Titolo: Grandine
Autore:
chibi_saru11 Beta: ///
Fandom: Pokemon (HGSS Game!Verse)
Personaggi: Green Oak; Red (mentzionati Daisy Oak, il Professor Oak, la madre di Red - no, seriamente, ma ce l'ha un nome 'sta povera crista? - e Gold)
Pairings: Green/Red
Rating: PG13
Avvertimenti: Slash
Word: 11281 (FiDiPua)
Riassunto: A volte Green si sentiva solo, sì. Ma questo non voleva dire nulla.
Note:
1. Allora, io vorrei ricordare a tutti un paio di cose: Ho basato questa storia su HGSS (Heart Gold and Soul Silver) che continua dagli avvenimenti, come saprete, di Yellow. Non di FRLG. Dunque Red ha un Pikachu (gli altri pokèmon della sua squadra sono Charizard, Snorlax, Venusaur, Blastoise e non ricordo se Lapras o Espeon). Non ricordo che pokèmon avesse Green nel gioco, ma so che non aveva un Eevee e mi sono unita al fandom inglese nel pensare che ce l'ha ancora il suo Eevee, semplicemente non lo usa.
Per concludere questa storia è molto più riguardo a Green e alla sua evoluzione che al Green/Red per davvero. Sono una Green!bitch till the end, che ci vogliamo fare.
2. Per il prompt Neve @ COW-T
maridichallenge Disclaimer: Pokemon non è mio. Se lo fosse sarei una persona felice e incredibilmente ricca, oh hell yeah. E purtroppo niente di tutto questo è vero, o io sarei THE VERY BEST LIKE NO ONE EVER WAS.
Red vinse lo scontro alla fine; fino all’ultimo secondo, all’ultimo istante, Green pensò che sarebbe stato lui a vincere - almeno quella volta.
Era sempre stato più veloce di Red, più reattivo - aveva battuto i capi palestra prima di lui, aveva battuto i super quattro prima di lui, era diventato campione prima di lui - ma Red, alla fine, lo raggiungeva sempre.
Per poi superarlo.
Era snervante, e Green sentì la rabbia montare dentro di lui, furente, e guardando il viso inespressivo dell’altro qualcosa dentro di lui esplose.
«Non è giusto» disse, digrignando i denti e Red non disse nulla - e davvero, quando mai diceva qualcosa, quello?
Suo nonno arrivò poco dopo e portò Red nell’altra stanza, tessendo le sue lodi. In quella stanza che, poco prima, era di Green. In quella stanza che fino a poco prima era dedicata a lui, maledizione.
Perché Red, alla fine, gli toglieva proprio tutto.
Aveva lavorato a lungo per riuscire a raggiungere quel titolo, più di quanto avesse mai fatto in vita sua, e la prima volta che aveva varcato le soglie della palestra - della sua palestra - aveva sorriso, Eevee che si strusciava al suo fianco. E sì, quel posto era suo, incredibilmente e solamente suo.
E nessuno avrebbe potuto toglierglielo. Nessuno.
«Uii?» Gary guardò il pokèmon, gli occhi scintillanti, più vivi che in qualsiasi altro momento il piccolo Eevee potesse ricordare.
«Ti piace, Eevee? Questa sarà la nostra casa da ora in poi» e Eevee non sapeva ancora se le piacesse davvero - aveva un odore strano e poco familiare, di battaglie avvenute prima che loro ci avessero mai messo piede, di pokèmon che non conosceva e piani che avevano aiutato a fermare.
Eevee non sapeva se quel posto le piacesse, ma Green la guardava con uno sguardo felice e rilassato e il pokèmon adorava quello sguardo e se ci voleva una palestra per farlo apparire? Eevee avrebbe imparato ad adorare anche quel posto.
Il lavoro non finì, però, quando riuscì finalmente a diventare capo palestra. Anzi, tutto il contrario.
Bambini che gli ricordavano tanto se stesso - un tempo, prima che due occhi rossi gli si ponessero di fronte - si presentavano di fronte a lui con sogni e speranze e Green li guardava impegnarsi e sudare e non importava il risultato. Green era soddisfatto.
Lottare gli piaceva, era la parte che preferiva, ma essere un capo palestra non voleva certo dire solo questo: doveva allenare gli allenatori che venivano da lui per poter lavorare nella palestra, doveva incontrare gli altri capo palestra di ogni regione per discutere di politica e decisioni estremamente noiose.
