[Hey!Say!Jump] You abused me in a way that I've never known

Mar 14, 2012 10:57

Titolo: You abused me in a way that I've never known {Break me, Shake me - Savage Garden}
Fandom: Hey!Say!Jump
Pairing: Arioka Daiki x Inoo Kei ; Yabu Kota x Inoo Kei; Takaki Yuya
Rating: NC17
Avvertenze: Slash; Tortura; Death!Fic; AU!
Disclaimer: I personaggi non sono miei, tutti i diritti riservati e i fatti narrati sono frutto della mia fantasia. La storia non è scritta con scopo di lucro.
Riassunto: Yabu Kota, investigatore capo della Sezione Omicidi di Tokyo, osservò stancamente l'ennesimo cadavere. Quello ormai era il dodicesimo.
Note: Scritta per la mezza_tabella con il prompt “15. Bambola” e per il COW-T2 di maridichallenge con il prompt “Tutto in una notte”.
WordCount: 6380@fiumidiparole

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Il flash illuminò la stanza, per qualche breve secondo. Si udì un leggero lamento, nemmeno tanto sentito. Era là dentro da troppo, troppo tempo. Tremò leggermente quando l'altro entrò lentamente nella stanza, tentò una debole fuga, scoprendo troppo presto il muro alle sue spalle.
Un dito gli percorse la linea del volto, delicata, femminile, sfiorandogli la pelle nuda del collo e delle spalle.
Lei si tirò su la manica della maglietta, troppo larga per essere la sua, coprendosi più che poté. Lui non sembrò curarsene, si limitò a scoprirla di nuovo. Chinò il volto verso il suo collo, inspirando il suo odore, ancora così forte nonostante il tempo passato rinchiusa in quella gabbia, al buio, senza dei pasti decenti, senza vedere la luce del sole.
Il carnefice si allontanò di nuovo, posizionandosi a pochi metri da lei. Alzò la macchina fotografica, scattando una serie di foto in sequenza, senza muoversi di un passo. Era lei la sua involontaria modella.
E ormai aveva visto quanta bellezza ci potesse essere dietro quella pelle troppo bianca, dietro il volto tirato dalla stanchezza e dalla fame, dietro quelle labbra scarne che ormai avevano perso tutto il loro intenso rossore originario.
Si alzò eretto, osservando le foto. Poi, ignorando la ragazza che gli urlava di farla uscire, che lo pregava di lasciarla andare, gli diede le spalle, chiudendosi alle spalle una grande porta di legno massiccio.
Gettò un'occhiata al suo interno, osservando la donna che si contorceva a terra e udendo i suoi singhiozzi.
Un lampo di ispirazione geniale lo colse, alzò velocemente la camera, puntandola di nuovo sulla ragazza.
Un nuovo flash. Sarebbe stata una bellissima foto, ne era sicuro.

Indispettito dal fatto che le sue aspettative fossero state completamente deluse, il ragazzo sospirò. Era stanco di modelle che non facevano il loro lavoro. Sempre a piagnucolare, sempre a singhiozzare, sempre a chiedergli quando sarebbero tornate a casa, sempre a chiedergli di smettere di toccarle.
Lui era il loro Dio. Questo nessuna di loro aveva ancora capito. Il loro compito era solo quello di posare, nulla di più.
Dovevano osservare la camera, dovevano mostrare il loro più sofferente volto di dolore e fargli fare il suo lavoro.
Appoggiò le mani al tavolo, chinando la testa sul tavolo, osservando le ultime foto che aveva sviluppato.
Nulla. Tempo perso. Come aveva immaginato, solo l'ultima foto era venuta bene. La prese delicatamente fra le mani, osservando il corpo della ragazza raggomitolato su sé stessa, osservando le unghie che graffiavano a terra, osservando il suo petto scosso dai singhiozzi. Si fermò ad analizzare i lunghi capelli neri che, sudici, scivolavano davanti al suo viso, lasciando scoperto solo un occhio, che lo fissava implorante.
Era una delle sue foto preferite di questa ultima modella. Prese una puntina, mettendola accanto alle altre in una bacheca speciale.
Lasciò vagare lo sguardo lungo quelle decine e decine di foto, una più dolorosa e spettacolare dell'altro.
Sorrise amaramente. Era stata una brava modella dopotutto. Aveva resistito più delle altre, era riuscita ad andare oltre, a capire che cosa lui cercava veramente.
E gli aveva dato tutta sé stessa, fino alla fine.
Un po' gli sarebbe mancata, ma era sicuro che la ragazza successiva sarebbe stata molto più collaborativa.
Ormai aveva imparato le tecniche giuste per costringerle a tirare fuori quell'espressione che ricercava da tempo.
Sì. Gli sarebbe mancata.

