Probabilmente c’erano lavori molto più prestigiosi del suo, certo: avrebbe potuto essere un avvocato, o un medico, o un ingegnere o una spia assoldata da compagnie super segrete per rubare segreti così importanti che avrebbero potuto cambiare le sorti del mondo.
Invece faceva l’agente immobiliare e vendeva case alle persone.
Non un lavoro particolarmente appassionante o importante o niente del genere. Ad Arthur semplicemente piacevano le case.
Suonava male, ma la verità era che ad Arthur piacevano gli edifici, qualsiasi edificio. Gli piaceva prendere le case che vendeva e scoprirne ogni punto di forza, ogni debolezza e poi cercare di renderle perfette agli occhi del cliente.
Non gli piaceva solo la parte architettonica o la parte decorativa, gli piaceva tutto l’insieme completato. Gli piaceva vedere la casa a lavoro compiuto, perfetta, e le facce felici delle persone mentre l’acquistavano. Gli piaceva vedere le case che venivano costruite dalle fondamenta, seguire la loro evoluzione passo dopo passo e scoprirle a poco a poco, mentre venivano create. E da questo erano derivati tutti i suoi problemi, a dire il vero.
«Stanno costruendo una villa in periferia, Arthur,» gli stava dicendo Dom, il suo capo, facendo sbattere la penna sulla scrivania ritmicamente e creando una specie di melodia «voglio che ti occupi di venderla tu, quando sarà completata, ti va bene?»
Lo chiedeva come se Arthur avrebbe mai potuto dire di no. La loro non era una compagnia molto grande, anzi. I principali venditori, quelli bravi, erano solo due - loro due, precisamente. Un tempo c’era anche Mal, ma Arthur non ne parlava e Dom cercava di dimenticare.
Dom non aveva più venduto nemmeno una casa dal giorno in cui Mal l’aveva lasciato (perché Dom non era più quello di un tempo, perché aveva perso la sua vena artistica, perché non disegnava più). Arthur lo capiva e lo rispettava, ma a volte gestire l’azienda tutto da solo diventava pesante.
«Non c’è problema, Dom,» rispose però, sebbene non si prendesse una pausa da mesi e mesi e non ricordasse l’ultima volta in cui aveva dormito per più di quattro ore in una sola notte «dimmi solo dove devo andare e me ne occuperò io.»
Dom era stato il suo migliore amico, il suo mentore, e se aveva bisogno di lui Arthur non si sarebbe tirato indietro.
Era pura lealtà quella che spingeva Arthur a recarsi verso quella maledetta villa invece che a casa a leggere un buon libro con un bicchiere di vino in mano.
A dire il vero avrebbe potuto chiedere a Nash di occuparsene, certo, ma avevano bisogno dei soldi e Nash non era esattamente un venditore vincente: si dimenticava dei dettagli, troppo distratto per prestare loro la dovuta attenzione. Una villa, se venduta alle giuste persone e costruita bene avrebbe potuto portare un bel po’ di soldi all’agenzia.
E loro ne avevano davvero davvero bisogno.
Arthur non aveva chiesto a Dom di che tipo di villa si trattasse; aveva immaginato una di quelle solite ville mediamente grandi che piacevano tanto alle famigliole con almeno tre figli ed un cane. Forse avrebbe dovuto chiedere meglio.
Non si trovava più in periferia, ma quasi in aperta campagna, in uno dei quartieri fuori Los Angeles che nell’ultimo periodo, sebbene la posizione isolata, erano diventati estremamente famosi tra i ricchi americani stanchi della routine della città, e se la strada per arrivare al cantiere era un’indicazione non parlavano di mediamente ricchi, ma incredibilmente ricchi. Non-so-davvero-che-farmene-di-questi-soldi ricchi, apparentemente.
Il posto era incantevole, da togliere il fiato, e vista la posizione sarebbe venuta a costare, al prossimo proprietario, decisamente un bel po’ di soldi.
Arthur parcheggiò accanto ad altre macchine, probabilmente appartenenti ai lavoratori del cantiere. Avrebbe dovuto andare a presentarsi immediatamente, forse, era buona educazione - almeno all’architetto che era a capo della costruzione - ma la sua curiosità ebbe la meglio e prima di dirigersi verso la postazione dell’architetto decise di guardarsi un po’ in giro.
