Titolo: Onnipotenti Anonimi
Rating: Generale, Surreale
Prompt:
"L'angelo - colore nero - "Meglio regnare all'Inferno che servire in Paradiso (Milton)"Note: Ringrazio
defenderxl per avermi incitato a scrivere con una scadenza appesa sul cranio peggio di una spada di Damocle, e per avermi betato gli erroracci più mostruosi.
Onnipotenti Anonimi
È la prima volta che sente parlare di un luogo in cui divinità e demoni possano riunirsi e parlare dei propri problemi, con la garanzia di una totale riservatezza; una specie di ‘Onnipotenti Anonimi’, insomma.
È perplesso di trovarsi di fronte a quella modesta porta, in cima alla quale tintinnano delle campanelle argentate.
Non è mai stato il tipo da mettere in dubbio la propria superiorità in qualsiasi campo, e certo non è qui per farsi dire che è egoista, presuntuoso e crudele.
O meglio, sarebbe qui per farselo dire se questi termini fossero usati come delicate carezze al suo ego smisurato, e non come uncini di una frusta. Non che abbia niente contro le fruste, beninteso, ma è l’intenzione che conta. Magari dopo chiamo Lilith, fa quel numero con la frusta che..
C’è poco da fare, comunque. Ha promesso che ci sarebbe andato e sa molto bene che il Vecchio Parruccone - come si diverte a chiamarlo quando pensa che Lui non lo senta - difficilmente dimentica una promessa. È anche vendicativo e violento, alla faccia dell’aria da candido vecchio saggio un po’ rimbambito che gli piace ostentare di fronte agli estranei.
Chi si crede di essere? Babbo Natale?
Sospira e si avvia verso la porticina, meditando tremenda vendetta. Cala la mano sulla maniglia con decisione; nessuno avrà mai da dire che il Signore delle Mosche abbia mai esitato di fronte a qualcosa, o peggio, temuto qualcosa.
Le campanelle sulla porta stridono e strimpellano quando la apre con violenza, mandandola a sbattere contro lo stipite.
Di fronte a lui c’è uno stanzino soffocante, dotato di drappi rossi con dettagli dorati, bruciatore di incenso, soffice tappeto e microscopico tavolino, sul quale è poggiato un quadernone con le righe larghe da prima elementare, un pennarello, e alcuni tesserini con molletta metallica.
Ma cosa…?
Una risata, uno sbuffo di fumo e un paio di grida accennate filtrano dall’unica altra porta dell’ambiente, che di lì a pochi secondi si apre di scatto, spinta da pesanti e squamose spire draghesche.
L’uomo evita d’un soffio gli aculei velenosi sulla punta della coda, e si rimprovera d’essersi agitato inutilmente.
Come se non avessi mai visto un drago.
“Voi no spaventa!” dice una voce di donna, calda e con un qualche accento esotico.
L’ospite parla tutte le lingue umane e parecchie lingue demoniache, eppure non riesce a individuare la provenienza della parlata, pur comprendendone il senso.
“Voi no spaventa, solo spire di drago! Starnuto fatto me cambiare!”
La voce si avvicina, mentre la coda da rettile si ritira oltre la soglia. Quando la proprietaria della voce compare, l’uomo non è tanto sorpreso di vederla trasformata in donna, con soltanto un residuo di squame sulle caviglie scure.
“Oh, nuovo ospite!” sorride, avvicinandosi al tavolino in una sinfonia di tintinnii e bagliori dorati. È di carnagione scura, con capelli neri e lisci e occhi sorridenti, vellutati. Indossa un velo azzurro cupo piegato a triangolo e annodato dietro al collo e alla schiena, e bassi pantaloni da harem di una sfumatura più chiara. Il tintinnio proviene da orecchie, polsi, caviglie, vita e collo, in una profusione di catenelle dorate ornate di monetine.
Prende in mano un pennarello dal tavolino, e lo punta troppo forte su una riga bianca.
“Tuo nome, gentile ospite?”
"Damien," risponde l’uomo, con un mezzo sorriso irridente. Vuole farsi gioco di lei, e poi terrorizzarla.
