Titolo: Hoshi wo mezashite
Fandom: Hey!Say!Jump
Pairing: Yabu Kota x Inoo Kei ; Takaki Yuya x Inoo Kei ; Takaki Yuya x Chinen Yuri ; Yabu Kota x Yaotome Hikaru.
Rating: NC17
Avvertenze: Slash, NonCon!, Death!Fic, Violence, AU!, Under!Age
Disclaimer: I personaggi non sono miei, tutti i diritti riservati e i fatti narrati sono frutto della mia fantasia. La storia non è scritta con scopo di lucro.
Riassunto: Kei è stanco della sua vita. Stanco di quella routine che lo stava lentamente uccidendo. E Kota, il suo padrone, il suo carnefice e l’uomo che lo aveva comprato non migliorava le cose.
Note: Scritta per il
bigbangitalia.
Note 2: Scritta per la
500themes_ita con i seguenti prompt.
“25. Soffrire l’agonia.”
“338. Affetto crescente.”
“253. Da solo vado in pezzi.”
“154. Favola incompleta.”
“339. Un tempo per essere in lutto.”
“108. Promettimelo.”
Note 3: Scritta per la
diecielode con i seguenti prompt:
"You trick your loves // That yo're wicked and divine"
“The undisclosed desires in your heart.”
“You may be a sinner.”
“Your beauty’s not just a mask.”
"I'll make you feel pure."
"Trust me // You are the one"
WordCount: 23.331 @
fiumidiparole Infine, ma non meno importante, per questa storia
vogue91 ha creato uno splendido fanmix. Meraviglioso. Mi è piaciuto tanto! ** Ancora grazie! <3
Gift!
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vogue91 Lista capitoli precedenti:
-
Capitolo 01 -
Capitolo 02 -
Capitolo 03 **
Capitolo 04
“Se c’è qualcosa che desideri,
allora ti porterò ovunque.”
{Hey!Say!Jump - Mayonaka no Shadow Boy}
Era stanco Takaki. Stanco di non riuscire a fare nulla per sé stesso e per Kei. Anche in quel momento spingeva dentro di lui e il ragazzo godeva.
Spingeva e non riusciva a trovare nessun modo per andare avanti. Si sentiva di nuovo sporco, come quando era un bambino. A causa di Chinen, sentiva che nulla di quello che provava nei confronti di Kei potesse essere di nuovo puro.
Venne con un gemito basso. Kei sotto di lui ansimò.
Avrebbe voluto uccidere Chinen e stare per sempre con Kei. Perché lo amava così tanto che non riusciva a pensare ad altro.
Lavorava nella sua banca, tutto il giorno, solo con l’idea di lui in testa. Rovinava il futuro della gente, rubava loro i soldi, riciclava denaro sporco.
E tutto quello solo per poter stare con lui, anche solo una notte in più. E non ci riusciva più Yuya a reggere tutto quello.
Non riusciva più a toccare il corpo di Kei dopo aver toccato quello di Chinen. Ed era da troppi mesi che quella storia andava avanti per essere ignorata.
Kei si avvicinò a lui, baciandogli il petto. Era sicuro che anche Kei ricambiasse il suo amore.
Non faceva altro che ripeterlo. Che lui era diverso, che lui era speciale, che con lui si sentiva di nuovo un essere umano.
E voleva dargli qualcosa di più di una squallida scopata in un hotel di lusso. Voleva vivere con lui, tornare a casa dopo il lavoro e trovarlo lì, felice, per lui.
Voleva che Kei avesse una vita, degli amici, magari un diploma o un lavoro. Avrebbe voluto vedere per sempre quel sorriso che gli mostrava solo qualche lo vedeva.
Lo strinse a sé.
« Kei, ascolta. » mormorò.
Il ragazzo alzò lo sguardo, osservandolo.
« Che ne diresti se… io e te scappassimo? Potremo farci una vita, insieme. Saremo felici insieme, no? »
Kei si alzò a sedere, osservandolo senza parole.
« Cos… no Yuya. No. » rise, istericamente « Sei pazzo? Ci uccideranno! Io… non posso andarmene, mi troveranno ovunque. »
« No, cambieremo nome, cambieremo città, cambieremo anche stato se serve. Io… ti amo e voglio renderti felice, per sempre. Io… devo solo sapere se tu vuoi stare con me. »
« Yuya, non dire stupidaggini. Loro… »
Il più grande lo interruppe, baciandolo dolcemente.
