Titolo: Autolinea 63, alla fermata di cui non ricorda il numero
Titolo capitolo: Giovedì 8 marzo
Autore:
reine_duvetFandom: Originale > romantico
Personaggi: Michele, Andrea
Diclaimer: il fondo di verità è consistente, ma i personaggi non esitono e i riferimenti a persone reali è casuale
Genere: romantico, introspettivo, malinconico
Rating: passato a rosso
Avvertimenti: slash, yaoi, lime
Conteggio parole: 1.768 secondo il contatore di Word.
Note: anche su
EFP.
«Com’è andata?» Greta sollevò la testa dal banco. Non aveva seguito la mia interrogazione e non la potevo biasimare. Non si era persa nulla.
Sulla superficie luminosa della lavagna c’erano ancora le formule sbagliate che avevo scritto e il mio disegno - a fantasia - della carica di prova nel campo elettrico uniforme. Unendo i puntini si poteva ottenere un sorriso, quello che la Zanetti non aveva fatto nemmeno una volta, mentre sentiva me e Christian.
«Nove.» risposi. Aprii il libretto e lo appoggiai sul banco, sedendomi con un sorriso «…in due.»
Un enorme quattro e mezzo era scavato nella carta, vicino alla data. Presi la matita ed iniziai a disegnarci attorno dei fiorellini di mimosa. Christian stava cercando di contrattare il suo voto, rigirandosi la penna elettronica in mano, ma io ci avevo rinunciato in partenza. Mi meritavo quel voto.
«Ahia.» Greta mi guardò male. Sì, era colpa mia. No, non avevo studiato. Sì, avrei potuto farlo.
«Ciao!» il professor Silvietti, per il quale avevo un debole che celavo abbastanza bene, entrò in classe con il suo solito passo elastico. Indossava gli occhiali da sole, quasi coperti dai capelli bianchi arruffati, nonostante le nuvole scure ed il vento poco promettente. Se li sfilò e li appoggiò sulla cattedra, rispondendo con un sorriso ai nostri saluti.
La Zanetti se n’era andata senza che me ne accorgessi, lasciando Christian abbacchiato, con la penna ancora in mano.
Il prof teneva sottobraccio un tascabile dalla copertina giallo acceso. Durante il mese riuscivamo a vedere tutta la gamma cromatica di quella collana «Oggi interrogo in storia, vero?»
«Filosofia, profe.» lo corresse subito Greta, con l’efficienza da primo banco che io non avrei mai guadagnato.
«Giusto, giusto…»
Dato che avevamo programmato le interrogazioni, quella per me era un’ora buca. Tirai fuori dallo zaino il mio quaderno degli schizzi e lisciai un foglio bianco. Disegnare con l’interrogazione di sottofondo mi piaceva, anche se avrei dovuto prestare attenzione.
«Allora, oggi ci sono Poli, Consolini…»
Era da un paio di giorni che, per colpa di Andrea e delle sue dita al sale di popcorn, disegnavo labbra. Non un volto, non gli occhi con cui tappezzavo i libri, labbra.
Appoggiai la matita sul foglio e sistemai davanti a me l’astuccio gigante - protezione inutile, dato che Silvietti vaga sempre tra i banchi, sia quando spiega che quando interroga, ma è una di quelle piccole tradizioni a cui non posso rinunciare.
Doveva essere una bocca aperta - o meglio, schiusa - con le labbra piene. E i denti visibili. Li schizzai ed accentuai i canini inferiori. Ecco, quelli erano un problema.
Tracciai una linea leggera tra gli incisivi e la allargai. Una bella spaziatura tra gli incisivi, come Carmen - rendeva un sorriso molto interessante.
Prima di rifinire le labbra, sollevai la matita dal foglio. Erano labbra femminili, anche se l’idea era partita da Andrea.
«Mi passi la gomma?» mi bisbigliò Greta. Annuii e la pescai dall’astuccio.
«Allora…» Silvietti ci passò davanti per avvicinarsi alla fila di destra «Struttura e sovrastruttura, tutto quello che puoi dirmi.»
Stavo ancora pensando a lui.
«Sabato ci sei?»
Durante l’intervallo preferisco rimanere in classe, a chiacchierare con chi non ha voglia di scendere.
Appoggiato alla finestra socchiusa, con il vento fresco che mi solleticava il viso, cercavo di trovare forme nelle nuvole.