E doveva continuare ad allenarsi.
Green non aveva mai smesso di allenarsi, mai, non importava cosa stesse succedendo nella sua vita, allenare i pokèmon, vederli diventare più forti dopo ogni singolo incontro, plasmare il loro cammino, era qualcosa a cui Green non avrebbe rinunciato mai.
Un’altra cosa che nessuno avrebbe mai potuto togliergli.
E poi tornava a casa, quella vera, con un letto e una cucina e tutto il resto, e si buttava sul divano, Eevee appollaiata sul suo stomaco e si sentiva appagato. Contento.
E non stava rincorrendo nessuno, né nessuno stava rincorrendo lui, ed era stranamente liberante essere fermo in un solo punto.
Liberante, ma a volte Green non poteva fare a meno di sentirsi un po’ solo.
Suo nonno lo veniva a trovare spesso, ma Green ce l’aveva ancora un poco con lui, a volte, per quel giorno alla lega. Era solo un leggero risentimento, la gelosia di un bambino di 10 anni che si chiedeva perché suo nonno facesse il tifo per qualcun altro.
Ormai Green era grande e indipendente e, la maggior parte delle volte, riusciva a mettere da parte questi pensieri, altre volte il risentimento tornava, forte come il primo giorno e voleva solo rinfacciargli quanto l’avesse ferito.
Sua sorella si era trasferita a Smeraldopoli, per stargli più vicino e Green l’andava a trovare spesso, grato per la compagnia.
Non aveva nemmeno troppi problemi a trovare un altro genere di compagnia quando aveva voglia, era un capo palestra, era stato, anche se per pochi devastanti minuti, il campione della lega e sapeva di essere bello.
Green non conduceva una vita solitaria e non c’era alcun motivo al mondo per cui avrebbe dovuto sentirsi solo.
Eppure a volte succedeva, quando suo nonno nominava quel dannato monte o sua sorella tirava fuori le vecchie fotografie di quando era piccolo in cui due stupidi occhi rossi, un po’ più espressivi di quanto ricordasse, lo guardavano fisso. O quando, tra le curve di una donna, Green non riusciva a trovare qualcosa che lo appagasse completamente.
A volte Green si sentiva solo, sì. Ma questo non voleva dire nulla.
Green non ci pensava spesso a Red, non volontariamente.
Sua sorella l’aveva informato del fatto che ora si trovasse sopra il Monte Argento, ad allenarsi o qualcosa di simile. Green aveva riso, riso così tanto fino a farsi male allo stomaco.
Ovviamente Red gli aveva preso il titolo, quello per cui Green aveva lottato con più tenacia, per poi abbandonarlo come fosse spazzatura. Ovviamente Red gli aveva strappato dalle mani la cosa a cui teneva di più per un semplice capriccio.
Non aveva detto niente di tutto quello a sua sorella, né alla madre di Red (che era un poco più stanca ogni volta che l’andava a trovare, che portava malamente nel suo sguardo la preoccupazione per quel figlio campione di pokèmon), ma a volte pensava che i suoi sentimenti trasparissero dal suo sguardo, visibili a chiunque si fosse concentrato abbastanza per cercarli.
Il problema era che a nessuno importava.
Dalla finestra della sua camera da letto aveva una chiara visuale del monte e a volte si chiedeva - in quelle giornate fredde, in cui la neve cadeva copiosamente persino a Smeraldopoli - come vivesse Red lassù. Come potesse sopravvivere.
Poi Eevee lo chiamava, strofinando il musetto sulla sua gamba e il momento era svanito, così come le sue fantasticherie.
Non gli importava come vivesse quel bastardo, non gli interessava nemmeno se fosse vivo o meno.
Green aveva una vita ora, una vita che non si basava su una stupida rivalità. Non ricordava di essere mai stato così felice.
Ma come tutte le cose belle della sua vita, Red voleva anche quella (la sua felicità) e quando Green tornò a casa e vide il Charizard di Red (e non c’erano dubbi che fosse il suo, Green l’aveva visto così tante volte che ormai lo conosceva bene quasi quanto i suoi stessi pokèmon) davanti alla sua porta, sentì la rabbia ribollirgli nelle vene.
Improvvisamente aveva di nuovo dieci anni e il suo migliore amico gli aveva appena strappato di mano il suo sogno. E Green odiava Red, lo odiava così tanto, perché anche dopo anni riusciva a fargli provare le stesse identiche sensazioni.