La villa era su una collina, circondata da campi d’erba e alberi sporadici e all’orizzonte si vedevano giusto una o due ville, ma non abbastanza vicine da creare alcun problema.
Era un luogo stupendo, davvero, una casa che Arthur, ad averne i mezzi, avrebbe preso senza pensarci due volte solamente per il paesaggio.
Era perso nei suoi pensieri, immaginando già i possibili acquirenti per una villa del genere, e quindi almeno una parte della colpa era stata probabilmente sua, certo, ma solo una minima, minuscola, trascurabile parte di colpa, perché la maggior parte di essa fu completamente del cretino che gli venne addosso con una trave, colpendolo in testa.
Arthur era stato parecchie volte in un cantiere e non gli era mai capitato di essere colpito in testa da una trave, mai. Sembrava importante specificarlo.
Cadde a terra, tenendosi la testa e subito qualcuno gli fu accanto parlandogli con un accento strano.
«Tutto a posto? Mi dispiace!» stava dicendo, ma Arthur era appena stato colpito in testa da una fottuta trave e non aveva certo voglia di essere magnanimo.
«Le dispiace? Poteva fare davvero del male a qualcuno! È questo il livello di sicurezza qui in giro?» chiese, arrabbiato, mentre cercava di rimettersi in piedi da solo. Si toccò la testa, cercando di capire i danni. Non era stato un colpo particolarmente forte, sarebbe sopravvissuto. Alla botta, non a quel tipo davanti a lui.
«Non sono io quello che va in giro senza elmetto ad ammirare il paesaggio, tesoro,» stava dicendo il deficiente con un sorriso sul viso. Apparentemente Arthur lo divertiva.
«Tes-? Oh, lasciamo perdere, non ho alcuna voglia di continuare questa conversazione,» concluse, cominciando a camminare mentre l’uomo lo guardava andare via preoccupato.
«Sei sicuro che non dovremmo controllare la tua testa, tesoro?» chiese, facendo come per seguirlo.
«Sto benissimo! E per Dio, non mi chiamo tesoro, mi chiamo Arthur,» sbraitò, allontanandosi il più velocemente possibile.
Ariadne era l’architetto a capo del progetto. Era una ragazzina persino più giovane di Arthur che sorrideva così tanto che era pure quasi riuscita a far sorridere Arthur di riflesso. Quasi.
«Quindi, ha già in mente qualcuno a cui venderla?» gli chiese, ad un certo punto, mentre Arthur osservava le carte del progetto - gli piaceva fare cose simili, gli sarebbe anche piaciuto essere un architetto, ma non aveva mai avuto la capacità di creare dal nulla cose del genere. Non come Ariadne e non come Dom.
«Ho qualche idea,» rispose, mentre, in realtà, solo un nome gli balenava alla mente. C’erano poche persone che potevano permettersi una spesa del genere e tra di loro Arthur pensava che quella villa potesse incontrare i gusti di Saito, un imprenditore giapponese che aveva creato una piccola - ma neanche tanto - fortuna una volta trasferitosi in America. Il luogo sembrava perfetto, ma forse… «non sarebbe però possibile rendere il tutto un po’ più… classico?» . La villa sembrava perfetta, ma per Arthur - e probabilmente anche per un uomo con i gusti di Saito - c’erano un po’ troppe componenti architettoniche innovative, che rovinavano la perfetta armonia tra l’edificio e la tranquillità del luogo.
Si rese conto troppo tardi che la sua osservazione non sarebbe, probabilmente, stata accolta bene. Era abituato a fare queste piccole osservazioni quando andava a visitare una casa e per questo si era inimicato parecchi degli architetti che lavoravano nel circuito. Avrebbe davvero preferito non mettersi Ariadne contro fin da subito.
Alzò lo sguardo verso la ragazza, che lo stava guardando come se stesse, evidentemente, cercando di non ridere. Arthur davvero non capiva perché tutti, lì intorno, pensassero che fosse così divertente.