Yabu Kota, investigatore capo della Sezione Omicidi di Tokyo, osservò stancamente l'ennesimo cadavere.
Quello ormai era il dodicesimo. Era stato assegnato al caso quando era ancora una matricola e lavorava in coppia con un suo collega più grande. Da quando aveva ottenuto la promozione ad investigatore non aveva rinvenuto cadaveri, almeno fino a due anni prima.
Poi avevano ripreso e lui non comprendeva il perché.
La ragazza aveva, come tutte le altre prima di lei, la faccia completamente deformata da ustioni e graffi. Quel che rimaneva del volto era solo una lieve smorfia di dolore. Non traspariva altro.
Le pupille, rigorosamente aperte, rivelavano gli occhi scuri della vittima, appannati da un lieve strato bianco di liquido. Le vene della cornea erano rosse e ingrossate, andando a coprire buona parte dell'occhio stesso.
Poco sotto la mandibola terminavano dei graffi, probabilmente fatti dalla vittima stessa una volta che era stata lasciata.
Anche lungo il collo si vedevano macchie di ustioni. Erano più simili a gocce che altro, ma le macchie si ingrandivano di volta in volta che si avvicinavano al volto, completamente deturpato. Aveva fatto le prove.
Prima con una goccia piccola, poi andando sempre con più violenza sul corpo e sulla pelle.
Tutto quello non aveva un senso, Yabu ne era sicuro. O se ce l'aveva, eludeva la sua comprensione.
Avrebbe comunque fatto analizzare quelle strane macchie. Potevano sempre tornare utili. La ragazza aveva i polsi scarnificati, esili, probabilmente uno era anche rotto giudicando l'angolo irregolare che aveva assunto.
La pelle iniziava a raggiungere un certo grado di decomposizione. Non era morta da poco, ma gli effetti dell'acido non aveva fatto altro che accelerare il processo di morte dei tessuti dell'epidermide.
Avrebbe aspettato come sempre un paio di giorni per ottenere il referto medico. Forse il giorno dopo, se avesse fatto un po' di pressione al medico legale. Sapeva anche, però, che ciò che vi avrebbe trovato scritto sarebbe stato identico a tutto il resto.
Corrosione dell'epidermide causata da grandi quantità di idrossido di potassio. Ferite lungo il volto arrecate da un coltello a lama corta, lunghezza stimata di circa 5 centimetri.
E tutto il resto lo sapeva a memoria. Sia gli uomini che le donne ritrovate presentavano più o meno le stesse somiglianze fisiche.
Capelli lunghi, fisico snello, occhi non molto grandi, di bell'aspetto.
“Era affascinante” avrebbe detto Yabu, come tutte le volte, osservando la foto della vittima quando sarebbe stata identificata.
E Yabu era stanco di quella maledetta routine. Non ne poteva più.
Socchiuse gli occhi, sospirando di nuovo. Poi, lanciandole un'ultima occhiata, tirò di nuovo su di lei il telo dell'obitorio. Non riusciva a comprendere se ci fosse o meno un filo logico in quella scelta, in quella morte, in quella prigionia lunga mesi.
Non capiva dove iniziava il filo e tanto meno si aspettava di comprendere di capire fin dove lo avrebbe portato. Sentiva solo che si sentiva inutile, senza alcuno scopo.
Era entrato nella polizia proprio per fermare quel tipo di persone, per evitare che continuassero a portare dolore e invece non riusciva a fare altro che starsene là a fissare cadaveri su cadaveri, ad andare dalle famiglia solo per avvisarli che avevano trovato il corpo della loro amata figlia e che non erano riusciti a trovarla in tempo per salvarla.
Era stanco di quelle urla disperate, dei pianti, delle porte sbattute in faccia, della sensazione di inutilità che lo travolgeva ogni volta che qualcuno lo avvisava di un nuovo ritrovamento sospetto.
Doveva trovare una soluzione, ma più ci pensava, più sentiva che tutto gli sfuggiva via dalle mani. Non riusciva a capire.
Semplicemente, gli sembrava che tutto, ogni corpo che trovava, che ogni segno che rinveniva sul corpo, ogni piccolo indizio, facesse parte di uno schema superiore, che non riusciva a vedere nella sua completezza.
E non serviva a niente allontanarsi un po' e cercare di osservare tutto quello che aveva in suo possesso in una chiave diversa. Aveva provato decine di chiavi, era semplicemente la serratura ad essere sigillata ermeticamente.
E Yabu sapeva che fino a che non avesse trovato la chiave giusta per forzare quella serratura non sarebbe giunto da nessuna parte.
Osservò gli addetti caricare la barella con il corpo su una macchina, per dirigersi verso l'obitorio. Si guardò intorno.
Era un quartiere piuttosto popolare di Tokyo, che scivolava velocemente nel degrado urbano, dove era più normale vedere i tossici agli angoli della strada e non i ragazzini che vendevano giornali o facevano pubblicità ai negozi appena aperti.
Erano lontani dal centro, dai quartieri del lusso e dei divertimenti, della politica e dell'economia. Gli sembrava che in quei posto tutto girasse in una maniera completamente opposta e che in realtà non era il governo giapponese a stabilire le regole, ma erano i delinquenti stessi a gestirli.
Yabu serrò gli occhi. Sentì il mal di testa stringergli la testa, rendendogli difficile anche solo organizzare i pensieri.
Si diresse di nuovo verso la macchina d'ordinanza e si fece portare alla centrale di polizia.

“Non andava affatto bene”, si disse nella sua testa Yabu, mentre scendeva dalla macchina e si dirigeva, cercando di scaldarsi le mani, verso l'interno di un campo incolto.
“Non andava affatto bene”, continuava a dirsi, osservando un nuovo cadavere.
Era passato meno di un mese, non erano riusciti a identificare nemmeno la vittima precedente perché aveva le impronte digitali distrette dall'acido e il calco dei denti aveva portato ad una persona che, tecnicamente, doveva essere morta almeno da due anni.
Era di nuovo una ragazza. Era un da po' che l'assassino uccideva solo ragazze. Era già il quarto cadavere consecutivo.
Diede una veloce occhiata e poi, sempre con quel mal di testa che lo stava logorando, tornò alla macchina.
Doveva trovare un modo per dare un taglio a quella storia.