Quando il pokèmon lo vide si avvicinò a lui e Green fece un passo indietro, meccanicamente. Non gli interessava cosa volesse da lui, non voleva avere nulla a che fare con Red, non di nuovo.
Il pokèmon si fermò allora, piegando la testa di lato.
Non era probabilmente giusto, non era colpa di quel Charizard se Green non riusciva a controllarsi quando si trattava di Red, ma in quel minuto non stava pensando razionalmente. Non stava pensando affatto.
Eevee, appostata sulla sua spalla, saltò giù, avvicinandosi all’altro pokèmon e prendendo il piccolo foglio di carta che questi teneva tra le mani.
Green guardò con sollievo il Charizard che, svolto il suo compito, si alzava in volo, allontanandosi da lì.
«Uiii?» chiese la piccola Eevee, strusciandosi contro la sua gamba. Green la prese in braccio, accarezzandole il pelo e cercando di ignorare il foglio che il pokèmon continuava a tenere in bocca.
Vieni diceva il foglietto. Nient’altro.
Red non era mai stato un bambino di molte parole e, in qualche modo, Green era cresciuto contornato dai suoi silenzi e dai suoi sguardi (che spesso dicevano molto di più di interi discorsi), ma quello era diverso.
Vaffanculo, Red, pensò Green, bruciando il foglietto dentro il camino.
Una settimana dopo la neve aveva ripreso a scendere, lenta, ricoprendo la cima del monte Argento di una sottile patina bianca. E Charizard era di nuovo davanti casa sua.
«Dì al tuo allenatore che non ho intenzione di scattare ai suoi comandi,» gli sibilò contro questa volta. Ora che sapeva che cosa volesse Red - anche se non sapeva perché Red volesse che Green salisse nel suo nascondiglio.
Charizard abbassò la testa, piegando la coda e Green si sentì un verme. Stava tremando leggermente e Green si rese conto che, probabilmente, pur essendo Charizard un pokèmon di fuoco, tutto quel freddo e quell’umidità non dovevano fare bene alla sua coda.
Ancora una volta Eevee saltò dalle sue spalle, prendendo il biglietto di Charizard e questo volò via, prima che Green potesse dire altro.
Vieni diceva il biglietto, anche quella settimana.
La penna utilizzata per scriverlo era probabilmente scarica e Green si chiese se Red avesse qualcosa da fare, lassù, oltre ad allenarsi. Leggeva riviste? Faceva le parole crociate? Che cosa faceva là su tutto il giorno?
Green bruciò anche quello.
Quando erano più piccoli ed erano ancora migliori amici, Green aveva provato per un’intera settimana a forzare Red a parlare. Continuava a chiedergli domande, lo portava al karaoke, gli chiedeva di leggergli interi libri ad alta voce…
Era una fissazione e quando Red gli aveva chiesto perché lo facesse, perché insistesse così tanto, Green aveva detto la verità: «Perché mi piace la tua voce.»
Red aveva cominciato a parlare di più, a poco a poco, e il piccolo Green - che vedeva in Red tutto il mondo - si era sentito incredibilmente fiero di quel fatto.
È merito mio, avrebbe voluto urlare quando Red diceva “Sì” invece di limitarsi ad annuire o quando Red formava frasi che contenevano più di sei parole.
Anni dopo, quando lui e Red non si sarebbero quasi più rivolti la parola, la voce di Red - un po’ roca, ma rilassante - sarebbe stata la cosa che gli sarebbe mancata di più.
Eevee spesso rimaneva a guardare durante gli incontri ufficiali, osservando l’eccitazione negli occhi del suo allenatore.
Fremeva dalla voglia di scendere in campo, di muoversi seguendo gli ordini di Green, ma sapeva che c’era una buona ragione per cui il suo allenatore non la mandava in campo.
Lei e Green si erano allenati assieme per anni (Eevee si era innamorata di lui fin dalla prima volta che l’aveva visto, quando aveva ancora dieci anni e la stringeva come fosse un tesoro troppo prezioso) e nonostante le apparenze, Eevee poteva facilmente sconfiggere Arcanine o un altro qualsiasi dei pokèmon di Green.
«Non sarebbe giusto,» le diceva spesso, facendole dei piccoli grattini alle orecchie. Eevee sapeva che era vero e sapeva anche che Green l’avrebbe usata in una sola battaglia, contro un solo allenatore.
