Titolo: (There is no) Time for us
Fandom: Sherlock BBC
Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Rating: Nc-17
Avvertimenti: slash, spoiler da “The Reichenbach Fall”
Conteggio parole: 3727 (
fiumidiparole)
Note: Non lo so... sono felice! L'ho finita in tempo e mi piace tanto! *_* (Ed ecco a voi le note iniziali più inutili della storia! *ride*) Buona lettura, spero piaccia anche a voi! ^_^
PROLOGO
John iniziò a svuotare il borsone che aveva con sé. Meticolosamente, con cura, così la sua mente non avrebbe pensato ad altro, almeno per un po’. Un cambio d’abiti nell’armadio, l’astuccio per il bagno sul comodino, di fianco al libro consunto preso in prestito in biblioteca.
Finì in fretta, avrebbe dovuto preparare una borsa più grande...
Con un sospiro si sedette sul bordo del letto, lasciando vagare lo sguardo sul semplice mobilio della camera da letto. Dall’esterno il battere continuo di un martello pneumatico gli suggerì che gli operai che aveva notato in strada non avevano ancora finito il turno, quindi di dormire non se ne parlava.
Assorto, posò una mano sul copriletto e sbuffò piano alla vista dell’orribile fantasia scozzese; Harriet aveva sempre avuto un pessimo gusto, pensò, con un lieve sorriso.
Un sorriso tirato, tristemente forzato, solo un altro modo per non pensare.
Era arrivato a casa della sorella quella mattina, di buon’ora. Secondo il parere della sua analista, cambiare aria e vedere un viso familiare gli avrebbe fatto bene.
Harriet, certo.
Per una volta la dottoressa poteva aver ragione: con tutta probabilità sarebbero passati dai saluti agli insulti in poco tempo, quantomeno una variazione nella sua squallida routine. Così aveva aspettato il weekend, preso la metro e due autobus e raggiunto l’abitazione della sorella, una semplice villetta in un tranquillo quartiere di periferia. Poco traffico, niente clacson, la zona sembra avvolta da una placida atmosfera da fine settimana, leggermente turbata solo da alcuni lavoratori all’opera in strada, intenti a scavare ed armeggiare con dei tubi. Evidentemente qualcosa di urgente, per lavorare di sabato, ma meglio così, il troppo silenzio lasciava spazio per riflettere. Come in Baker Street dove, ormai assuefatto ai suoni della via, sembrava che nulla si muovesse - nemmeno il tempo - ed i pensieri prendevano forme troppo dolorose. O la notte, nel soffocante limbo dell’insonnia, quando gli pareva di sentire passi svelti per le scale, o il leggero pizzicare delle corde del violino. Ma poi balzava in piedi, il cuore impazzito, e la realtà divorava qualsiasi allucinazione, più crudele di ogni incubo, e lui ricadeva nel letto stremato, senza sapere più in cosa credere.
Così, era arrivato dalla sorella.
Sì erano salutati - “Come stai?” “Lasciamo stare. Tu?” - avevano preparato il pranzo, chiacchierato un po’.
Ed Harriet era stata fastidiosamente gentile fino all’ora del tè. Delicata, discreta, ineccepibile. Quello che ci si aspetterebbe da una brava sorella; proprio quello di cui John non aveva assolutamente bisogno.
Alla fine lei era dovuta uscire per il suo incontro settimanale con il gruppo di sostegno e il dottore si era ritrovato a ringraziare silenziosamente gli alcolisti anonimi, sospirando di sollievo. E non era riuscito a sentirsi minimamente in colpa per questo, semplicemente perché non riusciva a provare assolutamente niente, tranne quel vuoto che pareva volerlo divorare dall’interno e lasciava dietro di sé solo l’eco silenzioso di domande inespresse, che non avrebbero mai trovato risposta.
Come un automa si era trascinato fino alla camera degli ospiti, aveva sistemato le sue poche cose ed era rimasto a fissare il nulla.
Poi aveva concluso che nemmeno l’immobilità gli era d’aiuto, e aveva optato per una doccia.
ACT 1
Di ritorno dal bagno John dovette riconoscere ad Harriet che il suo pessimo gusto in fatto di arredamento era compensato da piccole scelte di stile che facevano seriamente pensare ad una doppia personalità. Ad esempio l’enorme, confortevole doccia che aveva appena avuto modo di provare, niente a che vedere con quella che avevano in Baker Street e no Dio, no...
