di spalle. “Allora, me lo dai questo strappo?”, gli chiede poi, come se si fossero incontrati solo il giorno prima e non ci fosse stata nessuna lontananza, nessuna speranza né dolore nel mezzo.
“Salta su”, risponde l’altro, mettendo in moto e dando gas. “Dove andiamo?”
“Non lo so ancora”, replica Mitsui, montando dietro.
Ed è la verità, non lo sa dove stanno andando, forse non l’hanno mai saputo e si sono persi troppe volte lungo la via, in cerca di qualcosa che credevano migliore.
Tuttora, però, riesce a vedere il punto d’inizio ma non quello di fine.