A volte Eevee vedeva Green guardare verso il monte Argento, lo sguardo perso nel vuoto, e sapeva che l’avrebbe mandata in campo molto presto.
Il terzo biglietto gli venne recapitato allo stesso modo e così il quarto e poi il quinto (anche se a distanza di giorni l’uno dall’altro).
Green non riusciva a capire. Perché mai stava insistendo tanto? Perché voleva che Green salisse da lui così disperatamente? Perché pensava che Green avrebbe fatto quello che voleva?
La sesta volta che Charizard atterrò davanti alla sua porta, Green non era andato in palestra. C’era una tormenta di neve fuori e aveva deciso di chiudere la palestra per una giornata. Chi mai sarebbe stato così pazzo da mettersi in marcia con quel tempo?
Ovviamente Red. Ovviamente Red. Perché Red viveva per mandare in bestia Green, per prendere tutte le sue aspettative e spazzarle via con un attacco Raffica.
Era frustrante e Green aprì la porta di casa nascondendo il viso dentro la sciarpa.
«Siete pazzi?» chiese, urlando e prima che il pokèmon potesse limitarsi a consegnare la lettera e andarsene - come ogni altra volta - Green lo trascinò dentro. «No, tu non te ne vai fino a che questa bufera non si placa,» gli disse (ringhiò contro era un termine più appropriato, ad essere onesti).
Charizard doveva stare un poco piegato per non sbattere la testa sul soffitto della casa, ma a Green non importava, era comunque meglio che volare durante la bufera.
Prese dei poffin che aveva messo da parte e ne diede un poco ad Eevee e un poco a Charizard, sperando di essersi ricordato per bene a quali sapori corrispondevano i vari colori. Se non era così, Charizard non ne diede alcun segno.
«Non potevi aspettare domani?» gli chiese, sospirando e lasciandosi cadere sulla sedia, improvvisamente stanco. Era stata una settimana pesante in palestra e a Green non era mai piaciuta la neve.
Charizard scosse la testa e Green ridacchiò (perchè ovviamente non avrebbe potuto, era un pokèmon di Red, aveva la sua stessa testardaggine).
Nevicava quasi ininterrottamente da un mese, comunque (almeno sulla montagna), e probabilmente anche se avesse aspettato un giorno non sarebbe cambiato molto.
Smeraldopoli non era, generalmente, una città molto nevosa, ma per un mese ogni anno diventava praticamente il villaggio dei Delibird o qualcosa di simile.
I bambini adoravano questo fatto, ma a Green non era mai piaciuta troppo la neve - il suo silenzio, il modo in cui sembrava inghiottire tutto quello che aveva intorno.
Sospirò, guardando verso dove Eevee e Charizard stavano dormendo.
Erano passate delle ore e, finalmente, il cielo stava cominciando a schiarirsi - beh, a Smeraldopoli almeno, non sapeva se la tempesta stesse continuando su quel picco di montagna in cui Red si era rintanato - e si alzò, cercando di non fare troppo rumore per non svegliare i due pokèmon.
Non c’era motivo per cui Charizard sarebbe dovuto ripartire immediatamente - sembrava stanco, accucciato in un angolo del salotto (e grazie al cielo Green aveva sistemato la sua casa per poter accogliere, all’occorrenza, pokèmon di qualsiasi dimensione). Probabilmente non riposavano molto, anche se Green davvero non sapeva cosa avrebbero mai potuto fare lì sopra - non sembrava esattamente un ambiente che offriva la possibilità di coltivare molti hobby.
Eevee si svegliò immediatamente, muovendo le sue piccole orecchiette e raggiungendo il suo allenatore in un secondo (era sempre così con lei, Green non poteva fare tre passi senza ritrovarsela addosso. Non gli dispiaceva, era calda e il suo profumo era familiare) la prese in braccio, appoggiandosela sulle spalle.
«Perché lo sta facendo, secondo te?» le chiese, a bassa voce, ma Eevee era confusa quanto lui.
Preparò del tè, cercando di pensare ad altro, ma il biglietto appoggiato sul tavolo della cucina continuava a saltargli agli occhi come fosse stato un Magikarp troppo agitato.
E fu allora che Green prese la sua decisione.
Quando Charizard ripartì, mezzora più tardi, Green gli riconsegnò lo stesso foglietto di carta che aveva recapitato.
Se ci tieni tanto, vieni tu, c’era scritto nella calligrafia sistemata di Green. Charizard lo lesse e annuì, prima di prendere il volo.