Inoo Kei entrò al lavoro che era leggermente in anticipo. Non c'era nessuno nei paraggi e, da un lato, gli andava anche bene.
Non gli piaceva avere troppa gente intorno, non gli piaceva essere guardato più del dovuto e tutto quello lo considerava un enorme doppiosenso considerando che faceva il modello.
Da quando era entrato nell'adolescenza, era sempre stato bello e lui aveva sempre odiato quella bellezza. Nessuno cercava mai di andare oltre al bell'aspetto e nessuno si era mai interessato a lui più del dovuto.
Quando era scappato dalla sua casa paterna, in un piccolo paesino dell'Hokkaido, era approdato a Tokyo con meno di diecimila yen nel borsello e aveva passato i primi giorni a dormire dentro un internet point perché non poteva permettersi altro.
Poi era andato ad una audizione per modelli e da lì era stato molto più facile. In quel momento non era ancora nessuno, ma poteva arrivare tranquillamente a fine mese e i ricordi di quando passava giornate intere senza mangiare sembravano solo un brutto ricordo.
La stanza era ancora vuota. Appoggiò la sua borsa sulla panca più vicina agli specchi e si cambiò con i vestiti appesi alla stampella, dove c'era scritto il suo nome. Iniziò a sistemarsi i capelli, seguendo le istruzioni che i parrucchieri capo lasciavano pronte la sera prima agli apprendisti.
Nonostante avesse chi lo truccasse o lo pettinasse, continuava a preferire farlo da solo. Non era a suo agio se c'era qualcuno che non conosceva a toccarlo.
Socchiuse gli occhi, odorando il profumo della lacca nell'aria. Poi sorrise e prese il telefono.
Era uscito da poco da casa e non vedeva già l'ora di tornarci. Il suo fidanzato avrebbe finito presto quel giorno e si sarebbero incontrati nel pomeriggio per andare a fare un po' di spesa e poi chiudersi in casa a guardare un film, sdraiati sul divano, a farsi le coccole e...
La porta della stanza si aprì all'improvviso e Kei sobbalzò. Poi riprese lentamente a respirare. Era solo il fotografo, arrivato con parecchio tempo di anticipo.
Chinò leggermente la testa, salutandolo. L'uomo lo fissò per qualche secondo, poi ricambiò il saluto.
Kei sentì un brivido di freddo percorrergli la spina dorsale. Aveva già lavorato con quel fotografo, Arioka Daiki. Non si era mai sentito del tutto a suo agio con lui, aveva sempre avuto la mania di guardarlo troppo mentre scattava le foto. Rimaneva fermo per secondi interminabili, con la macchinetta fra le mani, confrontando il risultato con la sua figura reale.
E Kei aveva sempre dubitato che dietro quel malsano interessamento ci fosse una reale puntigliosità lavorativa. Ma aveva sempre fatto del suo meglio per ignorarlo, per fare delle foto migliori possibili e andarsene a casa.
Anche quel giorno avrebbe fatto la stessa identica cosa.

Takaki Yuya, collega di lavoro più giovane di Yabu e assegnato al suo caso, piegò leggermente la testa sul petto, massaggiandosi poi le tempie. Aveva passato le ultime nottate e cercare informazioni sui due cadaveri.
Ad un certo punto il computer davanti a lui emise un suono. Takaki alzò lo sguardo verso lo schermo e vide, in due finestre aperte contemporaneamente, due foto.
La prima era quella di Takeda Satomi, la prima vittima. Il poliziotto osservò incuriosito le informazioni che si caricavano sotto la foto.
Modella alle prime armi, giovane, di appena diciotto anni. Orfana di entrambi i genitori, aveva solo uno zio che viveva ad Okinawa. Di bell'aspetto, come tutte le altre vittime, non sembrava avere comunque dei tratti distintivi che la facevano spiccare su altre potenziali vittime. Gli occhi scuri lo fissavano penetranti e Takaki sentì un brivido di inquietudine svegliarlo del tutto.
Mosse il cursore del mouse, scivolando sulla seconda foto. Fukai Ryoko lavorava part-time in una caffetteria ad Adachi e si era ritirata, poco prima della scomparsa, dall'università di Lettere, con la scusa di non riuscire più a pagare le tasse universitarie con il suo lavoro.
La collega che aveva denunciato la scomparsa, così diceva il verbale, aveva notato che forse soffriva un po' di depressione, ma non sapeva esattamente il perché. Forse un fidanzato con cui non andava più tanto d'accordo o i debiti che si accumulavano a causa della sua carta di credito.
Scosse la testa, sospirando. Poi afferrò il cellulare e compose il numero di Yabu. Era tardi, molto probabilmente era impegnato dato che era la sua serata libera dopo settimane di lavoro, ma non gli importava.
Tutto quello era molto più importante.

Yabu sentiva che forse poteva, questa volta, riuscire a trovare un filo conduttore. Una parte di sé ne dubitava, perché sentiva di non riuscire a comprendere, ma l'altra parte invece ci sperava, con tutte le sue forze.
Osservò le informazioni scritte diligentemente su una lavagna, con tanto di foto, indirizzi, indicazioni, verbali, referti e tutto il resto.
Lesse più e più volte. Scosse la testa.
Non riusciva veramente a capire. Forse era il caso di cambiare lavoro.
Forse non era tagliato per tutto quello.