«Cosa? » chiese allora, portandosi una mano al viso - magari aveva qualcosa sulla fronte? Un po’ di polvere o…
«No, no, nulla è solo… le persone normalmente non sono così… dirette,» disse, ridacchiando. Non sembrava arrabbiata, non davvero, ma Arthur realizzò che magari avrebbe dovuto scusarsi comunque.
«Mi dispiace, io…» provò, mentre Ariadne rideva di nuovo.
«Non devi scusarti! In molti la pensano come te, ma…» e prima che Ariadne potesse completare quello che stava dicendo qualcun altro si intromise.
«…ma dovresti vedere il progetto finito prima di commentare, Ari è la migliore, sai?» e mentre Arthur si voltava sapeva già chi avrebbe trovato. Il deficiente di prima sorrideva, a qualche passo da loro, e Arthur stava quasi per urlargli addosso, ma si trattenne e si aggiustò la cravatta, invece, perché dopo l’uscita di prima forse avrebbe fatto meglio a trattenersi.
«Stavo semplicemente pensando ai gusti dei clienti,» rispose, cercando di convogliare in quelle parole tutta la sua ostilità. L’altro lo trovò divertente, ma Arthur stava cominciando ad abituarsi.
«Quindi tu sei l’agente, mh? Venderai questo gioiello?» chiese e Arthur annuì.
«Farò del mio meglio, sì,» e quando lui si metteva d’impegno non falliva mai. Un po’ per testardaggine, un po’ perché era il migliore.
L’uomo annuì e poi portò una mano in avanti, aspettando che Arthur la stringesse. A dire il vero ne avrebbe fatto volentieri a meno - non solo quel tipo non gli piaceva, ma aveva anche le mani sporche e Arthur non avrebbe voluto macchiare la giacca - ma gliela strinse comunque.
«Il mio nome è Eames,» disse l’altro e Arthur stava per presentarsi, quando Eames riprese a parlare «e tu sei Arthur, tesoro, me l’hai detto prima.»
«Sono sicuro di averti anche detto di non chiamarmi tesoro,» supplì, ma Eames si limitò a sorridere.
«Quella parte deve essermi sfuggita!» Arthur avrebbe potuto arrabbiarsi, ma sarebbe stato poco professionale.
Si tirò indietro voltandosi di nuovo verso Ariadne. «Bene, grazie per la disponibilità, sono certo che troveremo un cliente. Verrò più avanti per controllare lo stato dei lavori e…»
«Ma come, non vuoi vedere come sta andando?» lo interruppe improvvisamente Eames, e Arthur respirò un paio di volte, cercando di calmarsi.
«Non fa parte del mio lavoro…» cominciò, mentre Eames rideva.
«Nemmeno venire qui ad ispezionare il progetto, eppure…» e non aveva torto, ma Arthur non voleva rimanere lì un solo minuto di più. Quel posto lo metteva a disagio e non era solo per Eames e quel suo sorriso strafottente. Era anche Ariadne e quella sua risata contagiosa. Arthur non c’era più abituato, non da quando Mal…
Poi qualcuno gli mise qualcosa sulla testa, e Arthur aprì gli occhi di scatto - apparentemente doveva stare davvero attento a non perdersi nei suoi pensieri in quel posto, succedevano cose strane quando lo faceva - e si rese conto che Eames gli aveva infilato un casco.
«Avanti, cosa ti costa?» chiese, e che cosa importava a lui se Arthur visitava il sito o no? Hm? Avrebbe voluto chiederglielo, ma Ariadne lo affiancò, il suo caschetto arancione in testa, e gli sorrise.
«Andiamo, signor Agente Immobiliare, così le mostro cosa ho in mente sul campo,» e a quel punto Arthur non riuscì a trovare una scusa per dire di no.
Ariadne era appassionata del suo lavoro, era evidente, e mentre parlava e descriveva ad Arthur come doveva venire un muro o un soffitto i suoi occhi risplendevano di mille colori. Arthur poteva quasi vedere, attraverso le sue parole, l’intera villa già costruita. Ed era bellissima.
Anche quei particolari che non l'avevano convinto immediatamente - per gusto personale, più che altro, - ora sembravano una parte integrante della casa, perfetti assieme a tutto il resto. Era incredibile e Arthur non vedeva l’ora che la villa fosse conclusa per poter finalmente ammirare il tutto.