Il pensiero gli aveva attraversato la mente prima che lui potesse controllarlo, frantumandosi contro il muro della realtà in mille schegge affilate. Nessun plurale. Nessun noi. Presto non ci sarebbe stato più nemmeno nessun Baker Street, ma solo scatoloni e ricordi e quella fottuta solitudine che non aveva senso perché nessun dannatissimo senso avevano avuto quegli ultimi momenti in cui lui non aveva potuto fare assolutamente nulla, se non guardare. Guardare la vita e la morte che danzavano insieme e parevano farsi beffe di lui, sgretolando tutto il suo mondo in pochi attimi di follia.
Ma John non aveva distolto lo sguardo, perché quello era il suo desiderio.
Aveva creduto in lui. E continuava a farlo.
Solo che ogni cosa, da quel giorno, era diventata più difficile...
Il dottore rientrò nella sua stanza, soffocando un’imprecazione nell’asciugamano di spugna che stava usando per tamponarsi i capelli. Lo lasciò distrattamente sul letto, strinse il nodo dell’accappatoio... e poi fu un attimo. I suoi sensi da soldato corsero più veloci dei pensieri e con un balzo John roteò su se stesso, abbassandosi per poi scattare addosso all’intruso. Con un tonfo lo schiacciò contro il muro, bloccandogli il collo con una mano stretta in una morsa rabbiosa mentre con l’altra stava già caricando un pugno.
“John.”
Il braccio restò sospeso a mezz’aria, le nocche talmente strette da sbiancare.
“John, sono io.”
Il dottore batté più volte le palpebre, sforzandosi di contrastare il boato violento che gli era esploso nei timpani, lasciandolo disorientato come ai tempi dell’Afghanistan, in giorno in cui una bomba era scoppiata terribilmente vicina al suo avamposto e per interminabili minuti lui non aveva sentito altro che un sordo ronzio.
“Sherlock?”
John sentì le gambe cedere nello stesso istante in cui la sua voce prendeva forma. Sherlock. L’ultima volta in cui aveva pronunciato quel nome era di fronte ad una tomba - la sua tomba - e il vento freddo aveva portato via la sua preghiera. E ora? Ora c’era solo il battito del cuore impazzito che rimbombava nelle orecchie, solo le braccia forti che lo sorreggevano mentre crollava sulle ginocchia, incapace di credere a ciò che aveva davanti. Ma gli occhi di Sherlock erano così veri, così vivi, che sovrastavano tutto il resto. John non smise di cercarli nemmeno per un attimo, mentre sentiva un improvviso calore farsi largo nel petto e attonito, quasi fosse un osservatore esterno, assisteva alla distruzione della parete di ghiaccio e dolore che aveva circondato la sua anima.
Proprio come quando aveva visto il suo corpo immobile riverso sull’asfalto, i secondi che si dilatarono fino a durare un’eternità; ma stavolta il dottore fu lucidamente consapevole che se si fosse trattato di un sogno, o di un inganno, o di chissà quale altra diavoleria, lui non sarebbe sopravvissuto. Il suo corpo, forse, ma lui si sarebbe frantumato per sempre.
“Sherlock, sei tu?” domandò, con il più puro istinto di sopravvivenza che prendeva la forma del sospetto.
L’uomo lo scrutò per alcuni secondi, poi sorrise appena, sollevando un angolo della bocca. “La volta in cui ci siamo incontrati, ti chiesi di prestarmi il cellulare e da lì ricavai praticamente tutto quello che serviva sapere del rapporto tra te e tua sorella, tranne per il fatto che all’inizio pensai si trattasse di un fratello. Ignoro le fondamenta del sistema solare - e la cosa ti disturba enormemente - ma mi piace guardare le stelle. Ho rubato un posacenere da Buckingham Palace dopo esserci entrato vestito solo di un lenzuolo. Non mi farei scrupoli a testare su di te un allucinogeno. Prima di buttarmi, dal tetto della Bart’s, ti ho chiesto di non distogliere lo sguardo da me.”
L’ultima frase era stata più un sussurro, in contrasto con l’iniziale, inarrestabile flusso di parole.
“Perché?”
“Non c’era altro modo, John. Non c’era tempo, né altra soluzione. E’ stata solo un’illusione. Un trucco per prendere tempo e...”