L'appuntamento che si preannunciava fantastico, era sfumato in una bolla di sapone, ma aveva cercato di passarci sopra, perché il fidanzato era stato chiamato per lavoro, non per divertirsi. Ma non era riuscito a fingere che andasse tutto bene.
Quando Yabu gli aveva detto che doveva scappare via, sul suo volto era apparsa una vera e propria smorfia di sofferenza. Si era morso il labbro, aveva arcuato le sopracciglia e lo fissava come se fosse stato un cucciolo di cane abbandonato lungo la strada.
Si era sentito osservato per un solo momento. Aveva alzato lo sguardo sulla finestra davanti a lui, mentre Yabu si muoveva avanti e indietro sistemando la sua roba e continuando a parlare al telefono.
Quasi si era aspettato di trovarsi una faccia appiccicata al vetro, come nei peggiori film horror di quarta categoria, invece davanti a lui c'era il solito condominio con qualche luce accesa nonostante l'ora tarda.
Aveva sbattuto un paio di volte gli occhi, dicendo che era tutto dovuto alla stanchezza e scosse le spalle. Si era poi alzato, aveva accompagnato Yabu alla porta, lo aveva baciato ed era rimasto solo.
Si era sentito con quella spiacevole sensazione di qualcuno che ti sta guardando le spalle per qualche altra ora e la solitudine e il silenzio non aiutavano.
Quella sera aveva dovuto addormentarsi con le cuffie nelle orecchie e con una luce accesa.

Erano passate due settimane dal primo servizio fotografico con Arioka Daiki.
Entrò di nuovo in casa. Era stremato. Aveva passato, di nuovo, una giornata di lavoro massacrante con Arioka. E se la volta prima sembrava essere rimasto colpito e sorpreso dal suo lavoro, questa volta non gli era andata abbastanza bene.
Di solito era bravo in quello che faceva. C'erano scatti più o meno difficili, espressioni, angolazioni, scenografie difficili da adattare alla propria faccia o al proprio corpo, ma si era sempre impegnato per evitare di rimanere troppo a lungo sul posto di lavoro.
E anche quel giorno era convinto di aver dato il meglio di sé. Ma purtroppo il fotografo non aveva fatto altro che rimproverarlo, riprenderlo davanti allo staff dicendogli che la sua espressione non era abbastanza sofferente.
E solo quando si era finalmente deciso a ripensare alla sua vita durante i primi giorni a Tokyo era riuscito a raggiungere i livelli che voleva quel pazzo.
Sentì lo sguardo e il volto di Arioka, sfigurata da una parte da piaghe orribili, probabilmente ustioni, seguirlo fino a che non lasciò il luogo di lavoro.
Si chiuse la porta alle spalle, lasciando la borsa accanto alla porta, gettando le chiavi sul comodino. Tolse le scarpe ed entrò in cucina. Aveva seriamente fame.
Quando accese la luce però, sentì solo un colpo violento dietro la testa. Perse i sensi ancora prima di toccare il pavimento.

Riprese i sensi a causa del freddo glaciale. Sbatté ripetutamente gli occhi, più e più volte prima di abituarsi alla quasi completa oscurità del luogo dove si trovava. Mosse leggermente le mani. Sotto le sue dita c'era del cemento armato. Da una piccola finestra aperta, posizionata a circa quattro metri sopra di lui, entrava una flebile luce, che illuminava poco e nulla. La stanza era alta. Non aveva idea di quanto fosse larga, ma in quel momento non gli interessava nemmeno saperlo.
Poco distante da lui, proprio di fronte, c'era una porta, con una piccola feritoia aperta e delle sbarre spesse.
Si alzò faticosamente in piedi, portandosi una mano sulla nuca. Sentì del sangue incrostato e lentamente il terrore si fece strada dentro di lui. Si ricordava di essere entrato in casa, di essersi tolto le scarpe e di essere andato in cucina. Poi il nulla più totale.
Cercò di raggiungere la porta, ma cadde di nuovo a terra, inciampando in qualcosa che non aveva visto. Rialzandosi a sedere e ignorando il dolore alle braccia, vide che era una scodella di plastica, vuota.
Sembrava graffiata e sporca. La rimise a terra e poi raggiunse finalmente la porta. Si attaccò alle sbarre, facendo leva per alzarsi il più possibile.
Dava su un corridoio, illuminato debolmente da delle luci. Non riusciva a vedere la fine, da nessuno dei due lati.
Iniziò ad urlare. Qualcuno prima o poi lo avrebbe sentito.