« Pensa. Una vita io e te insieme. Per sempre. Non dovresti mai più fare questa vita, nessuno ti toccherà mai più se tu non vuoi. »
Kei era sempre più sbalordito. Yuya era serio, maledettamente serio. E quella proposta… quella vita che aveva sempre desiderato, che aveva sempre sognato ma che non aveva mai potuto raggiungere.
Avrebbe voluto farla. Svegliarsi nel proprio letto, andare a letto in un letto dove c’era solo la persona che amava.
Avere un lavoro, un vita vera. Sì, gli piaceva quella prospettiva.
Senza più vedere quella brutta faccia di Yaotome, senza più dover sentire su di sé lo sguardo triste di Yuri, senza più…
…Senza più tornare nella casa di Yabu.
Non lo avrebbe mai più rivisto. E lo avrebbe dimenticato. Ne era sicuro. Per quanto avrebbe fatto male dimenticarlo, per quanto avrebbe sofferto nel non vedere più il suo viso infantile appena sveglio o soddisfare le sue richieste ancora più idiote, lo avrebbe dimenticato.
E’ nella vita umana dimenticare le persone, giusto?
Annuì, con le guance rigate dalle lacrime. Dimenticare Yabu sarebbe stato così difficile?
Non voleva farlo. Non voleva stare senza di lui, ma non poteva più stare in quel posto, in quel luogo, inseguito da quelle mani che lo toccavano, senza che lui lo volesse..
Che lo picchiavano, stupravano, abbandonavano.
Si passò la mano dietro il collo, sentendo il tatuaggio sotto le sue dita, il segno che sarebbe stato per sempre di Kota. E gli piaceva sentirsi di sua proprietà.
Annuì ancora, cercando di limitare i singhiozzi. Yuya lo abbracciò e lo strinse a sé.
**
Uscirono dall’ascensore che il casinò era ancora colmo di gente. Abbandonarono senza farsi vedere il palazzo, chiudendosi nel primo taxi. Fecero una rapida sosta a casa di Yuya per prendere poche cose.
Kei avrebbe voluto tornare a casa sua a prendere uno dei suoi quaderni. C’erano dentro delle foto che lui e Yabu avevano fatto insieme.
Erano il suo ricordo più prezioso e l’unica cosa che non avrebbe mai lasciato indietro. Yuya però fu irremovibile. Si diressero direttamente a casa di un suo amico fidato, vuota.
Il più piccolo entrò dentro la grande villa. Sembrava di essere nella stessa casa tradizionale della famiglia di Yabu e Chinen, quella dove in teoria entrambi avrebbero dovuto vivere, ma che non frequentavano se non per il lavoro.
Kei si sedette nel salotto, davanti al tavolino, in silenzio. Pioveva. E Kei odiava la pioggia.
Piove. E Kei odia la pioggia.
Vorrebbe fare qualcosa. Lo stomaco brontola e la fame lo sta uccidendo. Non pensa di mangiare, nemmeno quel giorno. Ha perso il conto dei giorni che è rimasto senza cibo. Almeno hanno ancora l’acqua potabile. Fa schifo. Ma è l’unica cosa che gli ha permesso di sopravvivere.
Dopo la morte del padre, un anno prima, sua madre ha svuotato quel poco che c’era nel conto corrente e non ha fatto altro che bere.
Le bottiglie sono accatastate sul tavolo e Kei non ha nemmeno le forze per alzarsi da terra e pulire.
Si è stancato di pulire il casino fatto dalla madre. E’ stato licenziato una settimana prima dal suo ultimo lavoro.
La madre lo ha picchiato, rubandogli i soldi e andandoli subito a spendere al conbini. E’ tornata con una decina di bottiglie di vodka.
E’ sempre a terra e Kei è stanco di vederla piangere. E’ stanco di patire la fame. E’ stanco di vederla supplicare gli yakuza a cui ha chiesto i soldi, indebitandosi fino ai capelli.
Kei medita di scappare. Da quando la madre lo ha picchiato. Medita, medita, medita. Ha un piano in testa, ma non riesce a metterlo in pratica.
Un tuono scuote le finestre della casa. Entra acqua dal tetto. Kei sente gli occhi chiudersi. Forse morirà.
Meglio così, no?
All’improvviso la porta di casa si spalanca e sulla soglia appaiono i due yakuza che da cinque mesi ormai li tartassano per avere dei soldi.
E Kei lo sa, lo vede da come il più grande lo guarda che è arrivato il momento di morire, perché non avrebbero più aspettato.
