Titolo: Andava bene così
Fandom: Hey!Say!Jump
Pairing: Yabu Kota x Inoo Kei ; Yaotome Hikaru x Inoo Kei
Rating: NC17
Avvertenze: Slash, Violence, Death!Fic
Disclaimer: I personaggi non sono miei, tutti i diritti riservati e i fatti narrati sono frutto della mia fantasia. La storia non è scritta con scopo di lucro.
Riassunto: E ora non gli restava che pagare il peso dei propri errori
Note: Scritta per la
24ore con il prompt “Ritrovarsi a…” e per la
diecielode con il prompt “If the world should turn its back, you know that I’m still here.”
WordCount: 3317
fiumidiparole **
Andava bene così.
Dopo tutto, non poteva andare in nessun altro modo, lo sapeva.
Andava bene così.
Lentamente si sarebbe ripreso. Come sempre.
Andava bene così.
Perché non aveva le forze per fare altro,nemmeno per arrabbiarsi. Forse avrebbe potuto alzarsi, prendere le sue cose e andarsene.
Andava bene così, in fondo.
Perché nessuno gli avrebbe teso la mano. Aveva lottato, andando contro tutto e tutti e adesso avrebbe subito in silenzio.
Perché gli era stato detto che le cose non erano sempre belle nella vita.
Ma era sempre stato egoista.
E ora non gli restava che pagare il peso dei propri errori.
Hikaru si guardava intorno. Non gli piaceva tutto quello, quelle parole non dette, quegli sguardi appena accennati, quella paura e quella rabbia non tanto nascosta.
Si strinse le gambe al petto, appoggiando il mento su un ginocchio, cercando di capire, di osservare, di comprendere.
Intorno a lui tutti sembravano normali. Troppo normali, quasi sospetti. Sospirò, rimanendo nel suo angolo.
Lo sentiva che c’era qualcosa che non andava. Perché se lo sentiva sotto pelle, un brivido che sapeva di avvertimento, di pericolo. Gli era successo poche volte e lo aveva sempre classificato come paura, perché spesso era stato così.
Paura di gettarsi, di rischiare, di affidarsi completamente ad una persona. Eppure in quel caso, lo sapeva, non era così.
Avrebbe voluto parlarne con qualcuno, ma sapeva che nessuno gli avrebbe dato retta.
E’ vero, aveva sbagliato.
Più di una volta, eppure, alla fine, aveva sempre ammesso i propri sbagli. Perché era stato accecato dalla gelosia, perché aveva messo sé stesso in primo piano, senza accettare la realtà che lo stava circondando.
Eppure… c’era veramente qualcosa di sospetto in quello sguardo decisamente troppo remissivo.
Lo conosceva bene e sapeva che poteva essere classificato con tanti aggettivi, ma non remissivo. No, era orgoglioso. E testardo. L’aveva sperimentato sulla propria pelle quella testardaggine, quell’egoismo, quella egocentricità.
E non avrebbe mai piegato la testa.
Lo sapeva bene.
Si alzò in piedi, avvicinandosi con passo lento, quasi ignorando le persone che lo circondavano, che sembravano ammutolirsi passo dopo passo. E lui sentiva il cuore che accelerava i suoi battiti, che accelerava il sangue nelle vene ogni volta che si avvicinava di un altro centimetro a lui.
Lo afferrò per un polso e guardò la propria mano, stupito nel vedere come le dita non tastassero altro che un sottile strato di pelle e muscolo e ossa.
L’altro alzò la testa, stupito, spaventato, come un animale braccato, prima di voltare immediatamente lo sguardo verso l’amico.
Hikaru alzò lo sguardo, trovandosi a guardare una persona che non conosceva più. Perché non capiva come si potesse arrivare ad annullare sé stessi in nome di un sentimento come l’amore.
L’amore è una droga, Hikaru lo aveva sempre sostenuto. Perché ti avvelena il cuore e il cervello e al ragazzo non era mai piaciuta la sensazione che lo avvolgeva quando era innamorato.
Era riuscito ad evitare di finire in quel modo. Era riuscito a scappare, in tempo, a far capire che non avrebbe chinato la testa solo per stare accanto ad una persona.
Ma, constatò amaramente, non tutti ci riuscivano.
Si sentì afferrare per il colletto della maglietta, spintonato via, lontano dal suo obiettivo.
E no, non gli piaceva dover lasciare quella mano calda, spaventata, in balia di qualcosa che non riusciva a gestire.
Ma in quel momento non poteva fare nulla.
Vide gli occhi dell’altro sorridergli, quasi tristemente.
Perché, sapeva bene quello che pensava.
Andava bene così.