Yabu rischiava un vero e proprio collasso isterico.
Era passato già più di un mese da quando Kei era scomparso. Sembrava essersi letteralmente volatizzato nel nulla.
A casa sua non c'erano tracce. Né la borsa, né le chiavi, né del cibo. I colleghi gli avevano detto che era andato via tardi dal lavoro a causa di alcune incomprensioni con il fotografo.
Aveva rivoltato quell'uomo in ogni modo possibile, ma non aveva trovato nessun collegamento. Lui stesso aveva ammesso che alla fine le foto che aveva scattato erano più che perfette per il suo book fotografico e che era normale che un modello non riuscisse ad immedesimarsi quasi subito nel tema da interpretare.
Si erano alterati un po' tutti e due ma alla fine entrambi avevano raggiunto il loro scopo finale. Lui le foto e Kei lo stipendio.
Che motivazioni aveva per rapirlo?
Rientrò a casa. Il suo capo lo aveva spedito con la forza, minacciando di togliergli il caso se non si fosse riposato per tutto il resto della nottata.
Chiusosi la porta alle spalle Yabu si tolse la giacca con movimenti pesanti. Poi arrivò in salotto e osservò un vaso di fiori ormai appassiti. Da quant'era che non tornava a casa ormai?
Da quando Kei era scomparso. Da quando sentiva sotto pelle la dolorosa sensazione che lui fosse solo l'ennesima vittima di quel folle psicopatico che corrodeva le facce delle sue vittime dopo mesi di prigionia, obbligandoli a fare chissà che cosa.
Sentì gli occhi riempirsi di lacrime. Fino a quel momento aveva cercato di dimostrare almeno a sé stesso che poteva farcela, che aveva ancora una vaga fiducia in se stesso.
Prese il vaso e con un urlo di disperazione lo lanciò a terra, schizzando acqua ovunque. Ansimò nel vedere i fiori sparsi a terra, sparpagliati ai suoi piedi. Afferrò qualunque cosa potesse trovare al suo passaggio e solo quando si fu calmato si accasciò a terra, in mezzo al disordine.
Finalmente scoppiò a piangere.

Kei urlò dal dolore. Sentiva dolore spandersi ovunque lungo il suo corpo, mentre non riusciva a muovere le braccia, incatenate al muro, tese sopra la sua testa. Era seminudo e ormai aveva perso il conto delle ore passate ad urlare, sotto le torture di un pazzo.
Quella ormai era l'ennesima volta, nel giro di pochi giorni, che il suo assalitore gli spingeva nella carne un marchio rovente. Il dolore avrebbe dovuto attenuarsi, si diceva, eppure ogni volta che sentiva il ferro spingersi contro di lui, il dolore sembrava invece aumentare.
Non ricordava più da quanto tempo ormai si trovava in quella prigione, né tanto meno era riuscito a capire il perché.
Il suo carnefice non parlava, si limitava a torturarlo. Frustate, stupri, marchi a fuoco. O semplicemente lo picchiava con qualunque cosa gli capitasse sotto mano, fino a che non sveniva nel suo stesso sangue.
Gli occhi dell'uomo lo squadrarono da capo a piedi. Non toccava a terra se non con le punte e ormai sentiva le braccia urlargli di trovare un po' di riposo, sempre negato.
Lo vide accennare un sorriso, togliendogli con un gesto brusco le lacrime dal viso. Kei rimase con il volto contro il petto, continuando a singhiozzare e a pregarlo di farlo uscire da là.
Il silenzio persistette e poi finalmente se ne andò.
Era come una bambola. Una bambola nelle mani di un pazzo psicopatico che lo utilizzava come cavia per chissà che cosa.
Pensava di aver passato gli anni delle torture. Era scappato da casa sua proprio per quello, rischiando la morte a soli sedici anni.
Suo padre lo picchiava fin da quando era piccolo, per qualunque cosa. Perennemente ubriaco, si divertiva ad immobilizzarlo contro un tavolo e ad abusare di lui, continuamente.
E quando quell'uomo, quel sadico, si era spinto per la prima volta dentro di lui, con una brutalità che lo riportava con la mente a quei momenti, si era sentito lentamente morire, come se qualcosa dentro di lui fosse stato appena estirpato.
E a nulla serviva pensare a Yabu, a mormorare il suo nome quando era da solo per darsi un po' di forza, per cercare di sopravvivere il più a lungo possibile. Non serviva a niente, solo a ricordarsi che in quel momento era da solo.
L'uomo rientro e gli tolse le manette dai polsi e Kei scivolò a terra, senza forze. Piangeva, senza riuscire a dire altro.
Nel suo dolore, senza più una chiara percezione del proprio corpo e del mondo intorno a sè, udì solo gli scatti di un flash e delle mani che lo sistemavano.
Era una bambola. Nulla di più. Una bambola che doveva mostrare la propria parte più disperata, che doveva esprimere con ogni cellula del suo corpo solo la più pura e semplice sofferenza.
Tutto quello gli ricordava il fotografo, Arioka. Anche lui, nel suo ultimo giorno di libertà, gli aveva detto che voleva che mostrasse solo paura e dolore. E lui non c'era riuscito fino a che non aveva ripensato a quei giorni da cui, a distanza di anni, continuava a fuggire, senza riuscirci.
Aprì leggermente gli occhi. Per un attimo sperò, non sapeva nemmeno per quale motivo, di trovarsi il volto di Arioka davanti a lui.
Ma il buio era troppo penetrante e il flash lo accecava così, come tutte le altre volte, il volto di quell'uomo rimase una pura e semplice ombra.

