[American McGee's Alice & Hetalia] Vale of Tears, di Fiamma Drakon

Dec 04, 2011 16:18

SAFESLASHVale of Tears
una fanfiction su American McGee's Alice & Axis Powers Hetalia di Fiamma Drakon (fiamma_drakon)IT
Warning: Crossdressing, Crossover, OOC, AU.
"Adesso capiva almeno in parte il perché della sua affermazione di poco prima: di cadaveri, fino ad allora, non ne avevano visti neanche uno."

DISCLAIMER
(EN) Hetalia: Axis Powers is property of Hidekaz Himaruya and Gentosha Comics, American McGee's Alice is property of American McGee and Electronic Arts; no one makes money from this fanwork. None of what is written in this fanwork has happened or has to be considered true in any way; events and characters are fictional and in no way supposed to represent actual reality.
(IT) Hetalia: Axis Powers è proprietà di Hidekaz Himaruya e Gentosha Comics, American McGee's Alice è proprietà di American McGee e Electronic Arts; nessuno guadagna denaro a causa di questo fanwork. Niente di quanto è scritto in questo fanwork è accaduto o deve essere considerato vero in alcun modo; eventi e personaggi sono fittizi e non rappresentano in alcun modo la realtà.

La prima sensazione che ebbe nel risvegliarsi fu un forte dolore alla testa accompagnato da qualcosa di morbido al tatto sotto di sé, filiforme e sfuggevole tra le sue dita.
Inghilterra, frastornato, tentò di ricordare gli ultimi avvenimenti risalenti a prima che perdesse i sensi, ma non riuscì a rimetterne assieme molti: ricordava un lungo pozzo senza fondo disseminato di giocattoli rotti, tazze di thé, pianoforti e bambole, poi un’emicrania lancinante ed il vuoto.
Non era molto perché riuscisse a ricomporre le ultime esperienze vissute.
Arthur aprì gli occhi lentamente, disorientato, trovando innanzi a sé solo alcuni sprazzi d’erba disseminati su grosse pietre umide chiare, punteggiate qua e là anche da fiori dai colori sgargianti.
Non c’era niente di familiare in quel paesaggio. Nella sua mente tutto ciò evocava solo un senso di serenità precaria che si sarebbe mantenuta tale solo per pochissimo, sfociando poi in qualcosa di mostruoso.
L’impressione di qualcosa che da uno stato di calma assoluta passava istantaneamente a distruzione completa, invece, gli era dannatamente familiare.
Il rumore di acqua in movimento si fece lentamente spazio nel placido silenzio che lo circondava, rievocandogli alla memoria in un barlume improvviso una bigia radura di terreno sterile con una pozza d’acqua ed una cascata che bagnava una statua raffigurante una ragazza disperata in lacrime.
«Vale of Tears» fu la prima cosa che pensò, immediatamente.
Era un luogo che conosceva e nel quale era già passato una volta... molto tempo addietro. Un luogo che ricordava essere grigio e cupo, pieno di tristezza; adesso, invece, sembrava essere un luogo ameno - addirittura vi avrebbe voluto allestire un tea party...!
Era per quel cambiamento radicale che non aveva riconosciuto subito il posto.
Assieme alla consapevolezza di cosa quel luogo fosse arrivò anche quella di dove fosse: era tornato nel suo Paese.
Lentamente cambiò posizione e si mise carponi, guardandosi intorno: c’erano enormi tessere di domino, dadi e jack che fluttuavano a mezz’aria sopra un fiume che scorreva formando diverse cascatelle. Il terreno non era più brullo e sterile come nei suoi ricordi, ma rigoglioso d’erba verde, immensi fiori colorati e funghi enormi dai colori accesi e brillanti.
Gli occhi dell’inglese vagarono su ciò che lo circondava, affascinati, finché non caddero su se stesso e su ciò che indossava: non era più abbigliato come quando si trovava a Londra, bensì indossava una curiosa tutina azzurra con una piccola gonna a calice rovesciato che gli arrivava fin sopra le ginocchia. Sarebbe stato un capo d’abbigliamento oltraggiosamente femminile per i suoi gusti se non fosse stato per i pantaloni aderenti che nascondeva, i quali arrivavano fino metà delle cosce. Le maniche erano rigonfie e si chiudevano a metà del braccio con un pezzetto di stoffa rigida che serviva a mantenerne la forma.
