Titolo: Oltre il blu
Fandom: RPS - DOREMIdan (jrock)
Personaggio: Makoto
Pairing: nessuno
Prompt: 015 - Blu
Rating: Generale
Disclaimer: Non possiedo niente, se non la mia immaginazione.
Tabella:
[Link]Note: Questa fic è AU rispetto le altre due già postate.
Non amo particolarmente scrivere fanfic su persone realmente esistenti e infatti sono riuscita a scegliere un fandom talmente esiguo da poter trattare i personaggi come se fossero originali.
Non amo neanche l'appigliarsi sconsiderato di sedicenti 'autori' a fatti privatissimi della vita delle persone scelte per il RPF/RPS... tuttavia questo breve pezzo mi è venuto spontaneo - seppure in ritardo, considerando che gli eventi ai quali accenno sono accaduti lo scorso agosto - leggendo un'intervista al povero Makoto, e ho pensato di provare a scriverlo con tutta la delicatezza possibile. Spero di non aver fallito.
Oltre il blu
Il bip dell'orologio mi dice che sono le sette del mattino.
L'aria fresca, la qualità trasparente e vitrea della luce, la sabbia ancora umida e fredda confermano questa informazione.
Il mare e il cielo si rimandano un grigio lievemente azzurrato, il colore di una camicia da notte stinta in un bucato maldestro.
Lo so bene, sono anni che vivo da solo, ma un calzino trova sempre il modo di infilarsi nella biancheria e combinare disastri.
Tra poco il cielo e il mare inizieranno a risplendere di mille riflessi azzurri, e la sabbia si infuocherà d'oro.
In questo lungo attimo, tuttavia, resta il bagliore incerto del giorno che sta per iniziare.
Appoggio le scarpe sulla sabbia, e mi siedo accanto ad esse. Sono grosse, rosso scuro con i lacci neri. Sono le scarpe rosse della bambina in una delle prime canzoni del mio repertorio.
Arrotolati all'interno, ci sono i calzettoni a strisce bianche e nere. Queste scarpe dal colore vivace, in contrasto con le strisce in bianco e nero, spiccano vivide sull'ocra tenue della sabbia, sul grigio-azzurro di onde e nuvole come il particolare a colori di una foto artistica in scala di grigio.
Seduto, affondo i piedi nudi nella sabbia, mentre con la mano prendo una conchiglia e inizio a giocarci.
Da quando è tornato il bel tempo, mi capita abbastanza spesso di fuggire dalla città, e venire qui a nascondermi.
Più tardi la spiaggia sarà animata e chiassosa, assolata e soffocante, e il mare rifiuterà di offrire qualsiasi messaggio, qualsiasi conforto.
Per ora siamo soltanto io e le mie scarpe, quel gabbiano laggiù, quasi nascosto sullo sfondo di una nuvola, e un pescatore solitario in lontananza.
Spesso, quando vengo qui, mi illudo di voler semplicemente fare una passeggiata vicino al mare, o di voler stare un po' solo.
Certo, sono elementi che fanno parte del fascino di questi attimi, ma non costituiscono il vero scopo degli incontri tra me e il mare, tra me e il cielo.
Alzo lo sguardo, osservo i pochi lembi di nuvole sottili, quasi completamente dissolte. Presto il cielo sarà una lastra di chiarissimo celeste lattiginoso, priva di qualsiasi impurità. Più tardi, si tramuterà in una mattonella turchese, più adatta a un mare greco che ad una modesta spiaggia nelle vicinanze di una tentacolare metropoli.
Inspiro.
Quando il cielo perde completamente le nubi, gli occhi mi si incrociano ad osservarlo. E' normale, perchè non esiste come i nostri occhi possono percepirlo. E' un punto di inizio, non un traguardo.
Il sospiro è talmente profondo e malinconico da sorprendermi. Dopotutto, sono l'unico essere che possa portare dei rumori estranei qui.
Un altro sospiro emerge quando mi rendo conto di aver stretto la conchiglia con tanta forza da stamparmi le scanalature del guscio sul palmo della mano. La scollo e la getto in acqua, osservandone la parabola discendente.
Poi, con un brivido, mi alzo e faccio qualche passo, abbandonando le scarpe rosse a guardia della mia postazione.
Tra pochi mesi sarà trascorso un anno.
Un anno.
Un anno è un lasso di tempo ingannevolmente lungo per noi umani, ma non più di un battito di ciglia se confrontato con la vita dell'universo.
Eppure questo battito di ciglia trascorre lento e inesorabile, incerto come un treno su binari di montagna: ad ogni svolta, il pericolo di una curva troppo stretta.
Qualcuno mi ha detto che col tempo inizierò a sentirmi meglio. Qualcun altro ha detto che è meglio così, perchè sono solo io a soffrire, e poichè sono giovane e in salute, anche questa sofferenza si attenuerà nel corso degli anni.
Anche a distanza di un anno non so se sono d'accordo. Le notti insonni e i soprassalti al pensiero della casa in vendita, le discussioni scomode con mio fratello si sono diradati come l'odore persistente del bastoncino d'incenso sempre acceso accanto all'altarino domestico. Il dolore ha forse cambiato nota, ma non è sparito, né penso che potrà mai sparire.
Improvvisamente mi rendo conto del morso del sole ormai alto, e dello schiamazzo di una famiglia numerosa appena giunta sulla spiaggia. I bambini scalciano via le scarpe e iniziano subito a rincorrersi, sollevando spruzzi di sabbia.
Mi rimetto le calze e le scarpe, controllo di non aver lasciato niente e senza fretta mi avvio verso la stazione. In una giornata così bella, il sole riesce a scacciare per un po' qualsiasi fuoco fatuo.
In città il mio appartamento è sempre se stesso: il controller della playstation appoggiato per terra, col cavo tutto arrotolato; il lavandino assediato dai piatti e dai contenitori di plastica; la scrivania ricoperta di foglietti con annotazioni e scarabocchi, e tazze da tè col filtro seccato.
Sul mobiletto all'ingresso c'è una foto dei miei genitori in una cornice nuova. Sono sorridenti e un po' abbronzati, si tengono per mano con aria leggermente imbarazzata. Mio padre ha un fazzoletto legato in testa, mia madre un cappello di paglia con la tesa larga e un fiore finto. Erano appena tornati da una gita alle terme.
Fa un po' male vederli così felici, sapendo come è terminata la storia, ma allo stesso tempo mi viene da sorridere di fronte alla loro gioia di quel momento.
Quando depongo la foto al suo posto, naso e occhi mi pizzicano e ho un peso bruciante nel cuore.
Sistemo un mucchio di riviste sul tavolino nel soggiorno e raccolgo ancora un paio di tazze, poi perdo lo slancio e mi siedo sul divano, consapevole della foto all'estremità del mio campo visivo, ma determinato a non guardarla.
Sospiro e cedo, assecondando il movimento tanto naturale.
Loro sono ancora lì e sorridono. Papà stringe la mano della mamma con l'aria di chi normalmente è una persona troppo seria per fare queste cose; la mamma ricambia la stretta e con l'altra mano mantiene il cappello perchè il vento non glielo porti via.
So che è una consolazione incoerente, forse anche infantile, ma guardo ancora la foto e sorrido di nuovo, piano.
Non sono più con me, ma almeno sono insieme.