Kota, così gli è parso il suo nome, lo guarda. Si morde un labbro, come se stesse guardando un cibo. E Kei distoglie lo sguardo, perché ha paura. Quello che dovrebbe essere più piccolo, Yaotome, rimane appoggiato con la spalla allo stipite della porta. Mastica rumorosamente un gomma.
Piove, più forte.
Kei gli vorrebbe solo dire di muoversi a piantargli quella pallottola in fronte, perché ha così tanta fame che desidera solo mangiare qualcosa.
Kota si avvicina alla madre e lei striscia ai suoi piedi, continua a supplicarla e a singhiozzare. Lui la scosta via con un piede, facendola ricadere sulla schiena.
Poi le si avvicina. Ancora e ancora. Fino a che la punta della sua scarpa non sfiora il volto di sua madre. Lei piange, ancora.
Allora il ragazzo tira fuori la pistola e la carica.
« Il tempo è finito. » lo sente mormorare, piano.
Prende la mira e spara. La maglietta gli si sporca di sangue, ma non ci fa caso. Il cranio di sua madre è sfondato e Kei sente che sta per mettersi a vomitare.
Poi si avvicina a lui. Lo afferra per il collo, sbattendolo contro il muro. Kei non ha nemmeno le forze per gemere dal dolore o per ribellarsi. Rimane accasciato contro la sua mano, mentre le punte dei piedi cercano un appiglio per non soffocare.
Sente il metallo freddo della pistola contro la sua fronte e lo sguardo dello yakuza, folle, mentre lo squadra, da capo a piedi.
La pistola scivola lungo il suo corpo, sente il freddo passare attraverso l’unica maglietta che gli è rimasta perché il resto è stato tutto venduto.
Gli si riempiono gli occhi di lacrime e lo fissa.
« Muoviti. » sussurra piano, ma l’altro si limita a sorridere.
Lo lascia e poi lo spintona verso il futon. Si volta verso l’altro che si limita a sospirare e a chiudersi la porta alle spalle.
Yabu lo spoglia e le sue mani sono grandi e ruvide. Piange Kei.
Sente il suo corpo bollente premuto contro il proprio e, lentamente, il più grande che si spinge dentro di lui. Urla, ma l’altro non ci fa caso.
Continua ad andare piano, come se non avesse fretta. Si limita a posargli una mano sulla bocca, perché, dice, gli danno fastidio i singhiozzi da femminuccia.
Continua a spingere dentro di lui e si sente aprire in due, sente solo il dolore. Poi sente il suo sperma caldo dentro di lui e non riesce a fare altro che piangere.
Quando l’altro rientra, Kei si dice che nulla può essere peggio di Yabu. Non ha capito nulla.
Sotto le mani di Hikaru urla talmente tanto che vorrebbe uccidersi, in qualunque maniera. Lo tortura così tanto che non crede di poterlo più sopportare. Lo prende con violenza, come se volesse punirlo di qualcuno, come se il suo corpo fosse responsabile di qualche torto subito.
Vede solo il suo ghigno selvaggio e folle e rimpiange Kota. Continua a rimpiangerlo per ore, mentre lui non dà segno di stancarsi.
Mai.
Quando Yaotome lo lascia, Kei non riesce quasi a fare nulla. Kota rientra e lo guarda. Non riesce a decifrare il suo sguardo.
Lo afferra, senza dire una parola e lo sbatte dentro una macchina. Viene portato in un magazzino, legato e immobilizzato.
Gli viene tatuato il suo nome dietro il collo e un ramo di ciliegio che, dal nome, percorre tutta la sua spalla, terminando con un fiore. Kota non gli dice nulla.
Non gli parla nemmeno quando lo porta dentro un bellissimo palazzo a Shinjuku. E l’unica cosa che gli dice è che lavorerà per un certo Chinen Yuri.
Nulla di più.
La porta si aprì di scatto. Yuya sussultò e Kei rimase in silenzio.
Lo sapeva che sarebbe successo. Sospirò. Sentì gli occhi pieni di lacrime. Sapeva che non avrebbe mai potuto sfuggire a Yabu.
Quelle ore sono state come una favole, una meravigliosa favola incompleta di cui nessuno ha mai scritto un finale. Una favola incompleta, così come si è sempre sentito Kei. Vuoto. A metà. Fatto a pezzi e lasciato a morire in una stanza d’albergo, ora dopo ora.
Nemmeno per lui c’è un finale. C’è solo Kota, il suo padrone, il suo carnefice. L’uomo che ama e che odia. E non è niente. Solo un pezzo. Una sua proprietà e Kota lo avrebbe sempre ritrovato.