«Penso di sì.» risposi.
Ema era seduto sul tavolo dietro di me e credo trafficasse con il cellulare «Bene, bene.»
C’era un cane che si mordeva la coda, fatto di soffici cumuli bianchi. E vicino una corona, anche se assomigliava di più alla mitra del papa.
«Mike, m’è tornato in mente ora.» mi chiamò. Mi voltai verso di lui.
Ema si grattò una guancia, con espressione perlessa «Quello con cui stavi imboscato a Carnevale è un’altra frocia come te?»
Lo guardai male «No.»
O meglio, sì. Ad Andrea piacevano i ragazzi, lo sapevo, anche se non avevamo mai tirato fuori l’argomento. Proprio per quel motivo, non avevo sentito la sua opinione sul farlo sapere in giro o meno, quindi era meglio l’opzione più sicura.
«Ah, peccato.» scrollò la testa, lui, lasciandomi sorpreso. Di solito le battute sull’argomento riguardavano solo me, mai lui.
«Ti piaceva?» e non era una domanda così scherzosa. La sua opinione su Andrea m’interessava.
Sul suo viso spuntò un’espressione schifata. Incrociò le braccia e si strinse nelle spalle «Ma per carità!»
Chiusi la finestra e lanciai un’occhiata all’ora. Mancava poco alla fine dell’intervallo.
«Carmen la senti ancora?» mi chiese, scendendo dal banco. Annuii «Un paio di volte a settimana. Ieri era molto contenta, si sta trovando un ragazzo.»
«Vecchio, mi dispiace.» si sedette sulla sua sedia, appoggiandosi con la schiena al muro.
Il suo ritorno dall’Argentina era improbabile; ci eravamo lasciati in accordo, dato che mantenere una relazione a distanza sarebbe stato un insulto ai bei momenti che avevamo vissuto assieme. Non avrebbe avuto senso.
«A me no.» ero contento per lei. Anche se in differita, ci sentivamo davvero spesso, e vederla felice era una soddisfazione. Ci eravamo baciati fino all’ultimo istante.
«Se fosse rimasta qui non dovrei stare attento ogni volta che mi vieni dietro.» Ema tornò al cellulare ridendo fra sé e io ripresi a guardare fuori dalla finestra, mentre il mio sorriso si specchiava nel vetro. Come avevo fatto a sporcarmi il naso con la penna? E nessuno mi aveva detto nulla.
I peschi ed i ciliegi nel giardino stavano per fiorire. Non vedevo l’ora di un po’ di colore, durante la pausa.
«Adesso chi abbiamo?» domandai. La campanella sarebbe suonata da un momento all’altro.
«La Chistè.» gemette lui. Esagerato… storia dell’arte è una delle mie materie preferite.
*
«Disegnami un Fabrizio.»
Alzai lo sguardo dal mio foglio bianco. Andrea mi stava fissando con le sopracciglia aggrottate e si rigirava la matita in mano. Dietro di lui, la polvere della biblioteca danzava tra le fenditure di luce.
«Un Fabrizio?»
Era la terza volta che, senza preavviso, smetteva di scrivere e mi chiedeva di basarmi su un nome per descrivere un personaggio. Disegnare bambini senza modelli di riferimento non era facile, soprattutto nel rendere le proporzioni, ma avrei rifinito tutto a casa. Dovevo solo fornirgli schizzi indicativi.
Fabrizio. Suonava quasi… affilato, con la B e la R vicine - e la Z. Fabrizio.
Iniziai ad abbozzare un viso di profilo, tondo. Sorriso o no? Gli feci una bella fronte alta e schizzai l’occhio, leggermente allungato. I nasi dei bambini sono abbastanza simili, ma “Fabrizio” mi faceva pensare ad un naso dritto. Dovevo riprodurre l’immagine del piccolo Fabrizio che avevo in mente - quindi nasino a patata, come quello di mio fratello, forse appena più allungato.
Labbra tonde ed un sorriso accentuato, occhi… scuri. Volevo provare a fargli una pettinatura con il gel, così iniziai a tracciare delle linee curve per il ciuffo.
«Come procede con la storia?» domandai.
«Non male.» Andrea sbadigliò «Sto stendendo la trama per punti, ma devo ancora decidere la quantità di personaggi. Secondo te l’odio razziale è scontato come tema?»