Green non voleva pensare al perché lo avesse fatto, a cosa volesse poter dire.
Non gli interessava e se ne stava già pentendo, maledizione.
Quando Green aveva dato un pugno a Red era stato più un gesto dettato dall’invidia e dalla confusione, dalle lacrime che continuavano a salirgli agli occhi.
Quella sarebbe dovuta essere la sua giornata. Il nonno avrebbe dovuto guardare in quel modo Green; Green e non Red, maledizione.
Se fossero stati più grandi, se Green non avesse avuto bisogno del riconoscimento della sua famiglia in maniera così spasmodica, forse niente di tutto quello sarebbe accaduto. Forse ora sarebbero ancora amici, ma non era così.
E quando Green aveva visto Red tenere in mano il premio per il miglior allenatore (era un torneo organizzato da suo nonno, con i pokèmon che lui stava studiando e maledizione, Green li conosceva tutti così bene quei pokèmon, avrebbe dovuto vincere lui!) non era riuscito a controllarsi.
Raramente ci riusciva quando si trattava di Red.
Il punto era che Green non pensava davvero che l’altro si sarebbe presentato, ma sperava almeno che questo l’avrebbe zittito, che non avrebbe più dovuto accogliere pokèmon mezzi congelati in casa.
Effettivamente aveva avuto l’effetto sperato dato che, quella sera, tornando a casa, non trovò Charizard ad aspettarlo, ma Red.
Red vestito troppo leggero per il freddo che faceva, con il suo maledetto pokèmon accovacciato in grembo.
E «Cosa ci fai qui, Red?» chiese, cercando di scacciare quella sensazione di soffocamento che gli attanagliava la gola.
Red alzò lo sguardo verso di lui (ed era neve quella sopra il suo cappello? Ma non nevicava da quella mattina e… lo stava aspettando da quella mattina?) ma non disse nulla, non che Green si fosse aspettato altro.
Sbuffò, togliendosi la sciarpa e lanciandola verso l’altro «Copriti, mi fai sentire freddo di riflesso,» gli disse, prendendo le chiavi di casa dalla tasca del giubbotto ed aprendo la porta.
Eevee si era avvolta sul suo collo immediatamente, a sostituire la sciarpa, e Green si rilassò a contatto con il pelo del pokèmon.
Perché era venuto davvero? Perché, maledizione?
In ogni caso, Green non era un cattivo padrone di casa e non avrebbe certo lasciato il suo ospite al freddo e al gelo, si disse, aprendo la porta e lasciando che Red entrasse in casa prima di lui, anche se ogni parte di lui urlava di mandarlo via, maledizione. Che niente di tutto quello sarebbe mai potuto finire bene.
Solitamente Green ascoltava quella parte del suo cervello - perché aveva sempre ragione, maledizione - ma per quella volta decise di zittirla.
Cattivissima mossa, certo.
Red non si era tolto la sciarpa, nonostante si fosse accucciato davanti al camino. Green non disse nulla, mentre si sedeva accanto a lui e gli allungava una tazza di infuso.
Era stanco, aveva combattuto tre bambini quel giorno (nessuno dei tre era riuscito a batterlo) e aveva fatto fare una sessione di allenamento intenso ai ragazzi che si allenavano nella sua palestra, semplicemente perché poteva e perché, magari, si era svegliato più nervoso del solito.
Poteva sentire la stanchezza grattargli le palpebre chiuse, ma il rumore del respiro di Red, regolare e stabile, non gli permetteva di rilassarsi a dovere. Ogni volta che si voltava verso di lui sentiva tutte le domande ritornare a galla, prepotenti e dolorose.
Si morse il labbro. Una, due, tre volte, cercando di fermare le parole dall’uscire dalla sua bocca come una valanga.
Perché sei qui? Perché non ti sei vestito, idiota? Perché sei sparito? Perché non parli con tua madre? Perché quei maledetti biglietti? Perché, Red? Te ne andrai di nuovo?
Erano troppe domande e Green trasse un profondo respiro.
«Perché sei qui, Red?» chiese pacatamente. Era una domanda sensata, aveva tutte le ragioni per chiederlo, no?
Red si voltò verso di lui, la tazza quasi appoggiata alle labbra.
«Mi hai detto tu di venire…» rispose semplicemente. Green avrebbe avuto voglia di dargli un pugno, ma non lo fece.
Era una persona diversa ora, una persona più matura.