Nella stanza entrarono Yabu e Chinen e lui chinò la testa, non avendo il coraggio di guardarli in faccia. Yuya scattò in piedi, iniziando a balbettare qualcosa.
Yabu gli rifilò uno pugno, premunendosi di colpirlo anche con il calcio della pistola e Kei lo vide rotolare a terra, portandosi una mano al naso.
Kei sentiva il fiato pesante e Yabu lo raggiunse. Era furioso. Lo afferrò per il colletto, alzandolo bruscamente in piedi.
« La verità, piccola puttana. » sibilò « E’ stato volontario? » chiese piano mentre Chinen era rimasto fermo a fissare Yuya, a terra che si teneva il naso rotto tra le mani.
Sentì Yuya urlare di no, che lo aveva costretto, che era tutta colpa sua. La mano di Kota lo afferrò per il mento, alzandogli di nuovo la testa e costringendolo a fissarlo negli occhi.
« Tanto morirà ugualmente. Voglio la verità. » ringhiò di nuovo.
Kei lo fissò, gli occhi lucidi e in quelli dell’altro non vide altro che il nulla.
« Sì. Sono scappato con lui. »
Il più grande si morse un labbro, sempre più forte. Poi lo colpì. Una, due, tre volte, fino a che non sentì il proprio volto ricoperto da una maschera di sangue.
Kota ansimava. Poi tornò da Yuya e caricò la pistola. Kei si alzò in piedi, mettendosi fra lui e l’uomo a terra. Si inginocchiò, trattenendo le lacrime e fissando Kota negli occhi.
« Non lo fare. Per favore. »
Non ottenne nulla. Kota gli diede un calcio nel petto, facendolo cadere a terra.
Stava per sparare quando Chinen lo fermò. Lo vide chiudere gli occhi e poi scuotere la testa.
« Ci penso io Kota. Voi andate. »
Il ragazzo schioccò la lingua. Lo afferrò per i capelli, iniziando a camminare. Kei faticò per rimettersi in piedi e per stare al suo passo.
Cercava di non piangere, ma non ci riusciva. Erano anni che non gli capitava che Kota lo picchiasse così tanto.
Lo spinse in macchina, sul sedile posteriore. Kota si accese una sigaretta, mettendosi sul sedile del guidatore. Udì lo sparo e Kei sussultò, strozzando un singhiozzo in gola.
**
Chinen fissò l’uomo che amava. Era a terra, che singhiozzava e che gli chiedeva di avere salva la vita.
Non poteva. Gli ordini di Kota non veniva mai messi in discussione e, per una volta, non aveva avuto voglia di farlo. Si sentiva tradito da Yuya, anche se sapeva che non aveva alcun motivo per sentirsi in quella maniera.
Fra loro non c’era niente, se non del sano sesso. Ma vedere che Takaki aveva rischiato la sua vita per Kei, in qualche modo lo feriva.
Yuya era a terra. Avrebbe voluto baciarlo, farsi toccare e scopare. Un’ultima volta. Ma non poteva.
Socchiuse gli occhi, ricordandosi solo dell’ultima volta che si erano visti. Di come si era sentito patetico, ma incredibilmente felice.
Prese la pistola da dietro la schiena, controllò i proiettili e poi la caricò.
Odiava quel lavoro. Odiava Kei che era scappato, odiava Yuya che aveva deciso di sacrificare anche la sua vita per poter stare con lui.
Odiava tutto e tutti.
Sentiva le guance bagnate dalle lacrime e lui odiava piangere. Si faceva schifo, più schifo del solito perché vedeva la propria mano tremare mentre puntava la pistola contro la testa di Yuya.
Socchiuse gli occhi, perché non trovò il coraggio di ucciderlo guardarlo.
Sparò. Un colpo solo. L’odore della polvere da sparo si mischiò subito a quello del sangue. Scivolò sulle ginocchia, sentendosi improvvisamente debole, i singhiozzi che non volevano fermarsi.
Cercò di avvicinarsi a lui e si accostò al suo volto. Lo accarezzò, poi prese la sua mano, ancora incredibilmente calda e se la portò al volto. La baciò, delicatamente. Poi posò le sue labbra su quelle di Yuya.
Erano calde e morbide, come se fosse stato in vita. I suoi singhiozzi si fecero più forti e sentiva il corpo scosso dalle lacrime.
Rimase per qualche minuto accanto a lui, il tempo per calmarsi.