“Un trucco?” lo interruppe il medico, la voce alta e concitata. “Un’illusione? Ho visto il tuo cadavere, Cristo Santo! Avevi- aveva gli occhi aperti. Gli occhi aperti, Sherlock!” urlò John. “Sono stato al tuo funerale. Dio! Ho visto la tua tomba!”
“Mi dispiace.”
“Ti dispiace? Ti dispiace?!” John sbatté con violenza il palmo contro il muro alle spalle dell’altro, lasciando che il dolore alimentasse la sua collera, irradiandosi nel braccio. “Perché, Sherlock? Perché?”
“Eravate in pericolo, John, tutti voi.”
Il dottore non riuscì a capire cosa significasse quel “tutti voi”, ne ebbe voglia di chiederlo. Semplicemente sentì qualsiasi difesa scivolare via assieme alla rabbia e si accasciò di fronte a Sherlock come privo di ogni energia. Aveva iniziato a tremare.
“John, non abbiamo tempo per i dettagli ora, ma è stato l’unico modo. E’ stata Molly ad aiutarmi” - un sorriso sghembo rischiarò il volto serio del detective - “e sparire dalla circolazione è stato l’unico modo per poter raccogliere delle prove. Non si tratta solo di Moriarty, ma di un’intera rete. E nessuno di noi sarà realmente al sicuro finché...”
Ma John non lo ascoltava. Potendo lo avrebbe fatto, ma le parole di Sherlock si confondevano e tutto ciò che restava era il suono della sua voce che arrivava a lui come un fluido caldo. Dio, gli era mancata così tanto la sua voce.
Sherlock si era accorto del suo stato e si era interrotto. “Sei sotto shock,” aveva constatato, serio.
La replica del dottore era stata troppo simile ad un sussurro per essere udita.
“Cosa?”
“Mai più, Sherlock. Non farlo mai più.” La voce di John questa volta fu ferma, così come il suo sguardo limpido, diretto in quello del detective.
“Lo sai che se servisse lo farei altre cento, mille volte.”
“Non puoi fare a meno di vantarti, vero?”
Sherlock rise e per John fu spontaneo fare lo stesso. Anche l’ultima volta in cui aveva sorriso erano insieme, come quella prima e quella prima ancora. Sembrava passata una vita. E forse ci sarebbe voluta una vita perché tutto tornasse davvero come prima. O forse no, se Sherlock avesse continuato a tenere gli occhi su di lui e le mani strette attorno alle sue spalle. Baciarlo fu naturale come riprendere a respirare, lasciando che la gioia si facesse spazio nel cuore impazzito. Finalmente. E con tutta probabilità era davvero in stato di shock, ma non aveva alcuna importanza, perché i miracoli accadevano e lui non desiderava altro che esserne lo stupefatto testimone. Anche se poi sentì Sherlock diventare rigido come una scultura di ghiaccio ed improvvisamente i pensieri tornarono a scorrere nei rigidi binari della razionalità.
John si tirò indietro di scatto, come se si fosse scottato, pronto a pronunciare parole di scusa.
Ma il detective non gli permise di andare molto lontano.
Aveva mani grandi, Sherlock, che gli avvolgevano completamente la nuca, mentre lo baciava. Cercava le sue labbra con attenzione, curioso, studiando ciascuna reazione. John era certo che stesse catalogando ogni informazione, ma dal canto suo era troppo sconvolto per articolare pensieri che fossero più complessi di “lingua... la sua lingua”. E c’era calore ovunque, quando la bocca di Sherlock scese sul suo collo e a lui scappò un gemito incontrollato. John si sentì sprofondare dall’imbarazzo, ma c’era poco spazio per pensare con i denti dell’altro sulla pelle, mentre la vocina che tanto a lungo aveva continuato a ripetergli “non sei gay, non sei gay” veniva clamorosamente zittita dalla sua erezione che premeva contro la coscia del detective.