«L’ho fatto perché…» cominciò, prima di fermarsi e passarsi una mano sugli occhi, stancamente «cosa significavano quei bigliettini, Red? Cosa…»
Red scosse le spalle e Green sapeva che non avrebbe risposto - o meglio, che secondo la sua concezione quel movimento era una risposta abbastanza esauriente. Era troppo stanco per tutto quello, troppo stanco.
Si alzò in piedi, dunque, sentendosi lo sguardo di Red addosso.
Non aveva le forze per avere a che fare con l’altro, per scacciare la sua rabbia e la sua solitudine e tutte quelle altre cose che non provava mai, se non quando pensava a Red.
«Io vado a letto,» annunciò, prendendo un paio di coperte dalla credenza e lasciandole sul divano. «Tu puoi dormire qui, o tornare sulla montagna o… fai quello che vuoi,» disse, aspettando che Red annuisse prima di girarsi e andarsi a chiudere in casa.
Non stava scappando, stava solo recuperando le forze per attaccare l’indomani. Se Red fosse stato ancora lì, certo.
Red era ancora lì, addormentato sul suo divano.
Aveva le ginocchia strette vicino al corpo, le coperte cadute durante la notte a terra e il viso nascosto contro il cuscino. Pikachu dormiva accanto a lui, il muso nascosto dalla coda.
Green raccolse la coperta prima ancora di rendersene conto e gliela sistemò di nuovo addosso.
Non voleva dire nulla, però, quel gesto. Non voleva dire nulla, quindi Eevee poteva anche smettere di guardarlo a quel modo.
Green era sempre stato una persona mattiniera - anche prima di diventare capo palestra. Gli piaceva la mattina e adorava l’aria fresca delle prime ore del giorno, fresca e pulita.
Red, invece, era tutto il contrario. Quando erano piccoli Green lo andava a svegliare alle nove saltandogli sul letto perché, fosse stato per l’altro, avrebbe continuato a dormire fino almeno alle undici.
Green ridacchiò al ricordo, prendendo i guanti ed uscendo fuori - doveva spalare almeno un po’ di neve prima che riprendesse a scendere - Eevee che, annoiata, aveva preso a rincorrere un Furret che si era nascosto lì vicino, sperando di trovare un po’ di riparo dal freddo.
Era una bella mattinata e, se Green si concentrava, poteva anche dimenticare l’ospite che dormiva rannicchiato sul suo divano. Quasi, almeno.
Si sarebbe pensato che Red, con le sue poche parole e i suoi silenzi, fosse una persona facilmente dimenticabile - una di quelle persone che non lasciano un’impressione duratura, ma un ricordo flebile. In realtà Red sembrava sempre attirare l’attenzione di tutti, come una calamita.
Era impressionante il modo in cui il mondo intero sembrasse piegarsi verso Red. Impressionante e così soffocante.
Se Green, quel giorno, spalò con molta più forza di quella necessaria, nessuno se ne rese conto.
Red era già in piedi quando Green era tornato in casa, poteva giurare di averlo visto mentre lo guardava spalare (e avrebbe anche potuto aiutare, il maledetto).
Era vestito esattamente coma la sera prima - troppo leggero per il tempo - e Green si rese conto che, effettivamente, era venuto senza una borsa, senza nulla.
Che cosa voleva dire? Che voleva andarsene subito? Che non aveva nemmeno un vestito lassù? Era così difficile comprendere cosa gli passasse per la testa.
Sospirò dunque, facendo segno a Red si sedersi nel divano, prima di prendere posto nella poltrona.
Aveva voglia di una tazza di caffè fumante, ma avrebbe aspettato.
«Red, voglio che mi rispondi seriamente, almeno a questa domanda per ora, il resto può aspettare,» disse, guardando mentre l’altro annuiva.
Red sembrava un poco sulla difensiva, come se sapesse che Green si stava semplicemente controllando, che era una bomba pronta ad esplodere da un momento all’altro. Red era stato sempre molo bravo a capirlo, dopotutto.
Green sospirò e pensò che, probabilmente, avrebbe dovuto chiedere qualcos’altro, che avrebbe dovuto spingerlo a rispondere alla domanda della sera prima. La verità, però, era che non ne aveva realmente il coraggio.
«Quanto resterai?» chiese dunque, guardando gli occhi rossi di Red tentennare per un secondo. «Qualche giorno? Una settimana? Ho bisogno…» ho bisogno di saperlo, ho bisogno di capire se devo riaggiustare la mia vita per riammetterci la tua presenza, avrebbe voluto dire, ma si morse il labbro per bloccarsi.