Eames li aveva lasciati quasi un’ora prima, quando era diventato ovvio che Ariadne non avrebbe smesso di descrivere ogni singolo centimetro della villa molto presto, e quando, una volta finito il tour, Arthur si stava preparando ad andarsene, non era in vista - non che Arthur lo avesse cercato particolarmente bene, aveva solo lanciato uno sguardo sommario.
«Allora, Arthur, che ne dici?» gli chiese alla fine Ariadne, mentre le ridava il casco.
«Penso che sarà facile venderla, quando sarà finita,» rispose, seriamente, «è un progetto incredibile, i miei complimenti.»
Ariadne arrossì per i complimenti e Arthur quasi le sorrise per la quinta volta quel giorno. Non regalava complimenti, non era il tipo, ma sapeva riconoscere il talento di una persona e Ariadne aveva talento. Forse più di quanto Dom ne avesse mai avuto.
Le strinse la mano - mentre lei lo guardava confusa senza dire nulla - e si rimise in macchina di buon umore.
Almeno fino a che, il giorno dopo, non realizzò di aver lasciato le copie che aveva fatto dei piani della casa al cantiere.
Non ne aveva bisogno immediatamente - a dire il vero non ne aveva nemmeno strettamente bisogno, poteva scrivere il rapporto anche solo con quello che ricordava - ma Arthur non era uno stacanovista solo per modo di dire.
Da una parte avrebbe preferito non tornare in quel posto, con tutte quelle persone che gli facevano venire voglia di sorridere e mostrare emozioni - non era abituato a fare cose simili da un po’ di tempo a quella parte - dall’altra la parte perfezionista di lui stava davvero davvero soffrendo.
Dom non gli disse nulla mentre se ne andava - dopotutto non c’era poi molto da fare in ufficio quel giorno, Arthur aveva già concluso in anticipo ogni suo precedente impegno - e prima ancora di rendersene conto stava parcheggiando la macchina nello stesso posto del giorno prima.
Quando lo vide Ariadne saltò sul posto, quasi correndogli incontro - non era molto professionale, avrebbe voluto dirle, né sicuro, ma ad Arthur non dispiaceva poi così tanto - «Arthur! Cosa ci fai qui? Pensavo…»
«Ho dimenticato la mia copia dei piani, ieri,» le spiegò, mentre Ariadne spalancava gli occhi e correva a prendere i piani scusandosi come se fosse colpa sua.
«Di nuovo qui, tesoro?» disse qualcuno, dietro di lui, «e di nuovo senza casco protettivo…»
«Oh, per favore, Eames, non siamo nemmeno vicini al cantiere!» sbottò, mentre l’altro rideva. E no, Arthur non pensava proprio nulla di quella risata. Anzi sì, la trovava insopportabile, ecco.
«Non pensavo saresti tornato, tesoro, non riuscivi a starmi lontano?» e sembrava proprio che Eames fosse assolutamente impermeabile a qualsiasi sua occhiataccia, davvero. Nessuno era mai rimasto così tanto poco impressionato dalle sue occhiatacce, modestia a parte erano occhiate davvero spaventose.
Prima che potesse rispondere, però, Ariadne tornò con i mano i fogli e Arthur si sentì in colpa per averla fatta andare al posto suo.
«Arthur, ho preso tutto!» disse, ansimando leggermente, come se l’avesse fatto di corsa - si sentiva in colpa, davvero in colpa - «oh, Eames! Arthur aveva dimenticato delle fotocopie che aveva fatto ieri!»
Eames annuì, ma c’era una luce strana nei suoi occhi, come se stesse pensando qualcosa che, Arthur ne era certo, non gli sarebbe piaciuta per nulla.
«Ehi, Ari, ma non dovresti fare vedere ad Arthur le modifiche?» chiese Eames ad Ariadne, mentre la ragazza si voltava verso Arthur come se avesse appena ricordato la cosa più importante del mondo.
«Eames ha assolutamente ragione! Arthur, Arthur, ieri mi hai fatto venire un’idea geniale, devi vederla!» urlacchiò, prendendolo per il braccio e cominciando a trascinarlo.
