Erode

Nov 09, 2005 04:02

(Romanzo a puntate, leggilo dal principio cliccando qui)

Il taxi mi vomita in un’ex zona industriale, ai margini della città. Non ne conoscevo l’esistenza. Capannoni abbandonati, grigio opprimente, lamiera. Saetta via con stridio di gomme, lasciandomi ben poche opzioni.
Il numero 6 è innanzi a me. Mi guardo intorno in cerca di un’entrata...
Di colpo, l’inferno.
Pareti disadorne e ferite, trasudano di un apatia tangibile. Pulsa, ipnotico, nero catrame, ribolle in gola. Il buio.
Avvolge ogni cosa, invitante silenzio, il fascino del nulla.
Urlo.
Nessun suono, riverbero, eco. Caldo. Opprimente, malsano, soffocante. Un'ondata di nausea ferina risale l'esofago con l'impeto di uno tsunami. L'odore del sangue. Il fetore di corpi laceri, dilaniati. Decomposti. Lasciati a marcire in un liquame di vane speranze. Colpisce le narici, graffia le mucose, strappa via l'ossigeno da ogni alveolo con chirurgica cura, efferata cautela. Arranco. Il petto compresso da artigli intangibili.
Non ricordo da dove io sia entrato. So che devo uscire.
Muovo un passo, urto qualcosa. Costringo gli occhi a reprimere i conati, a guardare. Ha contorni sfocati, ma dolorosamente familiari. Lo conosco quel volto. Da prima che prendesse forma. So da dove viene, quando è nato, perché. So il suo nome. Perché fui io a dargliene uno. A dargli vita, e a privargliene.
Un sogno. Mio. Uno dei tanti.
Arretro. Realizzo cosa sia quella catasta di cadaveri, e qualcosa s'inerpica su per la spina dorsale, affondando i canini nella nuca. Una sensazione fredda, rovente, di aghi e consapevolezza. Il senso di colpa. Per averli lasciati morire. Rinnegati.
L'abbandono, la rinuncia, la scelta di non scegliere. I bulbi si sono abituati alla tenebra, ora vedo meglio. Non è una stanza. È una distesa apparentemente senza fine, costellata di altre vittime della routine e del grigio. Un genocidio onirico. Una strage di innocenti. Riprendo fiato, i battiti ritornano regolari.
Alzo il bavero, mi volto.
Chiudo la porta alle mie spalle, pronto a dimenticarmene, condannandoli ancora una volta. Erano miei sogni. Probabilmente non saranno più nulla. Mi allontano, con passo regolare, e gli aghi lentamente si ritraggono dal mio collo. Non credo farò più ritorno qui. Non bisognerebbe mai guardare in certe stanze della propria mente.

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