Yabu osservò i fogli davanti a lui. Era tornato in ufficio e un altro mese era passato.
Su un'altra lavagna osservò per l'ennesima volta delle foto che erano arrivate al suo ufficio, pochi giorni prima. Si sentiva svuotato, privo di ogni energia.
Sapeva che quello raffigurato era il corpo di Kei.
Non era mai fotografato per intero, ma quelle mani, quelle gambe, quel corpo che assaporava e che aveva sempre accanto da due anni a quella parte, le avrebbe riconosciute ovunque.
Osservando i segni di tortura su di lui, sentì lo stomaco stringersi sempre di più, quasi facendolo sentire male. Quelle mani un tempo così curate adesso erano sporche, insanguinate, piene di graffi. Lo sporco e le ferite sotto le unghie, i segni di catene o corde intorno ai polsi ormai scarnificati.
Le gambe e l'addome marchiate a fuoco, ferite sulla schiena sanguinanti, tracce che indicavano chiaramente violenza sessuale.
Avrebbe voluto piangere. Di nuovo.
Perché più cercava di fare qualunque cosa per trovarlo, per capire cosa fare salvarlo da tutto quello, più gli sembrava di annegare in un lago di disperazione.
Il suo capo aveva detto che quello era un caso personale. Avevano scandagliato la sua vita, aveva rivoltato la vita di Kei e da entrambe non era uscito niente di particolare se non che i cadaveri avevano ripreso a comparire quando lui si era fidanzato con Kei.
Nessuna prova poteva essere più evidente di quella. A quel punto avevano scavato ancora più a fondo nella sua vita privata, di quando era una matricola, di quando frequentava l'accademia, la vita durante gli anni delle scuole, cercando un qualunque appiglio che potesse fargli capire che cosa fare.
Ad un certo punto scattò fuori dalla stanza senza dire nulla, lasciando Takaki da solo nella stanza.
Lentamente, così come si chiudeva la porta dietro Yabu, sul volto del collega scomparve l'espressione sorpresa per lasciar spazio ad un sorriso quasi sadico.
Spostò senza farci realmente caso i fogli, esattamente così come li aveva lasciati lui stesso.
Yabu era più stupido di quello che aveva mai immaginato.

Yabu raggiunse la casa in stile tradizionale che si trovava in un paesino vicino Tokyo. Era nervoso e non riusciva a connettere del tutto i propri pensieri.
Erano anni che non tornava più in quella cittadina. Ricordi spiacevoli gli tornavano alla mente, ma tentò in ogni modo di scacciarli. Doveva cercare di mantenere il sangue freddo e la calma adatta. Li avrebbe fatti parlare, con il loro consenso o meno.
Suonò al campanello del portone d'ingresso. Udì un lungo silenzio quando disse il proprio nome ma nonostante tutto lo fecero entrare.
Una cameriera lo fece accomodare nella stanza principale, sotto il kotatsu riscaldato e portandogli immediatamente un tè caldo alle erbe. Poco dopo un uomo e una donna di una certa età entrarono dentro la stanza.
Yabu piegò leggermente la testa in segno di saluto, che i due ricambiarono a malapena e sentì il proprio cuore stringersi, ma cercò di ignorarlo. Non era il momento adatto. La donna si sedette davanti a lui e solo dopo qualche secondo anche il marito la imitò.
« Cosa vuoi Kota? » esordì brusco l'uomo.
« Sono qua per delle informazioni, padre. » rispose Yabu cercando di controllare il proprio tono di voce.
« Sappi che sei stato bandito da questa... »
« Lo so. » esclamò il figlio a voce alta « Lo so bene che non mi volete più vedere, ma sono qua per un motivo serio. »
Dalla borsa prese un raccoglitore, che esitò ad aprire.
« Madre, è meglio se non guardate. » disse a mezza voce.
Lei socchiuse gli occhi e il padre gli prese il raccoglitore fra le mani, aprendolo e iniziando a sfogliarlo, leggendo attentamente ogni singola parola.
« E' un caso che seguo ormai da sei anni. » iniziò Yabu « E sono giunto alla conclusione che è un caso personale. Il rapimento dell'ultima vittima, Inoo Kei, è collegata a me. »
Il padre si limitò a leggere le informazioni e a prendere atto, con un sonoro sbuffo di contrarietà, che era il suo attuale fidanzato. In altri momenti avrebbe iniziato ad inveire contro di lui e ad urlare di avere un figlio malato e perverso, ma anche a lui non sembrava quello il momento.
Non solo perché il figlio sembrava abbastanza devastato dal fatto, ma perché, prima di tutto, era un caso di lavoro.
« Ho iniziato a ripensare a qualunque cosa potessi aver fatto di sbagliato. E... credo che la colpa non sia mia, padre. Credo che tutto sia collegato con quello che è successo otto anni fa. »
Il padre si irrigidì immediatamente, così come la madre, che rimase sempre con una mano davanti al volto. Calò il silenzio e a lungo Yabu non osò fiatare. Solo quando vide il volto del padre distendersi iniziò a parlare.
« Ho provato a richiedere i fascicoli del caso. Ma mi hanno detto che non è possibile perché è riservato. Padre, necessito delle autorizzazioni. »
L'uomo storse il naso e si passò senza pensare una mano sulla spalla e per un attimo gli ricordò lo stesso gesto che faceva anche Takaki quando si affaticava al poligono durante le esercitazioni. Scosse la testa. Non era il momento di farsi distrarre dalle cose senza senso.
Il più grande continuò a meditare a lungo, fino a che la madre non gli posò delicatamente una mano sul braccio, limitandosi ad annuire. L'uomo allora si alzò per prendere il telefono e quando ritornò nella stanza, disse al figlio che il fascicolo lo aspettava già sulla sua scrivania.
Yabu si piegò sul pavimento fino a che non toccò terra con la fronte, ringraziandolo ripetutamente. Poi si alzò in piedi e fece per andarsene, fino a che non sentì la voce del padre che lo raggiungeva.
« Kota... quando il caso è finito potresti venire a trovarci. Con il tuo... uomo. » commentò piano, senza guardarlo.
Yabu sorrise leggermente, annuendo, ma non si voltò.
« Certo, perché no? » rispose solo prima di lasciare la sua casa paterna e di ritornare al suo ufficio a Tokyo.