«Una settimana?» Red non sembrava convinto della sua risposta e continuava a guardarlo come se non sapesse come muoversi, come se avesse paura. Green si limitò ad annuire.
«Ma non hai vestiti,» osservò, perché non pensava certo di rimanere vestito in quella maniera per una settimana, giusto?
«A casa di mamma…» fu la risposta dell’altro e Green annuì.
«Sì, dovresti andarla a trovare, era preoccupata per te,» disse prima di alzarsi e andarsi a fare finalmente quel caffè. Se qualcuno non sapesse come era fatto Red avrebbe trovato quella conversazione insoddisfacente.
Green non ricordava l’ultima volta in cui Red avesse usato così tante parole (okay sì, lo ricordava: era stato alla lega pokèmon, anni ed anni prima e Green odiava ricordare quel giorno) e come quando era piccolo, il pensiero di essere stato lui a spingerlo a parlare lo rendeva fiero ed orgoglioso di se stesso.
Quando realizzò quello che aveva appena pensato, Green abbassò la testa e chiuse gli occhi. Non avrebbe dovuto pensare cose simili, maledizione.
Lui aveva superato Red, aveva lasciato al passato tutti i suoi sentimenti e ora, ora che aveva una vita - una vita che non comprendeva in alcuna maniera il suo ex-migliore amico - non c’era più spazio per tutte quelle sensazioni. Non c’era più spazio per nulla.
A Red piaceva sempre infilarsi dove non c’era più spazio, però.
Red ritornò quella sera con una borsa piena di vestiti e un cappotto rosso che dava l’impressione di essere incredibilmente caldo.
Green aveva passato tutta l giornata alla palestra e, una parte di lui, aveva sperato che Red decidesse di rimanere da sua madre - dopotutto non vedeva la donna da anni e sarebbe stato normale, no? Ovviamente Red non faceva mai nulla di normale.
«Stava bene tua mamma?» gli chiese, per educazione, mentre preparava da mangiare. Red aveva annuito, senza dire nulla e aveva continuato a guardarlo.
Un tempo Green era abituato a quegli occhi (profondi ed intensi), ma ora non poteva fare a meno di sentirsi nudo sotto lo sguardo inquisitorio del ragazzo. Non avrebbe dovuto sentirsi nervoso, non avrebbe dovuto sentire nulla, maledizione.
Gary era un uomo ora, era un capopalestra; il suo nome veniva riconosciuto in tutta Kanto e probabilmente anche Johto e Red non aveva più alcun potere su di lui.
O almeno era quello che gli piaceva pensare.
Improvvisamente sentì del movimento al suo fianco e si accorse che Red si era mosso, senza che Green se ne rendesse conto, e ora stava accanto a lui con delle uova e una padella in mano.
«Non… posso anche cucinare da solo,» mormorò senza troppa convinzione, ma Red scosse la testa e lo spinse un poco, occupando il fornello più a destra.
Green abbassò lo sguardo confuso, mentre Red cominciava a preparare una frittata.
Avrebbe potuto chiedere cosa stesse facendo (e no, non intendeva la frittata, cosa stesse facendo lì) ma le parole non riuscivano ad uscirgli dalla gola.
Dunque chiuse gli occhi e riprese a cucinare.
A volte, nel movimento, le loro spalle si sfioravano leggermente e Green si sentiva sempre un po’ nervoso ed eccitato quando succedeva - il che era incredibilmente stupido, maledizione - e presto si ritrovarono a cucinare spalla a spalla.
Red non aveva detto nulla, ma a Green non importava particolarmente.
Il giorno dopo Green decise di prendersi un giorno di vacanza - ovviamente se fossero arrivati degli sfidanti sarebbe stato rintracciabile al pokè-cell - svegliò Red alle nove di mattina, come quando erano piccoli e il mondo sembrava molto meno complicato di quanto fosse ora, e lo costrinse ad andare a trovare il nonno.
Oak era a Plumbeopoli per collaborare con il museo sul ritrovamento di un prezioso fossile e quando aveva visto Red l’aveva abbracciato con forza.
Green li aveva guardati cercando di ignorare i graffi della gelosia che continuavano a distruggerlo; cercando di essere felice per suo nonno (di non pensare che fosse ingiusto come lui non riuscisse a fargli fare quello sguardo di pira adorazione) e per Red (che non sapeva più cosa fosse - se il suo rivale o il suo ex-migliore amico o il suo attuale migliore amico - ma che era comunque qualcuno di importante).