Sopra all’abito portava un grembiulino bianco che gli ricopriva il petto interamente. Le spalline erano corredate - così come il grembiule che gli copriva buona parte della gonna - da un margine di flessuoso e femminile volant. Sarebbe stato anche un abbigliamento normale, in un certo senso, se non fosse stato per le macchie di sangue secco che aveva sparse sul tessuto bianco e per i simboli magici che aveva ricamati in nero sulle due tasche del grembiulino.
Le gambe erano rivestite con un paio di calze a righe bianche e nere ed ai piedi calzava un paio di grossi e pesanti stivali neri di cuoio alti fino a metà polpaccio e dotati - nel tratto dalle caviglie in su - di consecutive e spesse fibbie di metallo.
Dal collo, inoltre, vide che gli pendeva un ciondolo raffigurante un ferro di cavallo.
Era un indumento che in altri casi avrebbe definito incoerente e disgustoso, ma che in quel frangente particolare non gli creò alcun disturbo, perché un tempo l’aveva già indossato.
«Continui a sembrare ridicolmente femminile con quel vestito, ihihih...» esclamò in tono di scherno una voce maschile e vagamente miagolante che Kirkland riconobbe subito.
Quest’ultimo volse la testa dietro di sé, trovandosi ad osservare un ragazzo in piedi alle sue spalle, le braccia incrociate sul petto.
Portava gli occhiali, era biondo e tra i capelli facevano capolino, ai lati della testa, due grosse orecchie di gatto grigie bucate sulla parte inferiore dei lobi. Dall’orecchio sinistro pendeva un anello dorato che scintillava lugubre nella luce.
Il giovane indossava logori abiti grigi: una maglia larga e cadente ed un paio di pantaloni altrettanto larghi. Attorno al collo portava una leggera sciarpa dello stesso colore della quale un lembo pendeva sul suo petto.
Dietro di lui, Arthur scorse una lunga coda flessuosa e scheletrica ondeggiare piano.
Gli occhi azzurri dei giovane erano rivolti al suo sedere, che osservava sorridendo compiaciuto.
«Cos’hai da guardare, micio?» sbottò in tono abbastanza irritato Kirkland, affrettandosi a mettersi in piedi.
«Proprio niente, sto aspettando che tu sia pronto» replicò l’altro, osservandolo finalmente in faccia.
Inghilterra arrossì alquanto nel ricambiare lo sguardo: durante la sua ultima “gita” nella follia di quel luogo, tra loro era nata una relazione sentimentale alquanto... stretta. Non se ne era dimenticato, nonostante tutto il tempo che era trascorso da quando aveva fatto ritorno a casa, e probabilmente - anzi, sicuramente - nemmeno lui l’aveva fatto.
Era stato un rapporto controverso data la natura del posto, però Arthur non negava di aver sperimentato cosa fosse seriamente l’amore, almeno per quel breve periodo.
«Che cosa ci fai qui, America?» domandò, inarcando incuriosito un sopracciglio.
Lo Stregatto scrollò le spalle.
«Questo è il mio paese natale, Inghilterra» sospirò con fare ovvio, scomparendo «Piuttosto, è una sorpresa riavere te qui nel Wonderland. Proprio in questo momento» aggiunse ricomparendo alle sue spalle, appoggiandogli la testa sulla spalla, miagolando l’affermazione nel suo orecchio.
Arthur l’allontanò in malo modo con una gomitata, arretrando.
«Non ho idea del perché sia qui. Pensavo d’aver chiuso con questa faccenda... e con te» sbottò in risposta.
«E perché, scusa? Questo è il tuo Paese delle Meraviglie» disse America fissandolo dritto negli occhi con una logicità che - sotto svariati punti di vista - aveva dell’inquietante a dir poco «Anche se adesso... be’, sì... ci sono di nuovo dei problemi».
«Problemi?» ripeté Arthur, perplesso: l’ultima volta che era stato lì aveva detronizzato la Regina Rossa ed aveva salvato sé stesso dalla pazzia. Se si era liberato dall’incubo costante di poter far ritorno al manicomio di Rutledge, quello lo doveva solamente alla propria lotta disperata contro la tirannia della Regina.