No.
Non lo avrebbe permesso.
Rientrato in casa non dovette aspettare poi così tanto.
Il primo pugno lo colpì in pieno viso facendolo rotolare per terra.
Ormai aveva smesso anche di ribellarsi, perché lo aveva capito. Al fidanzato non piaceva quando ci si ribellava.
Non gli piacevano le sue lacrime, le sue suppliche, i suoi tentativi di scostarsi, di pararsi da quella scarica di botte che, la maggior parte delle volte, arrivavano senza un preavviso o una ragione precisa.
Perciò rimase a terra.
Come tutte le sere. Come tutte le volte che rientravano in casa. Come tutte le volte che faceva tardi, che non rispondeva al telefono, che era con qualcuno che non gli andava a genio.
Ormai aveva perso il conto.
Dei pugni, degli schiaffi, degli stupri. Del dolore, delle grida, dei suoi sguardi così carichi di rabbia.
Avrebbe voluto dire che ci aveva fatto l’abitudine, ma avrebbe mentito. Perché, lo sapeva bene quale era il suo problema, purtroppo ci credeva.
Credeva in un cambiamento, credeva in delle scuse sincere, credeva di poter essere qualcosa di più di un semplice trofeo da esporre in una bella vetrina.
Credeva ancora di poter vivere la sua storia d’amore delle favole, quelle che leggeva sempre a sua sorella quando erano piccolo.
Credeva che un giorno, quel principe azzurro tanto cattivo, un giorno lo avrebbe salvato, portato via da tutta quella sofferenza.
Si limitò ad alzare gli occhi verso l’uomo che amava. Non sentiva le sue parole, non sentiva le sue frasi piene di odio nei confronti di Hikaru, non sentiva quelle insinuazioni che lo vedevano protagonista di storie d’amore con lui.
No, perché era troppo stanco, anche solo per tentare di difendersi.
Tanto, anche se lo avesse fatto, le cose non sarebbe mai cambiate.
E quelle mani che tanto amava, non avrebbe smesso di fargli del male.
Osservarsi allo specchio era la parte che odiava di più.
Perché si trovava a confronto con la propria vigliaccheria, con la propria stupidità, con la propria dignità gettata a terra e calpestata.
Perché lottava giorno dopo giorno contro lividi troppo vistosi, graffi che non sapeva come giustificare, truccatrici o amici troppo curiosi di conoscere la natura delle sue ferite.
La mattina, quando la pazzia del fidanzato era finalmente scemata, lui si trovava a dover fare i conti con una vita che, giorno dopo giorno, gli sembrava andare sempre più a puttane.
Aveva lottato per lui. Aveva fatto di tutto. Aveva litigato con Hikaru, quando ancora stava con Yabu. Aveva discusso con Daiki, che gli diceva di non buttarsi a capofitto come faceva di solito e aveva ignorato gli avvertimenti di Yuya e di Yuri.
Non aveva ascoltato nessuno, perché le parole e i gesti di Yabu nei suoi confronti gli erano sempre parsi sinceri e pieni di amore.
Perché lui era sempre stato innamorato di lui e ricevere le sue attenzioni lo aveva fatto sentire importante.
Non si era curato di nulla, né di quello che aveva, né di quello che si stava lasciando alle spalle, né di quello che avrebbe potuto ottenere.
Hikaru aveva lasciato Yabu, e Kei allora di era sentito in diritto di prenderselo. Perché adesso era libero da ogni vincolo con quello che era stato il suo migliore amico e perché anche per lui, dopo tanto tempo, ci sarebbe stato un lieto fine.
Sorrise a quei ricordi. Sorride della propria mediocrità, della propria ingenuità, della propria debolezza.
Perché avrebbe potuto abbandonare Yabu dopo la prima volta che lo aveva picchiato e stuprato, ma si era convinto che era stato solo un caso. Un caso isolato.
E aveva cercato di pensarci, giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, mese dopo mese.
Ci pensava anche quella mattina, come tutte le mattine. Si guardava.
E basta.
Perché non aveva più le forze ormai.
Hikaru compose il numero, quasi senza pensarci.
Erano sette mesi che non chiamava quel numero. Gli pesava quella situazione, troppo per essere lasciata abbandonata a sé stessa.
Avrebbe voluto odiarlo. Perché Yabu aveva smesso di amarlo per stare con Kei, perché Kota non voleva più dedicare le sue attenzioni solo a lui.
E sul momento Hikaru aveva odiato tutti. Yabu e Kei, indistintamente. Perché li immaginava felici e lui non riusciva ad allontanarsi dal più grande, non riusciva a comprendere che cosa ci fosse in Kei di più affascinante.
