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Che l’inverno in Russia fosse da pazzi, quello Cina lo sapeva bene. Ciò che non concepiva era il perché lui stesse sopportando un simile gelo artico in quel momento. Doveva ancora capirlo.
Tutta colpa del suo capo, si disse. Era stata sua l’idea di andare a Mosca, a trovare il suo degno compare socialista, trascinandosi dietro anche lui in mezzo a quelle steppe gelide.
Sua l’idea poi di lasciarli da soli per discutere in privato a Mosca, lasciandolo in balia del sorriso maligno e pericoloso (avrebbe aggiunto anche intrigante, se la sua mente l’avesse permesso) di Ivan, con la proposta di fermarmi prima della grande metropoli per visitare le belle foreste invernali del paese.
E fu così che si ritrovarono a fare una passeggiata in mezzo alla neve fresca, con il vento che sferzava i pochi arbusti spogli e le cime degli abeti sempreverdi.
E Yao congelava sempre di più.
Mentre Ivan sembrava assolutamente a suo agio e anche spudoratamente felice (non faceva altro che parlare, tirarlo da una parte all’altra ed indicargli varie cose che nemmeno stava ascoltando), Cina si ritrovò suo malgrado a guardarlo muoversi nella neve, osservandone gli occhi attenti e le mani, straordinariamente espressive, che spesso lo prendevano e lo trascinavano, senza però fargli male.
Aveva visto spesso Ivan trattare male gli altri, eppure con lui non l’aveva mai fatto, sebbene provasse un gusto perverso nell’infastidirlo. Lo considerava in maniera differente, sebbene tutte quelle moine fossero solo un modo abbastanza ingegnoso per adescarlo e farlo diventare un tutt’uno con la grande Unione Sovietica, in fondo non era poi così male riceverle.
E anche se quei pensieri gli fecero salire il sangue alle guancie, tutto questo non bastò a scaldarlo.
Era abituato al freddo del nord della Cina, eppure quel vento sferzante lo stava congelando fin nelle ossa.
Ficcò le mani guantate nelle tasche del suo giaccone pesante, rabbrividendo.
Fu allora che Ivan si fermò, girandosi per guardarlo con i suoi grandi occhi violetti.
“Hai freddo, Yao?” gli chiese con tono preoccupato, mentre tornava verso di lui, essendosi allontanato un po’ dalla sua figura.
“P-Per niente, aru.” gli rispose secco il cinese, guardando altrove.
“Mmmh… Non fa nulla se lo ammetti, eh.”
“Ti ho detto di n-no, aru!”
“E allora perché stai tremando?” chiese Ivan, con la faccia di chi la sa lunga.
Fu solo quell’affermazione a far capire a Cina che stava battendo i denti senza nemmeno accorgersene, con violenti scossoni che lo attraversavano come scariche elettriche.
Si sentì in imbarazzo, e per distrarsi notò che il sole stava calando oltre gli abeti.
“Torniamo indietro, aru.” farfugliò, dirigendosi verso il sottobosco.
“No Yao, non da quella part-“
Russia non fece in tempo a finire la frase, che la figura di Cina sparì in mezzo alla neve, come inghiottita da un sudario bianco.
L’urlo che ne seguì fu a dir poco tremendo.
Precipitandosi in direzione del grido, la forma frastagliata di un ripido sentiero roccioso nel sottobosco al riparo dalla neve fece intuire ad Ivan ciò che era successo.
Pochi metri più in là, sul fondo del ripido precipizio, stava Cina, con entrambe le mani su una caviglia e una chiazza rossa che si spandeva sulla sua schiena, un’ombra inquietante sul suo cappotto amaranto.
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“Ahia! Non stringere così tanto, aru!”
Russia fece una faccia disperata alla vista dell’altra nazione che si lamentava contorcendosi come un bimbo, cercando di sfuggire alla medicazione di emergenza che gli stava applicando sulla schiena.
Anche se aveva millenni di vita alle spalle e di ferite ne aveva sicuramente avute di peggiori.
Ivan aveva già sistemato la caviglia con il classico metodo degli stecchetti, fissati alla gamba con il sacrificio di alcune strisce di stoffa prese dall’orlo del suo mantello, ma quando aveva detto all’altro che doveva spogliarsi prima si era lamentato per il freddo polare, e poi per (a suo dire) l’indelicatezza con cui lo stava medicando.
E Russia stava per mandarlo dove sapeva lui, se non fosse stato per una pazienza che non sapeva di possedere.
Aveva preparato il fuoco con ciò che aveva trovato nel sottobosco ed aveva sacrificato un quarto della sua vodka per accenderlo. Un quarto l’aveva conservato per lui e la restante metà per Yao. Sapeva quanto poteva far male una caviglia in quello stato, e confidava che l’alcool lo avrebbe aiutato a sopportare meglio il dolore.
Non aveva però calcolato la non esattamente ferrea resistenza nel bere da parte dell’altra nazione.
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Si era accoccolato su Russia, alla fine, senza ben sapere che stava facendo.
Sentiva ancora freddo, e il corpo di Ivan sembrava così caldo che non poteva fare a meno di seppellire il volto fra le pieghe della sua giacca.
Il fuoco da campo gli scaldava le gambe, ma Ivan era più profumato, più vivo, più bello.
Anche da ubriaco non ebbe il coraggio di chiedergli di fargli posto nella sua giacca, a contatto col suo maglione. Magari le sue mani avrebbero trovato posto a contatto con la pelle nuda, sotto il tessuto lanoso…
Ci pensò lui, allora, vedendolo che restava sopra di lui come uno stupido, stringendolo a sé e lasciandogli una scia di baci sulle guancie e uno, leggerissimo, sulle labbra.
Yao lo guardava, intontito ma ben cosciente di cosa stava succedendo, e non abbastanza sbronzo da non ricordarsi nulla il mattino seguente.
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E l’inizio della giornata successiva trascorse in silenzio. Un pesante, denso silenzio che passava dalla steppa russa al vento, ormai calmo.
Per tutta la strada fino a Mosca non volò una parola.
Poco prima dell’arrivo, Yao chiese di scendere dalla schiena di Russia, che l’aveva preso di peso e portato a spalla fin laggiù.
Mentre discendeva, lentamente, per non farsi male, un lungo brivido lo scosse.
Ivan si girò e lo abbracciò stretto, preparato a ricevere calci, pugni e insulti, se necessario.
Ma Cina rimase immobile, con espressione quasi disperata, le mani a mezz’aria nell’indecisione del respingere o dell’aggrapparsi al suo giubbotto chiaro.
“Yao…” lo chiamò, affondando il viso gelato nella sua spalla, sulla sua sciarpa nera.
Cina sospirò, ormai rassegnato al suo destino, aggrappandosi con foga e cercando la sua bocca con le labbra, passando sulle guancie arrossate e gelide, sul mento reso ispido da un primo accenno di barba.
Sentì caldo, tanto caldo, piacevole e morbido come la sua lingua, non attribuibile solamente al calore del corpo dell’altro.
Perché il gelo delle steppe russe non era il solo e triste freddo che provava.
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