Dopotutto, l’esistenza era troppo breve per essere vissuta tra preconcetti ed incertezze, e le dita di Sherlock erano piacevolmente fresche mentre scioglievano il nodo del suo accappatoio e ne scostavano i lembi, prendendo a correre sulla pelle accaldata, sfiorandogli i fianchi e risalendo sulla schiena. A John sfuggì un sospiro quando sentì la stoffa scivolare via dalle spalle, ma persino l’essere completamente nudo passò in secondo piano, con Sherlock che si abbassava a baciare sua la cicatrice e con le braccia gli circondava il torace, stringendolo. Intenerito, John affondò le dita tra i capelli scuri e sfiorò i riccioli con la punta del naso, consapevole di come il compagno fosse travolto da quelle sensazioni esattamente come lui, se non addirittura di più, per quanto probabilmente non l’avrebbe mai ammesso.
John gli prese il viso tra le mani tornando a cercare le sue labbra, lambendole con la lingua umida. Era così bello baciarlo, così naturale sbottonargli la camicia e fremere al contatto della pelle contro pelle, sentendo l’eccitazione confluire nel membro di Sherlock che gli si spingeva contro, mandandogli il bacino in fiamme. C’era solo calore mentre si spostavano sul letto; solo calore mentre Sherlock si sfilava il resto dei vestiti e nell’aiutarlo John incontrava il suo sesso, conquistandosi il primo di una lunga serie di gemiti. Solo calore mentre, nudi, rotolavano sul materasso, i baci che diventavano via via più affamati e il desiderio che li avvolgeva come un fluido bollente, correndo tra loro fino ad annidarsi nelle erezioni strette l’una contro l’altra, umide di eccitazione.
“Oh, Sherlock... Dio!”
John si inarcò quando le dita dell’uomo scivolarono tra le sue natiche, stimolandolo. Era una sensazione troppo nuova e troppo bella per tentare di darsi un contegno, e la sua voce si sciolse in suoni sempre più incoerenti mentre Sherlock gli faceva qualcosa che mai avrebbe immaginato, scendendo tra le sue gambe ed unendosi con la lingua al gioco lascivo delle dita. Il dottore si coprì il viso con un braccio, avvampando, pensando che avrebbe dovuto considerare la situazione inopportuna, oltremisura imbarazzante, invece di ritrovarsi eccitato in maniera indecente ad invocare tra i gemiti il nome dell’altro. Persino il fastidio - il male, a tratti - perdeva di importanza mentre le tensioni venivano sciolte dal piacere e nuove, inaspettate sensazioni si facevano spazio, lasciando John completamente sconvolto. Sherlock risalì sul suo corpo, baciandogli la punta del pene, la pancia, il petto, poi di nuovo le labbra, e tremava di piacere quasi quanto John, ormai incapace di resistere oltre. Il dottore attirò l’altro su di sé, beandosi di avere il suo peso addosso, lasciandogli segni rossi sulla schiena. Come dare un nome a ciò che sentiva? Come resistere senza impazzire?
“Ti voglio dentro, Sherlock.”
Gli occhi chiari sgranarono alle parole, increduli. Che spettacolo meraviglioso.
“John... ti farò male.”
Il dottore si morse un labbro, in un gesto tanto inquieto quanto affascinante. Come spiegare che solo tramutando il dolore della perdita in dolore fisico - e solo se fosse stato proprio Sherlock a farlo, trasformando quello stesso dolore in piacere - sarebbe potuto tornare a vivere?
E poi, Dio, lo voleva così tanto...
Sollevò le gambe poggiandole sui fianchi di Sherlock e con le dita inumidite di saliva avvolse il suo membro, languido. Conosceva a sufficienza il detective per essere certo che avrebbe seguito con estrema attenzione ogni singolo movimento: la punta della lingua che bagnava le labbra e scivolava tra le dita, la mano che, lenta, scendeva sfiorandogli il petto e si chiudeva a stringere la sua erezione. Il respiro che accelerava, le pupille dilatate, liquide, e l’emozione nel viso, nel sesso, nel petto.
Ma forse John non conosceva a sufficienza se stesso, perché nulla avrebbe potuto prepararlo alla sensazione di Sherlock che entrava in lui e lo riempiva, respiro dopo respiro, con un’espressione di assoluto stupore sul volto magro, quasi non potesse credere che stesse succedendo davvero - proprio lui, che tutto prevedeva e tutto capiva - quasi non potesse credere che fosse così bello sentirsi avvolgere dal calore di un’altra persona, dal calore di John.
Il dottore aveva serrato gli occhi, trattenendo il fiato davanti ad un dolore che non immaginava così intenso. Ma persino mentre temeva che il suo corpo potesse spezzarsi, una sensazione di pienezza mai provata prima aveva iniziato a farsi largo, potente come le onde inarrestabili della marea.