Arthur provò a dire qualcosa - “Ariadne, devo tornare… devo fare il rapport… non ho il casco!” ma l’altra non lo ascoltava nemmeno e quando finalmente si fermarono Arthur sentì di nuovo qualcuno mettergli il casco sulla testa.
«Ti rendi conto che posso mettermi il casco anche da solo, vero?» chiese ad Eames, giusto per essere sicuro, mentre l’altro sghignazzava divertito.
«Eppure continui a non farlo! È come se volessi costringermi a prendermi cura di te, ah?» e a questo punto Arthur gli pestò il piede, perché se lo era meritato.
Ariadne aveva cambiato un arco, apparentemente, uno di quelli che portava dal salone alla sala d’ingresso ed era meraviglioso, persino meglio di quello che c’era prima. Ariadne diceva che era stato lui a farle venire l’idea, il giorno prima, ma Arthur non ricordava di aver mai detto nulla che avrebbe potuto suggerire qualcosa del genere.
«Io cambio spesso i miei progetti, piccole cose, certo… è un mio difetto,» disse, arrossendo «quindi quei piani potrebbero subire delle piccole variazioni. Potrei magari chiamarti per dirtelo?»
Arthur avrebbe voluto dirle che non gli interessava, in realtà, se si facevano dei piccoli cambi. Per il suo lavoro non cambiava poi molto, ma non ebbe davvero il cuore di dirle niente e le diede il suo numero; dopotutto, che male poteva fare?
Apparentemente molto molto male.
Il disastro avvenne due giorni dopo e Arthur non sospettò di nulla fino all’ultimo secondo. Aveva finalmente finito di redigere il rapporto ed era pronto a consegnarlo a Dom per togliersi tutta la questione dalle spalle quando il suo cellulare trillò.
“Arthur! Ho bisogno del tuo aiuto! Ariadne.” c’era scritto nel messaggio e Arthur aggrottò le sopracciglia.
“Che succede? Arthur.” rispose, posando poi il cellulare vicino e ricominciando a leggere il rapporto per essere sicuro che non ci fossero errori grammaticali - lo infastidivano pesantemente, dopotutto. La risposta arrivò dopo qualche secondo.
“Devi venire subito, ti prego! Ari.” e Arthur guardò il messaggio per qualche secondo, chiedendosi cosa dovesse fare, esattamente. Non sembrava fosse una situazione di vita o di morte, ma forse era successo qualcosa… forse c’era qualcosa che non andava con la casa o forse…
Potevano esserci mille spiegazioni e magari Arthur avrebbe dovuto ignorarla e continuare a leggere e cerchiare in rosso i pochi errori di distrazione che trovava. Fatto sta, però, che esattamente cinque minuti dopo uscì dall’ufficio - senza che Dom gli dicesse nulla nemmeno quel giorno - e si infilò in macchina, dirigendosi verso il cantiere.
Non sapeva perché lo stesse facendo. Per il suo lavoro, gli piaceva pensare, ma non era così stupido e sapeva perfettamente quando il suo cervello cercava di mentire a sé stesso. Era un meccanismo difensivo, probabilmente, ma Arthur era in guardia persino verso il suo stesso subconscio, non si era mai fidato troppo di sé stesso.
Quando parcheggiò la macchina si recò subito verso la postazione dell’architetto, dove Ariadne stava camminando, nervosamente, avanti e indietro senza sosta.
«Ariadne, ehi, cosa…» cominciò, prima che la ragazza si voltasse verso di lui e si illuminasse in viso.
«Arthur, oh grazie al cielo! Ho bisogno di te, loro sono inutili,» urlò, mentre indicava Eames ed un altro uomo seduto poco più in là, che si guardarono con rassegnazione e non provarono nemmeno a ribattere. «Legno di mogano o legno di acero?»
Arthur sbatté due volte le palpebre, cercando di registrare. Si voltò verso Eames e lo sconosciuto, cercando in loro un qualsiasi tipo di spiegazione, ma entrambi scrollarono le spalle. Quindi cercò di capire cosa gli fosse stato chiesto, senza riuscirci.
«Ariadne, scusa, ma di cosa stai…» cominciò, prima che lei lo bloccasse di nuovo, sbuffando.