Sul viso della donna, che ha appuntato sul seno un cartellino con su scritto ‘Kala’, sboccia un altro luminosissimo sorriso divertito.
"No, no, tu no è bambino in film... Pestaggio?"
"Il Presagio, e sì, ero io." In una delle mie tante incarnazioni, ma ero io.
Kala non sembra molto convinta.
"No no. Tu come chiama?"
"Belial,” riprova, tentando un secondo nome.
Kala scuote ancora la testa e ride. I capelli le accarezzano profumati le spalle mentre il seno generoso si scuote nel riso.
"No, tu no personaggio di manga. E poi tu no ha ali."
Un po’ seccato, l'uomo spiega con una certa difficoltà un enorme paio di ali nere come quelle di un corvo.
Kala non batte ciglio, arricciolandosi una ciocca di capelli nelle dita coperte di hennè e anelli d’oro di ogni foggia.
"Tu angelo decaduto!” Decreta tutta felice.
"Non un angelo," ribatte l'altro con piccata superbia "il primo angelo decaduto. Il Portatore di Luce che preferì le tenebre, invece di sedere accanto al Padre."
Kala non sembra impressionata. Con la mano destra tiene fermo un cartellino e con la sinistra vi scarabocchia sopra un nome in pennarello fucsia.
"Tieni. Tu entra e siede in cerchio con altri." Può sembrare vana e stupida, ma nasconde una singolare tempra sotto i veli, il trucco e l’oro.
Lucifero guarda il cartellino ed è molto perplesso, come è giusto che sia dal momento che sopra vi è scritto, con una calligrafia tutta ghirigori, “Elettricista”.
“Ehm… perdonami tanto… Kala, ma perché mi chiamo Elettricista?”
Il sorriso di Kala è accecante.
“Come perché? Tu Portatore di Luce no? Tu Elettricista! Tu può controllare lampadina di bagno. Sempre accende e spegne, accende e spegne quando sei su tazza. Difficile concentrazione! Ora però tu entra, o noi fa tardi. Altri già aspettano.”
La pagherai.
Incredulo di fronte alle proprie azioni, Lucifero oltrepassa l’altra porta seguendo Kala in un ambiente più grande, arredato pressappoco come l’anticamera, con abbondanza di stoffe, cuscini e incensi profumati. All’interno altre tre persone siedono in cerchio, senza parlarsi.
Kala si inchina verso una donna dalla carnagione diafana, riccamente vestita con un abito dalla foggia orientale e coperta d’oro e pietre preziose.
“Lei è Materasso, viene da Giappone,” dice con deferenza, senza accorgersi di aver massacrato il divino nome.
La dea sospira malinconicamente, specchiando per un attimo il viso pallidissimo dagli occhi lunghi e stretti nello specchietto ingioiellato che tiene nella destra, mentre con la sinistra tocca una collana fatta di grosse gemme a forma di fagiolo. Appoggiata sul tappeto accanto al piedino della dea, riluce una lunga spada.
“Amaterasu, è il mio nome.”
“Sì, sì, Materasso, capito. Tu può consigliare buon letto a tutti,” replica Kala, con una graziosa risata priva di qualsiasi derisione.
L’eterea dea giapponese si concede un altro sospiro e accetta con solenne garbo la sconfitta.
Accanto ad Amaterasu siede un uomo alto e muscoloso dalla pelle color cioccolato. Indossa un gonnellino di pelle maculata e sul vigoroso torace pende frusciante una collana di fiori di ibisco dai vivaci colori. Accanto a lui, in un vaso piuttosto grande, sussurra ad un vento invisibile un alberello dalle grandi foglie lucide, tra le quali spicca un minuscolo casco di banane gialle.
“Lui è Musa, vende banane.” È la lapidaria spiegazione di Kala.
L’uomo scuote dietro la schiena i capelli scuri e scoppia in una fragorosa risata.
“OH OH OH, bambina, io non vendo banane! Io sono una banana! Anzi, la mia banana regna sul mondo, oh oh oh!”