Kei alzò pigramente la testa dal pavimento. Era ore che si trovava accucciato su sé stesso, fissando la finestrella che si faceva di giorno in giorno sempre più lontana, nonostante in realtà fosse sempre al suo posto.
Aveva fame. Terribilmente. Per la disperazione aveva iniziato a mordicchiarsi le dita, fino a che un giorno non si era ferito troppo profondamente. Sentiva pezzi di pelle fra i denti e il sapore del suo stesso sangue sulle dita. Ne fu quasi tentato.
Da quel momento non si era più portato la mano alla bocca, con il terrore di poter fare qualcosa di tremendo nel caso la fame gli avesse annebbiato di nuovo la ragione. Gli girava la testa e la vista era annebbiata.
La porta cigolò, aprendosi lentamente. Istintivamente si alzò a sedere, nascondendosi nell'angolo più buio della cella. L'uomo avanzò verso di lui e Kei chiuse gli occhi, coprendosi le orecchie con le mani, iniziano a mormorare fra sé e sé.
Sopportò il più a lungo possibile quelle mani, quella bocca, quella lingua su di lui, che lo toccavano e lo sfioravano, disgustandolo. Trattenne i gemito quando lo penetrò, quando spinse dentro di lui, quando i suoi gemiti gli penetravano nell'orecchio senza fargli sentire nessun altro suono, nemmeno il proprio respiro. Trattenne i singhiozzi quando lo sentì venire dentro di lui, quando si sentì scivolare a terra, privato di qualunque cosa che possedesse in precedenza.
Sbatté gli occhi, non trovando nemmeno la forza per alzare un braccio per asciugarsi, quando il ronzio familiare della macchinetta fotografica gli fece alzare leggermente la testa.
Lontano dalla sua fonte di luce si trovava, debolmente illuminato dal led della macchinetta fotografica che, a differenza delle altre volte, non era una semplice polaroid, si trovava Arioka Daiki, l'uomo che lo aveva appena stuprato.
Distante meno di un metro da lui invece, si stagliava un secondo uomo, perfettamente visibile ai suoi occhi.
Kei sentì il fiato mozzarsi. Davanti a lui, che lo fissava con un sorriso sadico, una piccola tanica in una mano e un coltello in nell'altra, si trovava il collega del suo ragazzo, Takaki Yuya.

Yabu rimase immobile per minuti interi a leggere il fascicolo. Più andava avanti, più diventava bianco, rendendosi conto della vita di bugie che aveva vissuto fino a quel momento. Si rendeva finalmente conto del perché i superiori a volte lo guardassero con sospetto, tendente fino al disgusto.
Si rendeva conto del perché avesse impiegato così tanto tempo per diventare investigatore e perché avesse dovuto passare più prove di tutti gli altri suoi colleghi di lavoro. Si sentiva male nel rendersi conto che suo padre, quell'uomo con cui fino a pochi anni prima aveva un rapporto ma che, bene o male, aveva sempre stimato e rispettato, in realtà non fosse altro che un poliziotto corrotto.
Stava male nel vedere come l'egoismo di quella persona avesse rovinato la vita di tanti altri, altri che, come Takaki Yuya, avevano visto scivolare via dalle proprie mani quella che potevano considerare una vita dignitosa.
Aveva finalmente trovato un filo logico dietro tutta quella ragnatela che si apriva davanti a lui con ogni singolo omicidio.
Arioka Daiki era colui che torturava le vittime. Takaki Yuya era quello che le uccideva lentamente, assaporando ogni singolo istante, nutrendosi del dolore e della paure delle vittime, come se per lui fosse di fondamentale importanza.
A differenza di Arioka, che era soddisfatto solo dietro alcune foto a causa di abusi subiti in tenera età che gli avevano distrutto ogni sensibilità verso il genere umano, Takaki riusciva ancora a pensare a delle emozioni, a sentirle dentro di sé.
Solo che le sentiva solo quando erano gli altri a provarle. E in tutti quegli anni si era avvicinato a Yabu con il chiaro intento di farlo impazzire, di vendicarsi, tramite lui, per gli errori del padre.
Errori che avevano portato allo sterminio della famiglia di Takaki, ad anni passati a girare di orfanotrofio in orfanotrofio, di famiglia in famiglia, senza riuscire a provare quell'amore e quell'affetto che gli erano stato strappati in tenera età.
Errori che, in quel preciso istante, stava pagando Kei sulla sua pelle.
Quando lasciò la stazione di polizia per dirigersi alla vecchia casa di Takaki, prego con tutto sé stesso che fosse sempre in tempo per salvarlo.