L’unico “sintomo” di pazzia che gli era rimasto erano le “allucinazioni” di bestioline alate più o meno amorfe che ogni tanto aveva camminando per le strade di Londra, ma le considerava ormai come cose normali, abituato a vedere creature ben peggiori di quelle.
Aveva anche imparato a proprie spese a tenere il becco chiuso in merito ad esse, onde evitare spiacevoli incontri con strizzacervelli piuttosto inclini a rimedi violenti contro la pazzia.
«Niente che ti riguardi... o forse sì? Be’, in ogni caso, posso pensarci io» fece il gatto, dandosi arie d’importanza «Dopotutto, io sono l’eroe!».
«Ah!» lo sbeffeggiò ironico Arthur «Eroe, tu? Non farmi ridere! Non sai far altro che dare consigli idioti su cose che sono già ovvie in sé e per sé! Sei completamente inutile!».
Alfred emise un soffio irato.
«Abbiamo tirato avanti qui anche senza di te! Adesso che c’è un nuovo male che sta distruggendo il Paese torni e pretendi d’essere acclamato?! Ah! Non hai la minima idea di cosa sia la Rovina, qui!».
Il britannico sbatté le palpebre con perplessità, osservando Alfred che incrociava con aria sostenuta le braccia sul petto e lentamente diventava evanescente, pronto a sparire un’altra volta.
Il cervello di Inghilterra, benché avesse seguito tutto il discorso, si era soffermato solo sul “c’è un nuovo male che sta distruggendo il Paese”.
Il suo Wonderland era nuovamente in pericolo...? A causa di cosa?
La Regina Rossa non poteva essere tornata al potere, perché - in caso contrario - i segni della sua tirannia sarebbero stati visibili fin da lì: la Valle delle Lacrime che ricordava sotto il dominio della Regina era perennemente immersa nella foschia e non vi cresceva niente.
Solo in un secondo momento realizzò nel suo complesso l’intero discorso di America ed esclamò con fare sprezzante: «La tua non è solo mania di grandezza, ma anche stupido senso d’abbandono!».
L’ultimo pezzo di America che era rimasto - ossia la testa e poca parte delle spalle - disparve senza replicare né voltarsi, lasciando Inghilterra da solo nella foresta.
«Tsk! Stupido!» esclamò quest’ultimo, girandosi ed avviandosi verso il ponticello situato a qualche decina di metri da dove lui si trovava.
Grazie ad esso oltrepassò il fiume e poté iniziare ad esplorare quella nuova Valle.
Più procedeva all’interno del bosco, più si domandava quale nuova minaccia incombesse sul Paese delle Meraviglie, ma soprattutto dove fosse la distruzione cui aveva accennato il gatto: intorno a lui le piante crescevano rigogliose, il fiume scorreva sereno e tranquillo e la luce del sole illuminava l’ambiente, rendendo tersa l’aria.
Se ci fosse stata della distruzione, di certo ne avrebbe visti i segni fin dai suoi primi passi là dentro.
«Forse era solo uno scherzo di pessimo gusto. Se la sarà presa perché l’ho lasciato qui da solo senza dirgli niente...» ragionò tra sé e sé.
Eppure, anche se non vedeva niente di ciò che avrebbe dovuto, riusciva a sentire che c’era qualcosa che non andava: percepiva in sé una strana sensazione di disagio e frustrazione, rabbia anche.
C’era qualcosa fuori posto, ma non riusciva a capire cosa.
Gli alberi continuavano a crescere rigogliosi, il sole splendeva e non c’era niente di distrutto né di fatiscente; ciononostante, la sensazione di rabbia e disagio che aveva dentro persisteva.
«Se non c’è niente, perché sono tornato qui? America non può avermi chiamato, perché questo è il mio Wonderland» commentò a mezza voce, osservando i dintorni con espressione ammirata e concentrata.
Mise un piede avanti e lo ritrasse d’istinto nel non avvertire niente a sostenerlo, abbassando al contempo il capo verso il suolo innanzi a sé: sotto di lui si snodava uno scivolo lungo e tortuoso.