Poi infilò gli occhiali per coprire gli occhi rossi dal pianto e uscì dalla casa, abbandonandosi dietro il corpo dell’unico uomo che avesse mai realmente amato.
**
Kei si chiuse lentamente la porta alle spalle. Kota si tolse le scarpe, sempre più irritato e poi si buttò sulla poltrona. Spense la sigaretta, accendendosene subito dopo un’altra. Kei rimase in silenzio.
Kota non gli aveva parlato per tutto il lungo tragitto fino a casa. Nemmeno Chinen aveva aperto bocca. Si limitava a rimanere seduto sul sedile del passeggero, una gamba al petto e fissava fuori dalla finestra. Fumava, senza dire nulla.
Il più grande accese la televisione, continuando ad ignorarlo. Kei si diresse in stanza da letto.
Rimase immobile, in attesa che Yabu arrivasse per punirlo. Non si era nemmeno pulito del tutto il sangue dal volto.
Yabu non arrivò. Non tornò nemmeno per dormire. Kei aveva chiuso gli occhi solo per un paio d’ore e si concesse di piangere la morte di Yuya.
Al mattino dopo uscì dalla stanza. Kota non c’era. Non lo aveva sentito uscire. Si sedette sulla poltrona e spense la televisione che l’altro aveva lasciato accesa. Sul tavolo un biglietto gli diceva di non andare a lavoro da Yuri, almeno per qualche giorno.
Obbedì. Rimase seduto in poltrona fino a che non tornò la sera. Poi si spostò di nuovo in camera.
Di Kota nessuna traccia.
Rimase chiuso in casa, mangiando poche volte. Non aveva fame, né sete. Si costrinse a bere qualcosa, giusto per non morire di fame.
Erano già passati quattro giorni quando finalmente la porta si aprì.
Kota rientrò in casa, gettando la borsa a terra. Si tolse le scarpe e, di nuovo senza parlargli, si diresse in bagno.
Kei sentì l’acqua scorrere e tornò ad accucciarsi sulla poltrona, osservando il televisore spento. Il più grande uscì poco dopo, solo con un asciugamano e i capelli umidi. Si diresse in stanza e lo vide stendersi sul letto.
Il più piccolo decise che avrebbe accettato qualunque cosa e lo seguì, ma Yabu si voltò verso di lui.
« Non voglio dormire con te. » mormorò solo chiudendogli la porta davanti.
Kei avrebbe voluto urlare. Rimase immobile, troppo sconvolto per poter dire qualcosa. Poi si arrischiò ad entrare.
Yabu era sdraiato sulla sua parte di letto e non aveva alzato gli occhi quando era entrato. Si sdraiò al suo fianco e gli posò una mano sul fianco, ma il più grande la scacciò.
« Non toccarmi Kei. » lo riprese aspro.
Kei lo ignorò e riprese a toccarlo. Lo sentì sospirare pesantemente e lo vide stringere i pugni, ma non si fermò. Si avvicinò a lui, accarezzandogli la schiena tatuata e quel ramo che anche a lui percorreva l’intera spalla, interrompendosi come si interrompeva il suo.
Lui era suo e quel tatuaggio ne era la prova. Poteva appartenere solo a lui.
Fece aderire il suo petto alla sua schiena, appoggiando la testa accanto a lui. Rimase in silenzio, a lungo.
« Ti fa così schifo, vero? » mormorò Yabu piano.
« Cosa? » sussurrò Kei.
« La tua vita. È così schifosa da giustificare la morte di Takaki? » domandò ancora.
Kei rimase in silenzio. Poi annuì. Vide Yabu stringere ancora di più i pugni e intravide una lieve striscia di sangue. Non fece nulla. Si sentiva in colpa, troppo in colpa per potersi giustificare in una qualunque maniera e il silenzio, la delusione e il disgusto di Kota non lo aiutava.
« Ci avresti fatto più bella figura se ti fossi tagliato le vene. » lo riprese Yabu scostandosi una seconda volta dalla sua presa.
« Kota, sono una puttana. Mi vendi al miglior offerente tutte quante le sere. Che cosa dovrei dirti? Che sono felice? » urlò alla fine alzandosi a sedere
« Sì. Fingi di esserlo allora. Perché se non ti piace allora prendi e ti uccidi. » ansimò il più grande senza muoversi.
« Perché è a causa tua se è successo tutto questo, Kota. E’ solo a causa tua se mi ritrovo qua con te adesso! »
Kota si voltò verso di lui. Aveva gli occhi lucidi. Aprì e richiuse la bocca un paio di volte prima di sospirare profondamente. Scosse la testa, come se si fosse stancato di combattere contro un muro.