Poi, durante il loro ultimo litigio, Yabu lo aveva picchiato. Hikaru era rimasto senza parole, lo aveva fissato per un tempo che gli era sembrato infinito e allora il ragazzo aveva compreso che non c’era niente da fare.
Aveva preso le sue cose e se ne era andato, con il cuore a pezzi, da ricucire e da rimettere insieme.
Aveva chiuso dietro di sé la porta di quella casa doveva davvero lasciato una parte di sé stesso.
Era passato dalla parte del torto quando aveva cercato di dire a Kei che Yabu non era la persona che pensava. Che non era solo belle parole, inviti fuori a cena e ore d’amore romantiche.
Che c’era una parte di lui che nessuno conosceva, che era una parte malvagia, che non avrebbe fatto altro che distruggerlo.
Ma Kei non lo aveva ascoltato. Avevano litigato e Kei gli aveva detto che era solo invidioso, geloso di una felicità che lui non era riuscito a trovare con Yabu e che stava solo cercando di non farli stare insieme.
Yabu lo aveva guardato, con quella sua solita aria di superiorità, quel sorrisetto che aveva sempre quando sentiva la vittoria in tasca. E Hikaru non aveva potuto aggiungere altro perché non aveva le prove per dirgli che era solo un violento pazzo visionario.
Si era lasciato attaccare sulla schiena l’etichetta del “geloso”, dell’“invidioso”, perché così era più semplice.
Aveva chiuso gli occhi, cercando di dirsi che era stato solo un caso, che forse era vero che era un po’ invidioso della loro felicità.
Ma poi aveva visto i segni del tempo farsi sempre più presenti sul volto di Kei e allora il senso di colpa si era riacceso.
Vedeva quella stessa paura che sentiva di aver provato quella notte, mentre sentiva le mani di Yabu addosso a sé e lui improvvisamente non le voleva. Vedeva quello stesso terrore, nel rendersi conto che forse aveva ragione Hikaru nel dirgli che Yabu non era quello che sembrava.
E non lo avrebbe accettato. Non più.
Si portò il telefono all’orecchio, facendolo squillare più volte. Era pomeriggio inoltrato, Yabu a lavoro e Kei all’università.
Ricordava che un tempo passava le ore al telefono con Kei. Era sempre stato così. Era semplice parlargli, sfogarsi, farsi consigliare, farsi dire le parole giuste al momento giusto.
Il telefono squillò a vuoto per un altro paio di secondi, prima di sentire la chiamata accesa.
« Pronto? » chiamò a voce alta appoggiandosi al muro di un palazzo.
« Hikka? » sussurrò una voce dall’altra parte del telefono.
Il più piccolo avvertì il timore, forse il sospetto, solo nel sentir pronunciato il proprio nome.
Erano mesi che non lo chiamava così. Gli era mancato.
« Volevo sapere come stai. E’ un po’ che non parliamo. » ammise senza alzare lo sguardo dal marciapiede.
« Mh. Abbastanza bene. Perché? » domandò ancora l’altro, il tono di voce apprensivo.
« Così. » scosse le spalle « Senti, ho appena finito di posare per un servizio fotografico vicino casa tua e di Yabu. Ci possiamo vedere per un caffè? » chiese, iniziando a camminare lentamente.
« Non lo so. Ora sono occupato, Kota dovrebbe tornare fra poco e… devo cucinare la cena. Ancora. Ecco… non credo, tutto qua. »
Hikaru socchiuse gli occhi. Sospirò pesantemente.
Ecco che cosa ci aveva visto Yabu in Kei. Una bambola di creta da poter plasmare come voleva. Un automa, che non si sarebbe mai ribellato alla sua pazzia.
« Solo cinque minuti. Il tempo di un caffè. Yabu non sarà a casa prima di due ore e poi… è un po’ che non parliamo, dopo che… ti sei fidanzato. Mi manca stare con te. » ammise.
Doveva farlo.
Perché non avrebbe lasciato Kei in balia di un pazzo. Non di un solo secondo di più.
Sentì Kei tentennare e avrebbe voluto dirgli qualunque cosa, ma rimase in silenzio. Kei non era scemo, solo… innamorato.
E non voleva fargliene una colpa perché sapeva per esperienza che la violenza e la rabbia di Kota erano incontenibili e riuscivano a travolgerti con la stessa intensità di un fiume in piena.
« Va bene. » accettò debolmente il più grande « Ma solo cinque minuti, ok? »
« Certamente. Non un secondo di più. » tentò di rassicurarlo.
« Mh. A fra poco. Il bar davanti casa. »
Hikaru rimase in compagnia solo del rumore della chiamata interrotta.