«Cosa...?».
«Sei quasi arrivato, Inghilterra».
L’inglese sobbalzò e si spostò di scatto nel sentire il peso della testa di Alfred ricomparirgli sulla spalla.
«Dannazione, smettila di apparirmi addosso!» si lamentò Arthur.
Il gatto lo osservò intensamente, poi sparì di nuovo.
«Ora però me lo devi spiegare, sai?».
La sua voce risuonò attorno a Kirkland precedendo l’ennesima apparizione di Jones, che prontamente gli afferrò i polsi e lo attirò a sé.
«Perché hai abbandonato il Paese?» domandò mesto, avvicinando il viso al suo «E non voglio scuse, ma la verità».
Troppo serio. Lo sguardo di America in quel momento era qualcosa che Inghilterra non aveva mai visto comparirgli sul volto fino ad allora. Era un’espressione così greve da stridere completamente con l’aria un po’ ingenua, allegra ed energica che aveva di solito.
«Il Paese delle Meraviglie era salvo. Non avevo più nessun motivo di rimanere... e lasciami andare!» replicò fervente il britannico.
«Invece c’ero io. Non si abbandonano gli eroi senza dir niente» replicò l’americano, dandosi arie di grand’importanza, piegandosi sull’altro in modo da farlo flettere leggermente all’indietro.
«Tsk! Non farmi ridere, eroe...».
«Come sei cattivo, io non ti ho fatto niente!» borbottò Alfred, imbronciato.
Prima che potesse dire o fare qualcosa - qualsiasi cosa - Arthur sentì le labbra dell’altro posarsi sulle sue, cercando di stimolare una qualche reazione da parte sua.
L’aveva aspettato nel Paese delle Meraviglie per tutti quegli anni senza mai avere occasione per riuscire a parlargli, ma non aveva mai smesso di amarlo, era evidente - e lui che pensava che i gatti fossero gli animali più volubili del mondo...!
Era diventato più strano in quel periodo in cui lui era stato assente, ma fondamentalmente era sempre la stessa persona, quella che si rendeva conto perfettamente di amare ancora.
Arthur rispose al bacio lasciandogli intravedere il proprio amore nei suoi confronti, il piacere che provava per quel bacio benché inatteso. Lo Stregatto premette il proprio corpo sul suo petto, dimostrandogli tangibilmente il suo desiderio di rimanere uniti.
Purtroppo ci mise un po’ troppa energia ed Inghilterra finì con lo sbilanciarsi all’indietro e cadere, trascinandosi dietro anche Alfred.
Con un tuffo al cuore l’inglese sentì il vuoto accoglierlo ed il peso del biondo sopra di sé spingerlo verso di esso.
Lanciò un grido che fu smorzato da uno sbuffo di dolore nell’attimo in cui la sua schiena cozzò violentemente con la liscia e dura superficie dello scivolo. Come se già l’impatto in sé e per sé non fosse stato abbastanza doloroso, l’americano gli piombò addosso con il suo non indifferente peso, mozzandogli di netto il fiato per qualche istante.
«America spostati! Mi fai male!» sbottò il britannico, cercando di toglierselo di dosso, ma con scarsi risultati.
«Inghilterra, girati!» esclamò America terrorizzato: dalla sua posizione aveva modo di vedere dove stessero andando e la cosa non era proprio piacevole, dato che era sdraiato addosso ad una persona che era completamente inerte.
«Cosa credi che stia cercando di fare?!» proruppe inviperito «E togli quel ginocchio da laggiù, dannazione! Avrò anche la gonna, ma sono un maschio!».
Alfred obbedì solo alla seconda parte dell’ordine, troppo occupato a soffiare spaventato nel vedere che stavano scivolando a rapidità impressionante verso un bivio.
Se non si fossero spostati alla svelta dal punto dove si trovavano - cioè, se Inghilterra non avesse cambiato in fretta rotta - sarebbero precipitati giù dallo scivolo. Dove sarebbero finiti - e soprattutto se ci sarebbero arrivati vivi - il gatto non voleva saperlo.
«Inghilterra girati!! Guarda dove vai!» esclamò con più urgenza, un sentore definito e forte di paura nella voce, cominciando a strattonarlo per le spalle.