Ma Kala, imperterrita, sorride.
“Magari dopo noi fa merenda con banana, buona per pancia se spiriti cattivi turbano digestione, sì.”
A queste parole l’uomo bruno si acciglia, poi le scocca un sorriso a quaranta denti.
“Vuoi mangiare la banana…?” Le sue sopracciglia fanno su e giù con aria maliziosa.
Una secca tossettina malefica proviene infine dalla… donna seduta dall’altro lato del Dio Banano.
Lucifero ne ha viste tante negli interminabili millenni della sua vita immortale, ma questa le batte tutte.
La donna è nuda, se non fosse per un sibilante gonnellino di serpi vive; ha dei braccialetti fatti di artigli e una collana di cuori umani, che le nasconde in parte il seno afflosciato. Ma è il viso la cosa peggiore.
Quella faccia farebbe venire gli incubi persino a sua madre.
I due serpenti gemelli che costituiscono il suo viso si scollano dall’eterno fronte a fronte e all’unisono sputacchiano un fischiante avvertimento.
“Sssssentiamo cosssssa penssssssi.”
“Lei chiama Coatlicue, lei alleva uccelli piumosi.”
I serpenti hanno uno scatto nervoso.
“Falssssso. Abbiamo dato vita sssssoltanto ad un sssssserpe alato. Quetzalcoatl è il ssssssuo nome.”
“Salute,” dice Kala tranquillamente, sedendosi nella posizione del loto su di un ampio cuscino viola. “Siedi, Elettricista, noi comincia.”
Lucifero si siede, con un grugnito rassegnato.
“Materasso, tu comincia. Quale tuo guaio?”
Amaterasu sospira drammaticamente.
“Si tratta di mio fratello, Susano-o. È più giovane di me, e piuttosto che onorare sua sorella maggiore si comporta in modo irrispettoso e sconsiderato. L’altro giorno ha giocato un brutto tiro alle mie donne, gettando un cavallo scuoiato nella stanza in cui stavano filando.” Fa una pausa teatrale, nascondendo il viso dietro la manica ricamata.
“E poi cosa fatto fratello Susanno?” chiede Kala, sollecita.
“Susano-o, è un nome sacro.” Ribatte la dea, tormentandosi le piccole mani eleganti. “Io sono fuggita e mi sono nascosta in una caverna… per piangere. Non volevo più uscire. Ero così offesa con lui. Gli altri dei hanno tentato in tutti i modi di farmi uscire, ma io non volevo. Poi hanno provato ad attirarmi fuori appendendo lo specchio e le gemme fuori dalla caverna, ma non è servito a niente, almeno non fino a quando non li ho sentiti ridere e scherzare.”
“Cosa faceva loro ridere?”
Una spolverata di rossore ravviva il colorito della dea.
“Una dea di nome Ame-no-Uzume stava danzando licenziosamente… e tutti ridevano di lei, non di me, come pensavo. A quel punto però ero uscita dalla caverna, e così è finita la lite.”
“Allora tu perdona fratello Susanno, no? Ora facile fare pace, perché in pace piccolo seme di lite. Se tu conosce solo pace, tu non conosce niente. Se tu litiga, dopo pace ricostruita in modo più solido.”
Amaterasu scruta Kala con aria perplessa, poi annuisce piano.
“Tu resta con pensiero positivo e di perdono. Musa? Quale tuo problema? Banane?”
“Oh oh, tesorino, è proprio così, il mio problema sono le banane.” Il dio hawaiano scocca uno sguardo voglioso a Kala e poi alla languida bellezza giapponese.
“Sì ma quale problema? Troppo mature? Marcite?”
Musa appare inorridito.
“Oh oh, zuccherino, né marce né acerbe, mature e turgide al punto giusto!”
“Allora perché tu qua?”
Altro sottile colpo di tosse serpentina.
“Ehi, Medusa,” scherza il dio Banano, “stai buona e attendi il tuo turno.”
Coatlicue gli soffia in viso le lingue tremolanti, fissandolo con i quattro perfidi occhietti.