Nonostante il dolore che le sue parole gli avevano sempre causato, ascoltare e consigliare Hikaru non era mai stato così pesante. Gli voleva bene come ad un fratello e vederlo felice era l’unica cosa che contava per Kei.
E se per vederlo felice, lui non poteva avere Kota, andava bene così.
Quando si erano lasciati aveva cercato di consolarlo, di dirgli che lo amava da impazzire e che non aveva mai voluto che le cose fra loro tre raggiungessero quella situazione. Aveva frainteso le parole di Hikaru, lo aveva insultato e offeso, incurante di quello che stava cercando di dirgli.
Il più piccolo aveva provato a dirgli di Yabu, di quello che era veramente. E adesso non si sarebbe lamentato, con nessuno.
Rimase seduto in silenzio al tavolino del bar, ascoltando l’altro che parlava del più e del meno, mentre anche tenere in mano la tazzina senza farsi prendere dall’ansia era una vera impresa.
Si guardava intorno, spaventato, con il costante timore di un ritorno improvviso di Yabu, che li potesse vedere insieme, fraintendere. E Kei lo sapeva che le cose allora non si sarebbero risolte per il meglio.
« Devi lasciarlo Kei. »
Il più grande lo fissò di scatto, limitandosi a stringere con più forza le dita intorno alla tazzina.
Abbozzò un sorriso sarcastico, mal di riuscito. Gli facevano male gli zigomi e le labbra. Sperava di essere riuscito a coprire bene i lividi che andavano a formarsi sul suo viso.
« Perché dovrei? » chiese con voce sommessa, come se fosse spaventato dalla risposta.
« Perché ti picchia. E chissà che altro ti fa. » scosse la testa « E’ arrivato il momento di allontanarsi. »
« Che ne sai tu? » si irrito Kei « Il rapporto che c’è fra me e lui, è diverso da quello che avevi te. »
« Meno male. » replicò Hikaru « Perché lui ci ha provato anche con me Kei, ma non gli ho dato la soddisfazione di fare di me quello che voleva. »
Kei incrociò le braccia al petto, sbuffando.
« Tu non sai nulla. » mormorò.
Hikaru avrebbe voluto rispondere, dirgli che aveva sperimentato su di se quella pazzi e che, dopo tutti quei mesi, non riusciva a dimenticare quelle mani che lo toccavano e quel respiro roco ed eccitato nel suo orecchio.
Fu interrotto dalla suoneria del cellulare di Kei. Quest’ultimo lo prese, sbianco quando lesse il nome di chi lo stava chiamando.
« Kota? » balbettò abbassando immediatamente la voce « Scusami. Mancava il caffè e sono andato a comprarlo al conbini. Sono appena uscito. » mormorò piano guardandosi intorno, terrorizzato « Sì. Certo. A fra poco. »
Hikaru fu tentato di chiedergli qualcosa, ma non ci riuscì. Lo vide alzarsi in piedi.
« Devo andare a comprare il caffè. Kota mi richiamerà a casa fra cinque minuti e devo rispondere. »
Il più piccolo lo afferrò per il polso, proprio mentre lo stava superando per scappare via.
« Kei… questa storia non farà altro che peggiorare. »
« Lo amo. » furono le uniche parole che ricevette, prima che riuscisse a divincolarsi.
Hikaru rimase fermo e lo osservò scomparire dentro al conbini. Lo vide affannarsi per prendere del caffè e poi lo vide cercare con le mani tremanti la chiave giusta per aprire il portone, il più in fretta che poteva.
Kei si voltò un’ultima volta verso di lui e ad Hikaru gli parve quasi di sentirlo.
Andava bene così.
Il mondo gli aveva voltato le spalle, ma Hikaru voleva che Kei se lo ricordasse: se lui si fosse voltato in cerca di aiuto, lui ci sarebbe sempre stato.
Era sbagliato. Tremendamente sbagliato. Incredibilmente sbagliato.
Ma era successo. Aveva parlato con Kei, ancora e ancora e lentamente sembrava che si fosse convinto di quello che gli stava dicendo.
Hikaru non sapeva se lo amava o meno, ma era sicuro che Kei non amava lui. Perché nonostante tutto lo vedeva che ogni suo gesto o pensiero o parola era in realtà rivolta a Kota.
Che fosse un gemito di piacere o un sussulto di paura.
Ma lo aveva promesso a sé stesso. Lo avrebbe portato via da là, via da quel posto, via da un uomo che non sapeva fare altro che picchiarlo o stuprarlo.