«La libreria, Arthur! Che tipo di legno usiamo per la libreria?» Arthur fece giusto un passo indietro, perché Ariadne sembrava un po’ pazza e a lui non piaceva particolarmente avere a che fare con i pazzi.
«…mi hai chiamato qui per il legno da usare nella libreria?» chiese, incapace di concentrarsi su altro. Lui aveva un lavoro e okay, magari il suo lavoro era quella casa ma… ma era comunque un lavoro che doveva svolgere lontano da lì e…
«È inutile tesoro, se ci fosse un qualche modo di farla smettere l’avremmo già provato,» gli bisbigliò Eames, mettendosi accanto a lui, mentre Ariadne si voltava di nuovo a guardare il progetto.
«Che cosa è successo, esattamente?» chiese, bisbigliando anche lui.
«È arrivata l’arredatrice e Ari è diventata pazza, » supplì lo sconosciuto e Arthur si rese conto che non si erano ancora presentati. Gli porse la mano, dunque, annuendo.
«Arthur, sono…» cominciò, ma venne interrotto per la terza volta in dieci minuti.
«L’agente immobiliare, sì, ho sentito parlare di te. Sono Yusuf, il capo cantiere,» si presentò l’altro, mentre Eames rideva.
«Non credergli, è il barista in realtà!» disse, «fa dei cocktail che neanche ti immagini.»
Arthur guardò Yusuf per cercare di capire se se la sarebbe presa, ma l’altro si limito a ridere ancora più forte. Un grave grave sbaglio.
«Sono contenta che la questione vi diverta così tanto, davvero. Quando la casa sarà un disastro perché la libreria non c’entrerà assolutamente nulla allora vedremo!» urlò contro di loro Ariadne, mentre teneva in mano i due esempi.
Arthur era bravo in questo genere di cose; era stata Mal ad insegnargli come fare, a mostrargli quali colori stavano meglio assieme e i pregi di ogni tipo di legno. Gli mancava Mal, ma lei non aveva mai cercato di mettersi in contatto con lui e Arthur l’aveva accettato.
Avanzò, prendendo il campione di legno di acero. «Questo, si intona meglio con le pareti,» disse infine, mentre Ariadne apriva la bocca e poi la richiudeva.
«È quello che ha detto anche l’arredatrice, ma non trovi che il mogano sia più sofisticato? Forse il nostro cliente preferirebbe…» ma Arthur scosse la testa in segno di diniego.
«Il nostro cliente preferirebbe una libreria intonata con le pareti,» e conoscendo Saito era probabilmente vero.
Ariadne sembrò calmarsi, all’improvviso, e gli sorrise, mentre si voltava e prendeva il campione di legno d’acero.
«Sapevo che eri la persona giusta da chiamare, grazie Arthur,» e poi lo abbracciò - così, dal nulla - e se ne andò trotterellando. Davvero poco professionale.
«L’ha calmata!» disse qualcuno, incredulo, alle sue spalle e Arthur si voltò per vedere Yusuf che lo guardava ammirato.
«Te l’avevo detto che era bravo,» rispose Eames, fiero. Fiero di che, poi, Arthur non lo capì. Sospirò, passandosi una mano sugli occhi e cercando di riprendersi da quell’esperienza surreale.
«Okay, io devo andare e…» ma Eames, Arthur si accorse troppo tardi, era già davanti a lui, elmetto in mano, e questo voleva dire solo una cosa.
«Non puoi andartene, tesoro! Hai fatto un giro con Ariadne della casa e non con me! Potrei ingelosirmi!» disse, mettendosi, per l’ennesima volta, il casco sulla testa. Stava cominciando a diventare davvero noioso.
«Non ho intenzione di fare un giro con te! Non dovresti lavorare?» chiese, cercando di togliersi il casco, ma Eames glielo bloccò con una mano, sorridendo.
«Non oggi, ho finito il turno!» disse, fieramente, mentre Yusuf sbuffava dietro di lui.
«Certo, se dovevi comunque passarlo qui…» ma Eames sembrava non averlo nemmeno sentito.
«Andiamo, me lo devi!» e no, in realtà, non doveva nulla ad Eames e non doveva nulla ad Ariadne e avrebbe potuto andarsene. Non aveva bisogno di essere amico dei costruttori, avrebbero fatto il loro lavoro comunque. E non aveva bisogno di tutto quello, non aveva bisogno di Eames che gli tendeva la mano come fosse stato una ragazzina.