Kei poteva sentire il suo fiato sempre più pesante e si avvicinò di nuovo a lui. Gli strinse il volto fra le mani, dandogli dei leggeri baci sul volto e sul collo e l’altro chiuse gli occhi, riprendendo a scuotere la testa.
« Sono nove anni che me lo rinfacci quasi tutti i giorni Kei. Sono stanco. » mormorò piano girandosi e appoggiando il volto contro la mano dell’altro « Sono stanco di sentirmi in colpa e di desiderare di non averti mai salvato. So di aver sbagliato e non ho bisogno di te che me lo ricordi ogni secondo. » mormorò ancora, senza guardarlo.
Kei scosse la testa, piano, muovendosi contro di lui, desiderando solo di sentire le sue mani addosso, come ogni giorno. Odiava il modo in cui lo prendeva, odiava il modo in cui lo scopava, ma gli andava bene. Se ne era fatto rapidamente una ragione.
Desiderava solo averlo accanto perché aveva capito, con il passare del tempo, che amare Kota era l’unica cosa bella che gli era mai capitata fino a quel momento. Lo amava.
Anche se aveva cercato di andarsene via con Takaki, anche se per qualche mese i suoi sentimenti erano vacillati, anche se preferiva i modi e le gentilezze del suo cliente, non poteva stare senza di lui.
Perché quando Takaki gli aveva proposto di andare via con lui, aveva tentennato e solo perché, ne era convinto, non avrebbe mai potuto dimenticare Kota. E in quel momento si pentiva di aver detto di sì a Yuya perché non si meritava di morire in quel modo.
Non si meritava di morire a causa sua, a causa di una punizione dalla quale non si poteva scappare.
Lo avrebbe rivoluto indietro. Ma non poteva perché lo sapeva bene.
I morti non tornano indietro.
« Perché mi hai salvato Kota? » chiese piano.
Era la prima volta che glielo chiedeva. Prima non aveva mai avuto il coraggio di guardarlo in faccia e sentirsi dire che era solo un oggetto, un mero contenitore utile solo a svuotarsi le palle.
« Quando mia madre era morta da pochi mesi, mi ero gettato nel lavoro, senza sosta. Era l’unica cosa che riuscisse a farsi dimenticare tutto quanto. Quando mi è stato dato il caso di tua madre e ti ho incontrato… non lo so, qualcosa nel mio cervello è scattato. Ed io ho deciso che ti dovevo avere, in un modo o nell’altro. Ero pazzo, semplicemente folle. »
« E’ solo per questo che lo hai fatto? Perché eri folle? » mormorò piano Kei.
Kota gli accarezzò il volto.
« Ero ossessionato Kei, tu non lo capisci. Ero fuori di me e tu… » si morse un labbro, indeciso sul continuare « E vedere te mi ha aiutato. Io… ti dovevo avere, per la mia stessa salute. So che non puoi capirmi, ma è così. » gli accarezzò il volto « La tua bellezza non è solo una maschera Kei. Tu sei molto di più di un bel viso o di un bel corpo da scopare. Tu sei tutto, ricordatelo. »
« La morte di tua madre ti ha sconvolto così tanto? » chiese il più piccolo.
« Sì lei… » sospirò « Non so perché si è uccisa. Io e Yuri l’abbiamo trovata appesa al soffitto, un giorno di gennaio. Le sentivo le cuoche quando parlavano di lei, prima che morisse. Lei… diceva sempre che io ero maledetto e che non dovevo nascere. Ha cercato di abortire, ma mio padre glielo ha impedito. Forse per quello si è uccisa. » scosse le spalle, trattenendo le lacrime.
Si alzò a sedere, afferrando il pacchetto di sigarette e accendendosene una.
« I gusti di mia madre e di mio padre non si sono mai incontrati. Lei odiava me e lui odiava Yuri. E’ per questo che sono io il boss della famiglia. » scosse le spalle, ridacchiando di nuovo « Lei si è uccisa il giorno del mio compleanno. » sussurrò piano.
Kei si avvicinò di nuovo, accarezzandogli il tatuaggio e stringendo le mani sulle sue spalle.
Ci aveva provato solo il primo anno a chiedergli qualcosa riguardo la sua vita, per intavolare una discussione fra una giornata e l’altra. Aveva rimediato una scarica di botte e da quel giorno non aveva più fatto domande.
Il lutto nove anni prima doveva essere ancora fresco. Forse, un giorno, avrebbe smesso di sanguinare la sua ferita.