E mentre Sherlock si muoveva lentamente su di lui e tremando cercava di respirare, il viso annidato contro il suo collo, la tensione era andata scemando e John aveva singhiozzato, senza fiato, quando i primi brividi di piacere avevano preso il posto del dolore.
“Oddio... Sherlock!”
Era un’emozione sconosciuta. Era il piacere che si mescolava alla meraviglia di avere Sherlock su di sé, dentro di sé, portando il mondo a svanire e concentrando l’intera esistenza solo tra i loro corpi legati insieme. Il detective premette la bocca sulla spalla dell’altro, morse la pelle del collo, la succhiò lasciando tracce rosse, mentre si muoveva più a fondo e bassi sospiri abbandonavano le sue labbra, suonando sempre più simili al nome del compagno.
Sherlock afferrò le mani dell’altro e le portò all’altezza della sua testa, intrecciando le lunghe dita con le sue. Tornò a baciarlo, a cercare la sua lingua, muovendosi con abbandono mentre John mormorava parole sconnesse, la sua erezione stretta tra i loro corpi.
Non c’era nulla oltre il desiderio che li avvolgeva, mentre i respiri si mischiarono in gemiti confusi e i movimenti diventarono puro calore che dal sesso divampò fin nel cervello. Sherlock aveva le labbra contro quelle di John, quando venne, spingendosi più a fondo nel compagno e tendendo il corpo come un arco, prima di sciogliersi nel tremore dell’orgasmo. Per John fu sconvolgente sentire Sherlock trattenere il fiato e poi gemere nella sua bocca, roco, stringendogli le mani e continuando a spingersi in lui - con il piacere che brillava come un lampo bianco dietro le palpebre mentre anche lui veniva con forza. E c’era solo Sherlock, di fronte a lui, dentro di lui.
ACT 2
Non c’era mai stato molto spazio per riflettere, da quando Sherlock era entrato nella sua vita. Il detective viaggiava ad un ritmo tutto suo, completamente diverso rispetto al resto delle persone, e dalla sua dimensione interagiva col mondo, senza preoccuparsi più del necessario. John ne era consapevole praticamente da sempre, anche se forse solo in quel momento iniziava a coglierne tutti i risvolti, mentre i pensieri tornavano al loro posto ed il respiro riprendeva un ritmo normale. Non sapeva cosa l’avesse più scioccato in quegli ultimi minuti, se Sherlock che tornava letteralmente alla vita oppure il modo in cui l’aveva fatto. Di sicuro però John fu lieto di vedere il detective rivestirsi senza fare particolari commenti, l’imbarazzo tradito solo da una lieve incertezza nell’armeggiare con i bottoni della camicia. Quanto al dottore, era troppo turbato da... da tutto, per poter dire qualcosa, ed avere del liquido caldo che gli colava tra le gambe non era minimamente d’aiuto. Si coprì alla meno peggio con l’accappatoio, rabbrividendo alla sensazione della stoffa inumidita, così spiacevole rispetto al calore di Sherlock... Ed arrossì senza controllo quando si rese conto che lo stava fissando mentre era ancora praticamente nudo. E che avevano appena fatto sesso. Probabilmente il miglior sesso di tutta la sua vita. Oh, merda, realizzò, era completamente impazzito...
Nello stato di confusione in cui si trovava, John impiegò un attimo per notare che Sherlock aveva finito di rivestirsi, recuperando da un angolo una vistosa giubba da lavoro, di un acceso arancione. Pazzesco, non l’aveva nemmeno vista, prima.
“Dove vai?” domandò di getto.
Sherlock lo guardò, lasciando che un sorriso obliquo gli addolcisse i lineamenti. “Te l’avevo detto, John, non abbiamo tempo ora,” rispose. “Io ero venuto qui per... altro. Perché hai perso quattro chili in due settimane e praticamente non esci se non per andare da quella tua analista. E non ha senso, non... non serve.”
Il detective era visibilmente a disagio, come tutte le volte in cui si trovava a fare i conti con la parte di sé che meno comprendeva: il suo lato umano. John gli si avvicinò, posandogli una mano sul petto. “Ed è per questo che entri nelle case altrui vestito come un semaforo?” chiese, addolcito.