“Voi due no litiga. Musa, tu no può venire qui per rimorchio. Se tu vuole io esce con te, ma solo quando terapia finita. Ora se tu non ha problema, io continua. Elettricista, quale tuo problema?”
Lucifero si scuote dal torpore che l’ha colto mentre osservava la divina sitcom svolgersi di fronte ai suoi occhi. “Il mio problema?”
“Sì, perché tu venuto qui?”
“Beh, diciamo che qualcuno me l’ha consigliato.” Ordinato, è la parola giusta. Come se io prendessi ordini da quel vecchio.
“Chi? Tuo papa?”
“… in un certo senso si potrebbe definire mio padre.” Replica Lucifero a denti stretti.
Kala è trionfante, sicura di aver dedotto correttamente la situazione.
“Tu ha litigato con tuo papa!”
“Diciamo di sì,” borbotta. Ma sì, soltanto un piccolo litigio.
“Perché tu litiga?”
“Divergenza di vedute… non andavamo d’accordo.”
“E poi tu cosa fatto?”
Lucifero sorride per la prima volta da quando è entrato lì dentro.
“Io ho lasciato la sua Casa e ho cercato per me e la mia gente un luogo dove regnare, lontano dalle sue Leggi.”
“Ah, tu andato via di casa, tu andato a vivere con amici. Spero tu no trova appartamento da studente. Letti scomodi, divani sfondati, troppa gente e un solo bagno!”
Lucifero sbuffa.
“Donna, tu non capisci. Io ho abbandonato il Cielo con i miei angeli corrotti, ho sofferto, lottato, tramato e lavorato per fondare il mio Impero delle Tenebre!” A queste parole Lucifero si è alzato in piedi, allargando le braccia e con esse il mantello nero, alla base del quale spuntano ora lingue di fiamma.
Quando si volta vede Kala appollaiata sul suo cuscino, con in un mano un blocchetto sul quale stenografa in una lingua sconosciuta, annuendo piano.
“Mm… mm… abbandonato papa, fatto vita ribelle…”
La donna alza lo sguardo, arricciando il nasino sul quale, per magia, sono comparsi degli occhialetti dalla montatura leggera.
“Ma vero vero motivo quale?”
Esasperato, Lucifero abbandona qualsiasi compostezza.
“Per quale motivo? Te lo dico con le parole di un poeta umano, qualcosa lui l’aveva capita. Ascolta bene! Mille volte meglio regnare all’Inferno che essere servi in Paradiso!”
“Mh-mh.” Kala finisce l’annotazione e vi disegna un fiore in calce. “Tu ora siede buono. Noi tutti canta.”
“Cosa?”
Sotto il suo sguardo Kala perde le gambe e acquisisce una lucente coda di sirena dalla pinna merlettata.
“Noi… uhh… noi canta!” Senza farci caso si gratta felice un punto fastidioso, poi torna umana. “Scusa, prudeva me. Insopportabile quando scaglie seccano. Noi canta, così io può andare a bagnarmi.”
“Io non canto.”
“Oh sì, tu canta e rilassa. Tu troppi conflitti interiori.” E così dicendo riprende la posizione del loto, volge le mani al soffitto e prende a salmodiare dal profondo della gola, mentre gli altri convenuti si uniscono al canto con vari gradi di riluttanza.
Oh, al diavolo, pensa Lucifero, e prova a produrre un paio di rasposi mormorii.
Un momento, ragiona, assorto nella stravagante nenia, qualcosa non quadra.
Lucifero tenta di inseguire la melodia lamentosa di Kala e delle altre divinità e di srotolare allo stesso tempo la coda riccia dell’interrogativo.
Quando ci arriva la perplessità raggiunge i massimi storici.
Ah vero, il diavolo sono io, ricorda e riprende a cantare.
Basta che il Vecchio Parruccone non sappia mai che ho cantato, aggiunge tra sé e sé. E se rompe, gli scateno un paio di guerre e una pestilenza, così impara a prendere in giro, sì.
E così consolato, si sforza di primeggiare nel coro male assortito.