Scacciò la mano dell’altro, quindi, incamminandosi verso il sito. «Spero che ne valga la pena.»
Eames si limitò a sorridere.
Eames non si fermò a spiegargli ogni singolo angolo, non cercò di illustrargli tutto il progetto. Eames gli fece domande personali, fece battute che non facevano ridere e fu generalmente insopportabile.
Lo portò a vedere dove ci sarebbe stata la sala da biliardo e il mini-bar, gli raccontò della sua esperienza a Las Vegas e di come avesse perso tutto - ma non davvero, perché poi aveva recuperato con gli interessi ed era stato tutto solo un trucco per fregare i tipi del tavolo. Gli mostrò la sua chip fortunata e rise.
Rise come qualcuno che si divertiva e a cui andava genuinamente di stare con Arthur. Sebbene Arthur non parlasse molto e non lo trovasse particolarmente simpatico.
Quindi Arthur gli raccontò di Dom e del suo lavoro, perché gli sembrava giusto, e non era esattamente certo di cosa gli fosse uscito dalla bocca, ma quando aveva finito Eames stava sorridendo ancora di più e c’era qualcosa di strano nel modo in cui lo faceva. Qualcosa che rendeva Arthur nervoso ed eccitato allo stesso tempo.
Ad un certo punto della polvere finì nei suoi vestiti, e normalmente Arthur si sarebbe lamentato, avrebbe urlato perché era polvere e la polvere su una delle sue giacche preferite non faceva bene, ma quel giorno non se ne accorse fino a che Eames non gliela tolse dalla spalla e quello? Quello lo spaventava particolarmente.
Arthur era un perfezionista a cui piaceva analizzare ogni piccolo dettaglio e scoprirne i significati più reconditi. Lo faceva con tutto quello che gli succedeva e non poteva fare a meno di farlo anche con Eames e con le sue mani grandi e calde.
Arthur era incredibilmente fottuto.
Parlarono per due ore intere - e ogni persona che incontravano diceva ad Eames che non avrebbe dovuto essere lì e non aveva finito? - e quando finalmente si diressero verso il parcheggio, Arthur non aveva più la minima voglia di tornare in ufficio a lavorare al rapporto.
Eames era silenzioso accanto a lui, per la prima volta da quando l’aveva conosciuto, e Arthur aveva come l’impressione che stesse per chiedergli qualcosa.
«Arthur? Eri ancora qui?» arrivò la voce di Ariadne, ferma davanti al parcheggio, evidentemente nervosa.
Eames rise, accanto a lui e Arthur roteò gli occhi.
«Sì,» si limitò a rispondere, senza dare altri dettagli e Ariadne stava per pressarlo per averne, lo sapeva, ma non gliene lasciò il tempo «e tu? Cosa fai qui?»
Ariadne si voltò verso la stradina che portava alla villa, mettendosi le mani ai fianchi, «Sì, sto aspettando l’arredatrice, aveva detto che sarebbe passata a prendere il campione e…» gli stava dicendo, prima di illuminarsi di botto «oh, eccola!» disse, mentre Arthur si voltava a guardare la macchina che avanzava in lontananza.
Non aveva alcun interesse a conoscere l’arredatrice, specialmente se era matta come tutti gli altri lavoratori lì intorno, ma prima che potesse muoversi verso la macchina Eames si schiarì la gola, attirando la sua attenzione.
«Tesoro,» cominciò, meritandosi un’occhiataccia da parte di Arthur.
«Ti ho detto mille volte di non chiamarmi così, Eames!» ripetè per l’ennesima volta e Eames si limitò a scuotere le spalle.
«Mi stai facendo perdere il punto, tesoro,» gli disse, continuando prima che Arthur potesse lamentarsi di nuovo «è il punto è che potremmo magari andare fuori, io e te…»
Probabilmente, se avesse sentito una sola parola di quello che Eames aveva appena detto, sarebbe stato molto ma molto sorpreso, addirittura shockato. Solo che non aveva prestato la benché minima attenzione alle parole dell’altro, perché nel momento stesso in cui aveva cominciato a parlare la macchina dell’arredatrice aveva accostato e lui aveva finalmente potuto vedere di chi si trattasse.