Non disse nulla. Kota si stava aprendo con lui e non voleva fare o dire nulla che potesse rischiare di farlo chiudere di nuovo a riccio su sé stesso. Si pentiva amaramente di aver cercato di scappare.
La delusione negli occhi di Kota era la cosa peggiore che gli fosse mai capitato di sopportare.
« È oggi il mio compleanno. Nove anni fa mia madre si è uccisa maledicendo il mio nome e la mia nascita. »
Kei lo abbracciò. Lo baciò di nuovo su una guancia. Si alzò, sedendosi su di lui e circondandogli il collo con le braccia, tirandolo a sé.
Si avvicinò lentamente. Socchiuse gli occhi. Poi lo baciò. Kota gliene aveva rubati molti di baci prima di quel momento, ma era la prima volta che lo baciava di sua spontanea iniziativa e il sapore delle sue labbra era qualcosa che non avrebbe mai voluto dimenticare.
Sentì le sue mani sulla sua schiena e gemette leggermente, senza mai smettere di baciarlo. Si divorarono le labbra a vicenda, mentre Kei sentiva la mano di Kota scivolare verso la sua erezione e stimolarlo lentamente.
« Ko-Kota, cosa…? »
« Zitto. » sussurrò l’altro « Non rovinare questo momento con le tue stronzate. » mormorò riprendendo a baciarlo.
Kei si lasciò andare contro di lui, lasciando che la mano del più grande lo eccitasse sempre di più, secondo dopo secondo. Kota lo afferrò per i fianchi, facendolo stendere sul materasso e si sistemò fra le sue gambe.
Sentì la sua lingua sull’erezione e gemette a voce più alta e sussultò quando la sentì invece stimolare la sua apertura. Gli afferrò i capelli, come per allontanarlo, ma l’altro si scostò con un gesto brusco, continuando la sua operazione.
Si rialzò e poi lo penetrò, lentamente, e Kei gli strinse le mani intorno alle spalle, gemendo il suo nome, fino a quando non venne nella sua mano e lui non lo sentì venire dentro di sé.
Ansimò, lasciandosi ricadere sul materasso. Si strinse al più grande, accarezzandogli il petto.
Kota non avrebbe mai parlato di quello che aveva appena fatto, della sua gentilezza e lui non gli avrebbe detto quanto gli fosse piaciuto fare sesso con lui e da quanto tempo desiderava farlo in quella maniera.
« Sono indietro di molti regali allora. Oggi pomeriggio vado a comprarti un regalo. »
« Non c’è ne è bisogno. Non sono tipo da regalo. » scosse le spalle « Non lo festeggio nemmeno. Di solito… mi compro qualcosa e poi vado in uno dei ristoranti più lussuosi di Tokyo. E’ divertente avere schiere di camerieri ai miei ordini. » rise l’altro.
« Immagino. Ma ci tengo. Te lo voglio fare. »
Kota gli strinse una mano intorno al fianco, stringendolo a sé.
« Allora… se hai dei vestiti decenti, stasera potresti venire con me. Che ne dici? » mormorò sulle sue labbra.
« Non vado spesso nei ristoranti di lusso. » rispose prima di baciarlo « Stanotte puoi farmi quello che vuoi Kota. »
Il più grande lo fece stendere fra le sue gambe e lo baciò, senza fermarsi.
« Voglio legarti al letto e farti urlare. » sussurrò
« Lo farò. »
« Voglio che tu mi implori Kei. »
« Lo farò. » ansimò di nuovo Kei, mentre l’eccitazione lo stava devastando.
« E voglio che tu gemi il mio nome. »
« Lo farò Kota. » gemette ancora.
Kei si strinse a lui e si fece prendere, di nuovo e di nuovo. Era una sensazione che non aveva mai provato prima di quel momento. E non voleva assolutamente dimenticarla.
**
Kei era legato al centro della stanza, sul letto. Le corde che lo stringevano erano strette ad un lato della spalliera del letto e Kota si stava spingendo dentro di lui. Da ore. Erano tornati a casa dalla cena intorno alla mezzanotte e ormai poteva quasi intravedere l’alba fuori dalla finestra. E gli piaceva perché per la prima volta si sentiva amato. Le mani del più grande avevano vagato per ore su di lui, mentre gli impediva di venire con un anello stretto alla base del pene.
Ansimava a voce alta Kei, ansimava il suo nome e non avrebbe mai voluto smettere di farlo perché sentire la voce di Kota che invece chiamava il suo era la cosa più eccitante che potesse esserci. Aveva i suoi segni addosso, il petto e la schiena marchiato da ferite, ma al più piccolo non importava.