Erano stesi nel letto e Hikaru stava accarezzando la schiena di Kei, senza pensare a nulla. Il più grande aveva ancora il respiro pesante dopo l’amplesso rapido e animalesco al quale si erano lasciati andare all’inizio del pomeriggio.
Si erano saltati addosso, l’uno contro l’altro, senza riuscire a fermarsi o a contenersi. Dopo pochi minuti si erano ritrovati nel letto, nudi, a baciarsi, mordersi e toccarsi e adesso Hikaru era ancora concentrato sulla schiena del più grande, ricoperta di lividi e di ferite.
Kei si voltò verso di lui, nascondendo la faccia nell’incavo del suo collo, sospirando profondamente.
« E’ stato un errore Hikka. Se Kota lo scoprisse per noi sarebbe la fine. Devi andartene. Sarà a casa fra poco e io mi devo fare una doccia. »
Hikaru lo abbracciò stringendolo a sé. Si ritrovava a stringere quel corpo così piccolo, così tremante e spaventato e voleva solo dargli qualcosa di meglio della smisurata paura che provava nei confronti di Yabu.
Doveva ammetterlo, gli piaceva sentire il proprio odore mischiato a quello del sesso sulla pelle di Kei. Avrebbe voluto sentirlo per sempre.
« Non tornerà prima di due ore Kei, tranquillo. »
Era appena passata l’ora di pranzo e se si ricordava bene Yabu non sarebbe tornato se non a pomeriggio inoltrato.
Furono le ultime parole si Hikaru si ricordò di aver pronunciato. Sentirono la porta aprirsi e quasi immediatamente videro Kota sulla porta.
Fu la trasformazione in una belva. Hikaru era a terra, sanguinante, mentre la furia di Yabu sembrava non avere fine. Lo colpiva ripetutamente, senza sosta, con calci e pugni.
Urlava qualcosa, ma annebbiato dal dolore non riusciva a capire che cosa stesse dicendo e fece di tutto per cercare di pararsi il viso con le mani e le braccia.
Ma nulla sembrava fermarlo. Dopo essersi sfogato su di lui, si voltò immediatamente verso Kei.
Era dietro di lui, le guance ricoperte di lacrime e il volto contratto in una smorfia di dolore. Impugnava un coltello nelle mani tremanti e quasi senza esitazione spinse la lama dentro l’addome del fidanzato.
La mano già alta di Yabu scivolò lentamente al suo fianco, mentre crollava a terra, in un lago di sangue.
I singhiozzi di Kei si fecero più alti, insostenibili. Hikaru gettò uno sguardo a Yabu a terra, che li fissava, mentre si teneva le mani sulla ferita, ansimando pesantemente. Il più piccolo andò dal ragazzo scivolato sulle ginocchia, che teneva ancora le mani strette sul manico del coltello.
« E’ finita. » gli disse piano abbracciandolo « Non ti farà più del male adesso. »
Sentì Kei annuire, lentamente. Poi sentì un gemito roco, sommesso e quando si scostò appena non vide altro che il coltello premuto contro lo stomaco di Kei, che continuava a spingere la lama dentro di sé, come se fosse burro.
Kei gli sorrise.
« E’ finita. Non mi farà più del male adesso Hikka. » sussurrò piano.
Hikaru non riuscì a dire una sola parola, mentre il più grande si allontanava e strisciava verso il corpo ancora morente di Yabu, ancora intento a fissarli.
Kei gli sorrise.
« Perdonami Kota. » biascicò, il sangue che scivolava lungo ancora la sua bocca « Ma sono solo tuo, lo sai? »
Lo vide sdraiarsi al suo fianco, mentre Kota piangeva e annuiva. Kei gli strinse la mano con forza, lasciandola nella sua.
Gli baciò dolcemente le guance piene di lacrime.
« Va tutto bene Kota. » sussurrò piano, togliendo poi il coltello dal proprio corpo « Andrà tutto bene, credimi. »
Tossì più violentemente, mentre il corpo del più grande si faceva sempre più pallido e più tremante.
Kei, steso a terra, si strinse a lui.
« Ti amo Kota. » mormorò.
« Anche io. » biascicò con le sue ultime forze il più grande.
I due si sorrisero e poi Yabu chiuse gli occhi.
Hikaru sentì Kei singhiozzare e furono quei singhiozzi a svegliarlo dal suo stato di shock.
Afferrò Kei per una spalla, voltandolo di scatto. Ma il ragazzo ormai era morto, la mano stretta in quella ancora calda di Yabu, uniti anche nella morte in una follia e in una promessa priva di un senso.
E Hikaru, osservando gli occhi morti di Kei, poteva ancora sentirlo.
Andava bene così.
Fine