la recensione di un ellepì immaginario [con nichilismo catastrofismo e pose da guappi]

Dec 06, 2010 19:23


Il disco di cui trattiamo quest'oggi... dico quest'oggi anche se voi mi leggete da un mese all'altro - riconoscendo questa scrittura, ma non soltanto la mia, è chiaro, ma pure quella di tutti coloro che contribuiscono a far sì che ogni trenta e rotti giorni si ponga insieme il menabò di codesta pubblicazione - la ponete per riflesso automatico in una scansione di lunario che fa parere tutto pensato o consolidato come i bilanci degli opifici. Ma non funziona così: io so di non vedere voi, se non come come numero fluttuante e in sostanza indiscernibile, mentre voi invece pensate di veder me morsicare il lapis, il gittare delle fondamenta, il metro di giudizio ora infallibile ora cretino. Ma io scrivo oggi, questo pomeriggio, stasera troppo presto, e alle idee, che come diceva quell'illuminato pensatore, “sono le mie puttane”, tento come tutti e semplicemente di abbrancarle come il dio-capro Pan alle ninfe. Sarebbe, in questo, cattiva creanza mostrare la macula di succo finita per isbaglio sul foglio mentre appunto durante lo scrivere masticavo tabacco? Questo per dare un esempio della mia brutale quotidianità, non per altro. In effetti chi la vorrebbe vedere la carta intrisa, se non appunto di parole, ognuna pesata e rivelatrice e addirittura apotropaica - dello sporco dei giorni di miseria dello scrivente dio ce ne scampi: spazzatene subito il rudo sotto al tappeto. Ma tralasciamo, che non è questa l'ora, benché invece la sede sia acconcia. Dicevamo piuttosto del disco oggetto qui di recensione. Questi ragazzi, che potete vedere ritratti sopra la copertina in posa spavalda, sono alla seconda uscita sulla lunga distanza. La prima, che avemmo modo di ascoltare e recensire lo scorso anno, la si poteva classificare senza sforzare il sistema di Linneo sotto la voce “devastazione”. V'era laggiù una noia, una frustrazione finanche sessuale di quattro estrusioni di carne d'avanzo oltreché espulsa dalla classe lavoratrice, la quale dava luogo a un suono di sola et essenziale violenza. Non c'era nemmeno l'ironia, o la boria, bensì soltanto, e attenzione all'ossimoro sdrucciolo, una suadente ottusità. Quella della decadenza di Galba, di Otone, di Vitellio. Essa violenza emessa con la fronte premuta sul clacson da angioli della morte. Ebbene, con questo secondo ellepì è persino peggio... c'è addirittura della frenesia, nonsenso e demenza. Ottimo per le orecchie di chi - io tra essi- vuole finir squassato andando all'assalto davanti alle cannoniere inimiche soltanto protetto dalla presenza del tamburino che scandisce il tempo. Automi settecenteschi di codesti tamburini, con il loro bell'abitino d'alamari e la mascella basculante se ne trovano ancora, a caro prezzo, nei mercati dell'antiquaria. Giunto a questo punto, nella pace delle mie quattro mura penso: il teatro dell'assurdo, tolta qualsiasi mediazione, fosse pure quella della presa per il culo dello spettatore, rispecchia qualcosa di endemico nell'animo umano. Qualcosa di genetico che si potrebbe campionare dentro ad una sequenza d'alleli di questo genere: A nera, E bianca, I rossa, U verde, O blu. Il disco che stiamo recensendo è la dimostrazione di ciò, sebbene la cosa venga fuori dai bramiti di quattro disadattati con le mutande laide e la fiata a dente di sega. E quindi? Quindi che vi devo dire, prodursi in contumelie nei confronti del mondo forse è sterile; pensarlo punto da morte e noi tutti scomparsi in esso, gli uffici delle grandi corporazioni invasi dalla vegetazione, dallo sterco di animali selvaggi, è una visione che ci dà una consolazione che il pensiero del Cristo redentore mai potrebbe offrirci dall'alto delle pale d'altare, nemmeno con congruo versamento di buoni postali fruttiferi al portatore. Ma non è abbastanza, poiché qui come altrove percepisco il nitore, il potere nutricante del nulla come strumento di conoscenza. Dell'annientamento del vivente come osceno infestatore di materia; la grande quiete dello spegnimento dell'agitarsi della biologia. Dunque vi sono indizi di ciò, una parola, una musica(?) come questa, e ne cogli lo scorrere nella dolina come d'una sapienza altra, con suoi libri mastri e profeti che la cantino in avanscoperta: una fenomenologia nemmeno mortale, poiché si tratta di qualcosa che va oltre la morte, poiché si apparenta al non aver diritto ad esserci e dunque porre il nudo collo sul ceppo inderogabilmente. Ad essa cosa pertanto mi abbevero; vi basta fino alla prossima mesata?
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