Ad un certo punto Kota lo fece stendere e si sdraiò in mezzo alle sue gambe, facendo frizionare le due erezioni. Kei urlò e gli strofinò il viso contro il collo. Kota lo sentiva umido di lacrime.
« Ti supplico. Fammi venire. » ansimò « Non ce la faccio più. »
Il più grande gli sorrise. Si avvicinò alla sua erezione e la leccò, lentamente. Kei la spinse contro la sua gola e lui non fece resistenza.
A Kota piaceva il suo viso sofferente, specialmente di quel tipo di sofferenza. Si alzò, lasciandolo di nuovo.
« Ora ti farò soffrire ancora di più. » mormorò al suo orecchio.
Kei scosse la testa, senza la forza per dire altro. Kota si mise su di lui e il più piccolo non ebbe modo di fare o dire nulla che lo vide e lo sentì spingersi contro la sua erezione. Kota gemette, stringendo il lenzuolo fra le mani, senza fiato.
Era la prima volta. Lo sapeva che avrebbe fatto male, ma doveva farlo. In quella maniera. Perché sennò non avrebbe avuto senso. Lentamente sentì il fiato tornargli e riuscì quasi a respirare, nonostante le lacrime si affollassero intorno ai suoi occhi. Piegò la testa al petto, mentre Kei lo fissava, sbalordito.
« Che cosa stai facendo? »
Kota non gli rispose, ma iniziò a muoversi goffamente su di lui. L’altro gemette di nuovo di piacere e il più grande sentiva solo il dolore trapanarlo ad ogni mossa.
Si sporse faticosamente all’indietro, liberando il più piccolo dall’anello che lo stringeva e fu questione di pochi minuti prima di sentire lo sperma di Kei riempirlo del tutto.
Rimase per qualche secondo immobile, poi, sempre abbastanza bruscamente, si alzò da lui, gettandosi al suo fianco. Si avvicinò, liberandogli i polsi e Kei riprese a fissarlo.
« Perché Kota? » chiese, questa volta deciso a farsi dare una risposta.
« Cosa? »
« Perché lo hai fatto? E anche oggi, perché hai fatto sesso con me in quella maniera? Io… non sono cose che mi aspetto da te. »
« Appunto. Per questo l’ho fatto. Perché ti stavi innamorando di Takaki e io non potevo accettarlo. »
« Come mai? » esclamò Kei.
« Perché… tu sei mio, no? Insomma… devi rimanere con me, per sempre. » mormorò scuotendo le spalle, afferrandogli le mani.
Kei scosse la testa.
« Solo per questo? » sussurrò deluso.
Ci aveva sperato, lo ammetteva. Aveva sperato che magari Kota gli dicesse qualche parola gentile, ma aveva palesemente riposto male la sua fiducia.
Alla fine era solo una inutile lotta di orgoglio maschile. Un orgoglio oscuro e malsano, che lo divorava dall’interno. Non era altro che l’ennesima scopata per lui. Per vantargli con altri uomini, per aumentare il suo ego, per pavoneggiarsi con loro.
Un orgoglio oscuro. Uno di quello che ti più uccidere e che può ferire le persone che ti circondano. Per lui era solo una tacca sulla cintura e doveva dimostrare di essere migliore di lui, sempre.
Kota lo afferrò di nuovo per le spalle, baciandolo. Kei lo lasciò fare, senza ricambiare.
« Io l’ho fatto perché… Kei, tu mi prenderai per pazzo. » esclamò sull’orlo di una crisi di panico.
Il più piccolo guardò, il sopracciglio alzato, incitandolo a continuare.
« Ti amo. » furono le sole parole che sentì.
Impiegò qualche secondo prima di registrarle. Avrebbe voluto riempirlo di domande, farsi dare tante risposte, ma decise che per quello c’era tempo il giorno dopo.
« Davvero? »
Vide le guance di Kota diventare completamente rosse e assumere la sua solita aria infantile che prendeva quando non voleva ammettere la verità, palese a tutti.
« S-Sì. » balbettò « Io non dico le bugie. » concluse poi dandogli le spalle « Buonanotte. »
Kei lo abbracciò, nascondendo il viso fra i suoi capelli e accostando la sua bocca all’orecchio.
« Anche io Kota. Anche io. »
Lo vide sorridere e annuire. Gli bastò solo quello. Con Kota al suo fianco sarebbe stato tutto molto più semplice.