Dopo qualche secondo di tira e molla, l’americano riuscì inspiegabilmente a voltare Arthur dalla parte giusta e quest’ultimo si mise seduto, così da poter vedere il percorso.
Il felino si accucciò terrorizzato contro il suo petto, nascondendo il viso nella sua spalla, affidandosi interamente ai suoi occhi e alle sue capacità.
Kirkland se lo strinse addosso per evitare che gli creasse qualche problema muovendosi, quindi si sbilanciò con forza verso sinistra, riuscendo ad incanalarsi nell’andito secondario ed evitare di sbattere contro il margine rialzato.
La discesa terminò poco più giù ed Inghilterra dovette fare un salto piuttosto energico per riuscire ad atterrare in piedi nonostante stesse tenendo tra le braccia America.
Appena ebbe toccato terra, tuttavia, le ginocchia gli cedettero per il peso dell’americano, che si affrettò a lasciar cadere al suolo per rialzarsi.
«Ahio!» si lamentò quest’ultimo, rimettendosi in piedi, massaggiandosi il sedere.
«Dove siamo finiti...?» domandò invece il britannico senza considerare minimamente il suo commento, guardandosi attorno camminando: in alto gli alberi erano sempre verdeggianti ed i pezzi di giochi erano sospesi in aria come prima, ma poteva percepire come un impalpabile velo attorno a quel luogo, qualcosa di... macabro.
Era un sentore differente da quello di prima. Era come se avessero appena varcato il limite che divideva l’ameno dall’orripilante.
Oltre quel punto aveva seri dubbi in merito al panorama che gli si sarebbe parato innanzi: aveva il presentimento che non avrebbe trovato altri scenari simili a quello ammirato fino ad allora.
Il gatto, rimasto dietro di lui, tremò da capo a piedi.
«La Rovina è vicina...» esclamò esitante ed impaurito, avvicinandoglisi.
«Rovina?» ripeté perplesso Inghilterra, voltandosi a guardarlo: era la seconda volta che chiamava in causa quella “rovina”. Ciò significava senz’altro che era quella la causa dell’improvviso timore del compagno; nonostante questo, non riusciva a spiegarsi perché America si riferisse alla rovina come se fosse qualcosa dotato di vita propria: la parola indicava in sé e per sé un concetto astratto ed era sinonimo di distruzione e disfatta.
Possibile che nel Paese delle Meraviglie assumesse tutt’altro significato...?
Nel voltarsi ed incrociare il viso dell’americano, Kirkland vide che i suoi occhi erano dirottati altrove, verso un punto vicino ai suoi piedi. Seguendo la traiettoria di esso, Arthur si accorse d’essersi fermato sul margine di un tratto di fiume in cui scorreva acqua colorata di rosso scuro.
Di sangue ne aveva già visto scorrere tanto durante i suoi trascorsi al manicomio e nel suo precedente viaggio nel Paese delle Meraviglie, eppure vederne altro, così vicino a lui, gli creò un senso di repulsione tale da farlo sobbalzare all’indietro.
«Sangue?»
«Qui è dove è morto il Jabberwocky» rivelò Alfred rabbrividendo sensibilmente, voltandosi da un’altra parte, indicandogli uno spiazzo poco lontano al cui centro giaceva, su una roccia nuda circondata da una pozza di acqua e sangue, lo scheletro di una grossa creatura.
Adesso capiva almeno in parte il perché della sua affermazione di poco prima: di cadaveri, fino ad allora, non ne avevano visti neanche uno.
Da lì avrebbero senz’altro iniziato a vedere i problemi.
«È solamente uno scheletro, non ti farà niente. Anche se questo è un posto strano, i morti non possono resuscitare» commentò sarcastico Kirkland, avviandosi per primo verso i resti della creatura. Con la coda dell’occhio scorse il felino abbassare le orecchie e gettare un’occhiata diffidente attorno a sé.
Sembrava temesse d’essere visto da qualcosa; ciononostante, lo seguì verso lo scheletro, anche se avanzava con passo incerto, senza staccare gli occhi dal circondario.