Raggiunse il luogo dove era avvenuto, ormai quasi quindici anni prima, la strage della famiglia di Yuya. Sul terreno c'erano solo le spoglie di quello che un tempo era una piccola casa, andata bruciata da molto tempo.
Il terreno era rimasto incolto, davanti a lui si vedevano solo resti di mobili e la spianata in cemento e mattonelle che doveva essere, un tempo, il pavimento.
Intorno a lui si stagliavano chilometri e chilometri di campagna. Aveva superato l'ultima casa quasi dieci chilometri prima. Non si stupiva di come nessuno avesse sentito le urla e le richieste di aiuto delle loro vittime.
Cercando di portare pazienza, le altre pattuglie della polizia avrebbero dovuto arrivare a momenti, si guardò intorno.
Poi, un urlo disumano. Afferrò la pistola d'ordinanza che portava alla cintura e salì sul cemento. A pochi metri da lui si trovava una botola. L'aprì e vide una scaletta scivolare nell'ombra.
Prese un profondo respiro ed entrò.

Kei sentì le prime gocce di acido penetrargli dentro la carne. Urlò, con tutto il fiato che aveva, cercando di dimenarsi, ma le catene erano troppo corte e troppo strette intorno ai suoi polsi.
Cercare di sfuggire a Takaki e alla sua arma micidiale, era pressoché impossibile. Udì delle leggere risatine. Arioka, sempre chiuso nel suo angolino, aveva la macchina fotografica davanti al volto e non faceva altro che scattare fotografie, mormorando con tono sempre più urgente “Più dolore fratellino, più dolore ancora.”
La vittima fissò Yuya, terrorizzato. L'altro lo guardò, sorridendo sempre con il solito sorrisetto sadico e annuì.
Avvicinò il coltello al volto di Kei e poi si voltò a fissare Arioka, quasi amorevolmente, ma quella sensazione durò poco.
« Sì. Lui è il mio piccolo fratellino. » ridacchiò, sommessamente « Il padre dell'uomo che ami, quel santo di Yabu Kota, ha ordinato alla yakuza di sterminare la mia famiglia. Io ero fuori quel giorno ma Daiki... Daiki era nella sua stanza che dormiva. E' sopravvissuto per miracolo, riportando delle ustioni sul volto e parte del corpo. So che né tu e né le altre ragazze c'entrate in tutto questo ma... mi capisci no? » chiese tornando a guardarlo malefico « Mi servivate per farlo soffrire. Per fargli capire che cosa vuol dire perdere tutto. E tu, con la tua morte, glielo farai finalmente capire. Grazie. »
Senza alcun preavviso, Yuya conficcò il coltello nel petto di Kei, che gemette, quasi stupito da quel gesto così repentino.
Il coltello penetrò più e più volte il corpo di Kei, anche quando fu senza vita, appeso come un animale al macello al muro. Ma a Yuya non importava. Non importava niente. Ogni volta che affondava il coltello nella carne tenera di Kei, si sentiva finalmente felice.
Sentiva che per ognuna di quelle coltellate era dolore a Yabu ed era euforico.
Quasi non si rese conto del proiettile che lo colpì al centro della testa. Quasi non rese conto che, nonostante tutto, l'ultima cosa che vide fu il volto di Yabu quando lo andò a girare di schiena.
Morì in quel modo. Osservando l'uomo che odiava di più al mondo mentre piangeva. Fondamentalmente, non era una morte così brutta. Anzi, era quasi soddisfacente.

I poliziotti arrestarono Daiki, che in realtà non fece così tanta resistenza all'arresto. Yabu rimase in piedi a fissare per tempo interminabile il corpo di Yuya prima di riuscire a trovare il coraggio per fissare quello di Kei.
Quando lo vide non riuscì nemmeno a singhiozzare tanto era disperato. Si limitò a scivolare sulle ginocchia, abbracciando l'uomo che amava e nascondendo il viso nei suoi vestiti pieni di sangue, annusando per l'ultima volta il suo odore e continuando a ripetergli che gli dispiaceva.
Non riuscirono a portarlo via con la forza. Rimase per ore attaccato a quel corpo, piangendo tutte le sue lacrime.

Erano passati due anni da quel giorno. Yabu aveva lasciato la polizia per un posto da impiegato più tranquillo.
L'incubo di Kei lo tormentava ogni notte e ogni giorno andava alla sua tomba per pregare e chiedere perdono.
Non sapeva quando sarebbe giunta la sua ora, ma Yabu si chiedeva, ogni giorno, se alla sua morte avrebbe finalmente rivisto Kei e se, per allora, sarebbe mai riuscito a perdonarlo per averlo costretto a quella morte tanto orribile.
E si chiedeva anche se, per allora, sarebbe finalmente riuscito a perdonare anche se stesso.
Ma allo stesso tempo era anche convinto che, se Kei avesse mai potuto perdonarlo, Yabu non ci sarebbe mai riuscito.
Aveva perso l'uomo che amava, aveva perso la sua vita, aveva perso tutto quanto.
E tutto quello, tutto in una sola notte.
Aveva perso tutto. Non gli era rimasto niente.
In una sola notte, anzi, anche meno, in poche ore, aveva visto la sua vita scivolare nell'oblio.
E, fino a quel momento, non era ancora riuscito a ritrovarlo.
E lo sapeva bene. Fino al giorno della sua morte, non l'avrebbe mai più ritrovata.

Fine.

pg: takaki yuya, challenge: cow-t2, pairing: yabu x inoo, fandom: hey!say!jump, challenge: mezza tabella, pairing: arioka x inoo

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