Inarcai un sopracciglio e continuai a disegnare i capelli «Basta che non ne parli così.» gli dissi.
Gli infanticidi sono scontati, come tema?
«Così come?»
Terminai il ritratto e staccai il foglio dal blocco «Come se fosse una cosa da nulla.» gli passai il disegno, guardandolo negli occhi «Non lo è.»
«Ma va?» lo prese e lo fissò per qualche secondo «Mi piace questo Fabrizio.» picchettò con il dito sul suo squadernino, aperto «Preso.»
Andrea sembrava diverso dal solito. Quando aveva la matita in mano, senza scrivere, non riusciva a stare fermo. Si appuntò un paio di parole a margine del disegno e tornò a me «Comunque, lo so che non sono cose facili di cui parlare, però questa è la mia occasione.»
Lo invitai a continuare con un cenno del capo.
«Io li creo, do loro una spinta e poi fanno tutto da soli. Io mi limito ad osservare mentre ammazzano i loro figli o odiano il nuovo vicino di casa dall’Est.» spiegò, con gli occhi sul squadernino aperto «E non li posso giudicare.»
«Giochi a fare Dio.» quello che facevo un po’ anch’io con i miei disegni, a conti fatti «Però tu non giudicheresti ignorante una persona razzista?»
«E’ diverso.» lui scosse la testa «Io divento Dio. Lui non ci giudica, secondo me.»
«Come no?» lo interruppi.
«Lui non giudica “ignorante” un ragazzino cresciuto a pane e razzismo, ci pensiamo già noi.» continuò.
Il discorso stava prendendo una piega strana e disordinata. Mi sistemai meglio sulla sedia e sistemai i fogli vicini in una pila unica.
«Tu puoi giudicare il piccolo Fabrizio che calcia il suo compagno di colore, ma io no. Dio non usa gli stessi criteri degli uomini, o tutti sarebbero spacciati.» fece un sorriso tirato «Noi per primi, no?»
«Ti stai inventando Dio?» oltre che equipararsi a lui. E dimostrare fondate le mie considerazioni mattutine su di lui - tutto in una volta. Un po’ troppo.
Lui scosse la testa «Sto cercando di trasporlo sulla Terra.»
«Come fai a non giudicare quello che scrivi?» non ne sapevo nulla, però era… no. Era no. Non avrei mai potuto giustificare un infanticida.
«Esempio.» appoggiò la matita sul tavolo e congiunse le mani «Quando una fabbrica produce bombe, durante una guerra, queste diventano una merce, e le merci vanno scambiate e consumate.» si scostò i capelli dalla fronte. Aveva gli occhi brillanti «Dipende tutto dalla prospettiva che adotti. Non è che non abbia le mie opinioni a riguardo, so che farsi la guerra nel Ventunesimo secolo è ridicolo, ma se scrivo di un industriale, devo capirlo. Devo essere lui. Devo volere la guerra.»
«Non mi piace.» ammisi. Durante letteratura ne sentivo di discorsi strani sulle varie ideologie degli autori nei secoli, ma volere e non volere contemporaneamente la guerra era paradossale.
Era un altro no.
Poi mi venne un’idea «Quando sei libero?»
Lui riprese in mano la matita «Virtualmente ogni giorno, anche se devo iniziare a studiare seriamente.»
Quello che dovevo fare anch’io, insomma. Cercai di ricordare gli impegni della settimana.
«Sabato?» propose lui.
«No, non posso io.» Ema ci aveva invitati tutti per il pre-serata prima della discoteca. Gratis.
Domenica dovevo andare dagli zii, lunedì dovevo assolutamente studiare tedesco… «Martedì, che ne dici?»
«E’ ok.» annuì.
Il primo appuntamento fissato da me. Mi ritrovai a sorridere come un idiota assoluto, anche se quella che avevamo interrotto era una discussione «Fatti trovare a Garda, però.»
«Certo.» riprese la matita in mano ed iniziò a scrivere furiosamente a margine del foglio, con il capo chino.
Non avevo idea di cosa stessi facendo davvero, lì con lui. Non sapevo cosa pensare dei suoi discorsi - però forse potevo dare loro la direzione che volevo io.
Tanto sapevo che Andrea avrebbe stravolto tutto, facendo di testa sua, e mi andava bene così.