Era diverso dal gatto impiccione, vitale e chiacchierone che aveva conosciuto. Qualsiasi cosa fosse accaduta a Wonderland durante la sua assenza, non doveva essere stato niente di bello né da vedere né tantomeno da vivere, se era stato capace di trasformarlo così: nel momento in cui aveva avvertito la vicinanza della “rovina”, era diventato più vigile e serio.
«Devo risolvere questa faccenda, di qualsiasi cosa si tratti. Vederlo così è troppo... strano. Semplicemente inquietante» rifletté l’inglese, esaminando di sottecchi il compagno. Gli voleva ancora bene nonostante la lontananza, più di quel che pensava o che avrebbe comunque dato ad intendere con le azioni e vederlo così lo faceva soffrire.
Assieme attraversarono la distanza che li separava dal cadavere del Jabberwocky e solo quando furono discretamente vicini ad esso Inghilterra riuscì a scorgere il manico e parte della lama d’argento di un coltellaccio conficcato nel cranio della bestia.
«E questo...?» chiese, avvicinandosi all’arma con curiosità.
«È la tua Lama Vorpale. L’hai lasciata qui quando te ne sei andato, ricordi...? Sai, dovresti prenderla: con i tempi che corrono, servirà senz’altro di più nelle tue mani che infilata in... quella testa» commentò America, esitando un poco nell’ultima parte della frase.
Non gli piaceva particolarmente dover parlare di cadaveri: lo disgustavano, oltre a fargli paura - una peculiarità piuttosto singolare considerato che viveva in un mondo dove la sopravvivenza, nella maggior parte dei casi, si conquistava con l’uccisione del più debole.
«La Lama Vorpale...?» ripeté Arthur, afferrando il manico ed estraendo l’arma con forza, esaminando la lama e sfiorandone delicatamente il filo: tagliava ancora bene, come se l’avesse affilata appena poche ore prima.
«La ricordavo più simile... ad una spada» confessò un po’ deluso e perplesso, impugnando il coltellaccio a mo’ di sciabola, muovendola nell’aria tracciando linee immaginarie.
La lama fendette l’aria con sibili agghiaccianti che fecero venire i brividi all’americano. Era un bene che Inghilterra avesse i mezzi per difendersi, ma nel figurarsi quel coltello fare a brandelli sottili la Rovina dovette tenere a freno l’immaginazione, vinto dal ribrezzo.
«Inghilterra!».
Il richiamo fece voltare l’interpellato: America era in uno stato di parziale evanescenza, segno che aveva intenzione di scomparire da un momento all’altro per l’ennesima volta.
«Te ne vai?» domandò il britannico.
«Non voglio che la Rovina mi trovi. Ho già avuto a che fare con il treno e non è stato piacevole» rispose il gatto, criptico.
«Stai scappando, quindi? Lo dici sempre anche tu, no? Gli eroi non scappano» lo prese in giro l’altro, sorridendo beffardo.
Adesso menzionava anche un treno. Possibile che non riuscisse ad essere chiaro fin da subito?!
A quello, però, avrebbe pensato dopo: in quel momento la sua attenzione era concentrata tutta sulla paura evidente del ragazzo.
Vedendo quell’aria di sfida nei suoi occhi, lo Stregatto tornò a prendere consistenza innanzi a lui assumendo una bellissima espressione offesa.
«Cos’è, hai cambiato idea? Mi accompagni da questa rovina?» domandò con inflessione divertita Arthur.
«Sì! Io sono un eroe!» si vantò Alfred, poi gli si accostò velocemente e gli prese la mano, stringendosi a lui mentre lo conduceva verso un antro nella roccia per il quale evidentemente si procedeva, visto che era l’unica strada che si parava loro innanzi.
«Però... non lasciarmi indietro» aggiunse.
«Cercherò di non farlo» gli promise Kirkland in tono esasperato, già sapendo che quella non sarebbe stata una promessa che avrebbe potuto mantenere a lungo nel caso avessero incontrato quella tanto odiata rovina lungo la strada.
Purtroppo, svanire era un brutto vizio dello Stregatto.

!issue: squee 03, fanwork: writing, author: fiamma drakon, fandom: mcgee's alice, fandom: hetalia, rating: safe

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