“Non pretendo che tu capisca l’arte del travestimento,” replicò Sherlock, oltraggiato. “Era il modo migliore, per entrare qui senza essere notato. Per questo devo andar via presto, prima che gli operai in strada sembrino sospetti.”
La frase impiegò qualche secondo per assumere il suo esatto significato nella mente del dottore. “Non mi starai mica dicendo,” chiese John, incredulo, “che quel disastro qua fuori è opera tua?”
“Ovviamente no. Fosse stato per me, avrei scelto un metodo più sottile. L’idea è stata di Mycroft.”
“Cosa?” La domanda di John risuonò un paio di ottave più alta del normale. Si schiarì la voce, umettandosi per labbra, per darsi un contegno. “Cosa?” ripeté, più calmo.
Sherlock liquidò la questione con un’alzata di spalle. “Che senso ha non rivolgere la parola a tuo fratello se poi, morendo, non potrai più dargli noia?”
Il medico restò un attimo interdetto. E grato, in particolar modo, perché fortunatamente anche l’orgoglio dei fratelli Holmes aveva dei limiti.
Una nuova domanda prese forma nella sua mente, ma Sherlock parve leggergli nel pensiero perché lo anticipò. “Ero certo che saresti venuto a trovare tua sorella, a breve. Gli strizzacervelli sono così prevedibili,” disse, arricciando il naso. “E questo era il posto più sicuro,” aggiunse, “sicuramente molto più di Baker Street. Non è ancora finita, John, e dobbiamo fare attenzione. Avrò bisogno di te, quando sarà il momento, per raccogliere le prove e consegnarle a Lestrade.”
“Lestrade?” lo interruppe il dottore. “Ma se Mycroft...”
“Mycroft ha i suoi obiettivi, io i miei. Il fatto che io non sia l’unico ad indagare su quanto successo non vuol dire che ora lavoriamo insieme.”
John non poté fare a meno di sorridere di fronte ad una simile cocciutaggine. Non che si aspettasse qualcosa di diverso, ovviamente. Ed era certo che, qualsiasi fossero gli obiettivi di Sherlock, ci fosse di mezzo anche la dimostrazione inconfutabile delle sue capacità come detective.
“Però, John, ora è fondamentale non cambiare nessun comportamento, nessuna abitudine.”
“Sherlock...”
“Dovrai continuare a comportarti come se nulla fosse. E quando i tempi saranno maturi verrà tutto chiarito.”
“Sherlock...”
“No, John, ora non c’è tempo per spiegare altro.”
“Sherlock... non devi preoccuparti per me,” riuscì finalmente a dire l’altro, interrompendo il fiume di parole.
Il detective rimase interdetto, guardando John come avesse di fronte una specie sconosciuta dalle dubbie capacità intellettive. Ma John non si fece ingannare. Non c’era bisogno di dire altro, perché lui aveva capito benissimo. Toccò il viso di Sherlock con due dita, sollevandosi a sfiorare le sue labbra e sorprendendosi per il brivido che quel semplice gesto gli scatenò nello stomaco.
Il dottore pensava che Sherlock avrebbe ripreso a parlare, invece l’uomo lo sorprese chinandosi in cerca di un bacio più profondo, lento e umido. John sospirò nella sua bocca, languido. Non sapeva ancora come considerare quella nuova evoluzione tra loro, ma capì che tornare indietro non sarebbe stato possibile. Soprattutto se Sherlock avesse continuato a stringere le mani attorno alla sua vita e a respirargli sulla pelle, annusandogli una tempia.
Ma il sole era ormai tramontato e davvero non c’era altro tempo, per loro.
I saluti furono rapidi, stringati. Poche parole e Sherlock sparì in strada, confondendosi con gli operai. O finti operai, a voler essere precisi.
EPILOGO
John rimase seduto sul letto finché le ombre della sera non presero il sopravvento, cercando di fare ordine tra tutti i pensieri che si rincorrevano, confusi, nella sua mente.
Non gli restava che aspettare. Con tante domande in più, ma senza alcun peso insostenibile ad opprimergli il petto.
Sì sentiva incredibilmente forte, realizzò, prima che un brivido di freddo lo scuotesse, ricordandogli che aveva bisogno di un’altra doccia.
Ma soprattutto, pensò arrossendo, avrebbe dovuto trovare una scusa plausibile per giustificare ad Harriet le macchie bianche sul suo copriletto...