«Mal…» bisbigliò, incerto su cosa fare, mentre guardava la donna scendere dalla macchina e cominciare a parlare con Ariadne. Da un lato avrebbe voluto nascondersi, perché era Mal e che cosa avrebbe potuto dirle? Dall’altro avrebbe voluto andare da lei e urlarle che era molto arrabbiato - non solo per Dom, davvero, ma anche perché pensava fossero amici e Arthur non aveva poi così tanti amici e quando era sparita gli aveva fatto male. Poi c’era una parte di lui che avrebbe voluto andare lì ed abbracciarla perché gli era mancata.
Eames però sentì il suo bisbiglio ed aggrottò le sopracciglia. «Mal? È tipo un locale che dovrei conoscere o…» e poi Mal si era voltata verso di loro e i loro sguardi si erano incrociati.
Mal lo guardò sorpresa e confusa per qualche secondo prima di sorridere - sorridere come la Mal che conosceva - e andargli incontro.
«Arthur!» disse, mentre lo abbracciava e Arthur rimase lì, incapace di dire nulla, mentre pensava che nemmeno il profumo di Mal era cambiato poi tanto. E non si vedevano da un anno e tre mesi, più o meno. E com’era possibile?
Quando Mal sentì che non stava rispondendo all’abbraccio si tirò un po’ indietro, guardandolo come se fosse stato lui a ferirla. «Sei arrabbiato?»
Sì, avrebbe voluto dire, perché lo era; lo era e non poteva farci nulla, ma probabilmente era una cosa infantile, probabilmente era solo stupido. E ad Arthur non piaceva essere né stupido né infantile.
«No,» disse quindi, mentre si rilassava leggermente «sono solo… sorpreso. Non sapevo fossi tornata a lavorare a tempo pieno, ecco,» non lo sapeva come non sapeva nient’altro di lei, ma questo non lo disse. Cos’avrebbe detto a Dom il giorno dopo?
«Ehm, scusate, vi conoscete?» chiese Ariadne, accanto a loro, e Arthur si ricordò finalmente di lei e di Eames, fermi a guardare la scena.
Mal sorrise, voltandosi verso di loro, «È una lunga storia… Ariadne, ti dispiace se mi prendo i campioni e scappo?» chiese, voltandosi poi di nuovo verso Arthur «andiamo a bere qualcosa assieme, okay?»
«Sono solo le quattro…» fu l’unica cosa che riuscì a dire, mentre Mal scoppiava a ridere.
«Non ci ubriacheremo prima delle sei, Arthur, te lo prometto. Va bene? Per favore?» e Arthur avrebbe dovuto dire di no. Avrebbe dovuto per solidarietà verso Dom e perché era ancora arrabbiato. Disse sì, invece, mentre Mal sorrideva e gli dava un bacio sulla guancia, seguendo poi Ariadne.
«Ex? » gli chiese Eames, una volta che furono soli, e Arthur ci mise qualche secondo a processare la domanda.
«Ex del mio capo…» rispose, prima di aggrottare le sopracciglia «del mio migliore amico,» aggiustò, sentendo la frase che scivolava meglio sulla sua lingua.
«Oh,» fu l’unico suono che Eames emise, rimanendo in silenzio accanto a lui - di nuovo. Il che gli ricordava che Eames aveva provato a dirgli qualcosa prima.
«Mi stavi dicendo, prima…» cominciò, perché sebbene non avesse davvero tempo di stare a preoccupasi anche di Eames e di qualsiasi cosa gli passasse per la testa era giusto chiedere. L’altro fece una faccia strana, come se cercasse di capire se Arthur lo stava prendendo in giro. «Scusa,» si affrettò quindi ad aggiungere «è stato… inaspettato, mi sono distratto e non sono riuscito a sentire…»
A quel punto Eames sorrise, mentre gli dava una pacca sulla spalla. «Non ti preoccupare, tesoro, ma non lo ripeterò.»
Avrebbe anche insistito se Mal ed Ariadne non fossero tornate proprio in quel momento.
«Master-Post Part 2»