Non aveva fatto un buon lavoro, ma Green non era mai stato una persona perfetta, una di quelle persone generose che si vedono solo nei film. Non aveva fatto un buon lavoro a trattenere tutte le sue emozioni negative, ma almeno ci aveva provato.
Probabilmente era abbastanza.
Tornando Green si era attardato un poco, godendosi la bella giornata (il sole che finalmente era tornato ad accarezzargli il viso) e la neve che cominciava a sciogliersi, rivelando il prato che vi era stato sotterrato sotto. Il bosco Smeraldo era tornato pieno di vita, con Ledyba e Butterfree che volavano sopra le loro testa. E Green preferiva quelle giornate a quelle fredde e bianche che portava la neve.
«È bello, vero?» chiese a Red, improvvisamente - e non sapeva nemmeno a cosa si stesse riferendo, se al tempo o a quel silenzio pacato in cui erano caduti. Forse entrambi.
«Sì,» aveva risposto Red, e Green registrò che non si era limitato ad annuire, che l’aveva detto ad alta voce e rise, senza alcun motivo.
La sera non parlavano mai molto, seduti al tavolo della camera da pranzo di Green mentre mangiavano quello che avevano preparato insieme. Infatti, in quella settimana in cui Red era rimasto a casa sua, Green non ricordava avessero mai parlato di qualcosa in quei momenti.
A volte pensava fossero i momenti migliori.
S’imparava a rispettare il silenzio stando con Red, ad apprezzarne le sfumature ad ispezionarne i contorni. Ogni silenzio era diverso da un altro, ogni sguardo un nuovo messaggio da interpretare e Green si sorprese di quanto facile gli venisse capire Red.
Riusciva a comprendere cosa gli volesse dire, cosa volesse esprimere. Ed era una sensazione strana e bella allo stesso tempo. Era una sensazione inebriante quando Green si rendeva conto che nessun’altro, intorno a loro, capiva il campione di pokèmon se non lui.
E si era meritato almeno quel titolo, aveva lottato per quel privilegio come non aveva mai lottato in vita sua. Era l’unica cosa che Red non avrebbe mai potuto togliergli, probabilmente.
L’unica cosa su cui non aveva potere.
L’unica cosa che lo spaventava davvero - ma questo Green non poteva saperlo.
Eevee adorava stare sulle spalle di Green perché le permetteva di vedere il mondo dalla prospettiva del suo allenatore, di comprendere con più facilità cosa provasse, cosa lo facesse emozionare. Cosa lo ferisse.
Sapeva qualsiasi cosa ci fosse da sapere del suo allenatore, spesso ancora prima che lui stesso se ne rendesse conto. Sapeva che a Green non piaceva rimanere a letto troppo a lungo, che non gli piacevano quei tre ragazzini della palestra che continuavano a spingere i loro pokèmon troppo in là.
Sapeva che Green adorava il suo lavoro, la sua palestra; che provava una specie di orgoglio quando uno dei tanti allenatori lo batteva, come se questo lo rendesse parte della crescita evolutiva della nuova generazione.
Sapeva che a volte Green si sentiva solo, chiuso dentro le mura della sua casa e che nemmeno il suo pelo sotto le sue mani riusciva a placare il dolore cocente al petto.
Sapeva che Green provava rabbia e invidia e odio, che non era un essere umano perfetto, che aveva i suoi difetti. Eevee lo amava comunque.
Lo amava per chi era e per chi si sforzava di essere, ma soprattutto lo amava per chi cercava di non essere. Amava quella parte di lui che Green continuava a nascondere al mondo, quella parte fragile ed insicura che nessuno riusciva mai a raggiungere.
Quindi Eevee voleva proteggerlo; era normale, no? Volere proteggere il proprio allenatore era l’istinto primario di un qualsiasi pokèmon. Ed Eevee sapeva che Red avrebbe ferito il suo Green.
L’avrebbe ferito come aveva fatto già così tante volte in tutti quegli anni e Eevee non sapeva come fermare quella valanga. Non sapeva cosa fare.
Non si fidava di Red, non avrebbe mai potuto, ma allo stesso tempo non poteva nemmeno odiarlo perché, nonostante tutto, Eevee sapeva anche che Green adorava Red.
Anche se Green stesso non lo sapeva.
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