Storie d'Alessandro - Il tocco del fuoco capp. 1 e 2 di 4

Oct 03, 2005 14:36

Ho scoperto sulla community alexanderfics una splendida storia scritta da una ragazza italiana e basata sul vero storico della vita di Alessandro Magno. Ho trovato il suo racconto accattivante in inglese, ma MERAVIGLIOSO in italiano.
Non c'è paragone, la nostra lingua è una delle più belle, musicali e ricche che esistano. E devo dire che florachan ne fa un uso assolutamente gradevole, usando una grammatica impeccabile e termini variati, multicolori; il suo stile è espressivo, ti fa entrare all'interno della scena, ma ancora più profondamente all'interno del cuore dei protagonisti, svelandone i segreti, le ataviche paure, gli odi, gli affetti.
Sono rimasta estasiata dalla sua bravura, ma soprattutto sono felice che esistano ancora persone che sanno scrivere bene.
Ma ora basta chiacchiere! Ho avuto il permesso da Flora di incollare sul mio lj due racconti scritti da lei.
L'ambiente in cui si svolgono le storie è la Macedonia, i protagonisti Alessandro ed Efestione, e il loro entourage di figli di generali, filosofi famosi e re leggendari.



Il tocco del fuoco

Capitolo 1

L’ estate era finalmente arrivata a Mieza, in un glorioso tripudio di colori e odori.
L’ aria, sebbene ancora fresca per il tardo inizio di stagione, era andata saturandosi d’una vibrante energia segreta, trasformando il cielo in una colata d’argento liquido sopra la scura macchia dei boschi. Nascosti tra i fili d’erba, i narcisi selvatici aprivano i pallidi petali bianchi e spandevano un profumo leggero, e nei prati il grano cresceva alto, le spighe un’onda dorata increspata dal vento.
Aristotele camminava a passo cadenzato lungo il corridoio in penombra, respirando le fragranze speziate del mirto e degli olivi nei primi aliti d’ estate. Sembrava assorto in una sua nascosta voluttà, concentrato sul sapore di quegli aromi così familiari eppure capaci d’inebriarlo come li sentisse per la prima volta.
Raggiunse una finestra inondata dal caldo sole pomeridiano e lasciò che il piacevole tepore gli riscaldasse il corpo intorpidito dalle fredde mura della biblioteca nella quale aveva trascorso la mattina - poi, si stiracchiò pigramente.
Non avrebbe mancato così tanto di rispetto a sé stesso da definirsi vecchio, ma aveva notato come sempre più, negli ultimi tempi, le sue ossa paressero metterci un’eternità a rinvigorirsi dopo un periodo di riposo. Come ciò non bastasse, le stanze della vecchia palazzina di caccia che ospitava i numerosi studenti della sua scuola erano perennemente gelide.
Guardò in basso, verso il giardino invaso dai cespugli, e non si stupì di trovarlo deserto.
Aveva concesso ai suoi studenti un pomeriggio di libertà e sebbene li avesse ammoniti di farne tesoro per cercare alcune piante ed arbusti rari illustrati loro quella stessa mattina a lezione, Aristotele sapeva bene dove avrebbe potuto trovare gran parte di quei ragazzi, se solo li avesse cercati.
Un sorriso obliquo, tra il disappunto e il divertito, gli incurvò le labbra. Dovevano essere in giro per i boschi a dare la caccia a qualche volpe, o più probabilmente al laghetto delle ninfee a fare il bagno e a rinfrescarsi dell’improvvisa calura estiva.
Tutti, eccetto due di loro.
Scrutò il prato sottostante, ed ecco infatti poco più in là, sotto l’ombra di un vecchio faggio, le due figure sedute ed intente a leggere un libro che uno dei ragazzi teneva aperto sulle ginocchia.
Alessandro, principe ereditario di Macedonia, teneva la testa dorata leggermente reclinata sul lato e gesticolava infervorato in una qualche discussione, mentre il ragazzo seduto accanto a lui lo ascoltava assorto, annuendo appena.
Aristotele conosceva il libro, avendolo egli stesso donato al giovane principe il giorno in cui si erano incontrati a Pella. Non avrebbe tuttavia mai pensato che potesse esercitare un fascino così potente su un ragazzo tanto giovane sebbene, in verità, non fosse la prima volta che Alessandro aveva saputo coglierlo di sorpresa.
Aveva portato da Atene una pregevolissima edizione dello scritto di Senofonte, la storia di Ciro, Grande Re di Persia che più di duecento anni prima aveva sottomesso e unificato le popolazioni di Medi e Persiani quand’erano ancora poco più che barbare tribù in perenne lotta tra loro. Era avanzato inarrestabile attraverso quelle terre, facendo sua la stessa millenaria Babilonia - ed aveva dato i natali all’immenso Impero che si estendeva a est dell’Ellesponto, fino ai confini del mondo.
I Greci conoscevano bene quell’ impero.
Gli Dei sapevano quante e quali offese erano state arrecate ai figli dell’Ellade da quei barbari empii e potenti, il nome di Serse ancora maledetto dai figli dei figli, e solo gli Dei
potevano sapere quando sarebbe venuto il giorno della giusta vendetta.
Ma adesso, riflettè Aristotele, la Grecia aveva ben altro a cui pensare.
Scrutò la figuretta del principe, così intento nella sua discussione che sembrava crepitare d’una vitalità nascosta e si stupì ancora una volta di notare quanto assomigliasse a suo padre.
Non nell’aspetto fisico - o comunque non così tanto da balzare all’occhio, ma nei piccoli particolari a prima vista insignificanti, come la forza improvvisa con cui serrava la mascella, la scintilla che gli si accendeva negli occhi grigi quando si accalorava in un’argomentazione e, più di tutto, l’energia incontenibile che sembrava emanare ogni fibra del suo corpo.
Aveva incontrato Filippo personalmente solo alcuni mesi prima, ma non c’era nessuno in Grecia che non sapesse chi era.
Aristotele strinse gli occhi, mentre un reticolo di rughe appariva ai lati del suo viso.
Quei vecchi, molli, demagoghi Ateniesi.
Avevano definito Filippo un barbaro, il re di una sperduta provincia che al momento della sua ascesa al trono dopo l’ennesima, sanguinosa lotta di successione, sembrava ancora immersa nell’età dei Dori. L’avevano schernito, perfino, nel suo desiderio e nei suoi tentativi di darsi una parvenza di quella grecità di cui tanto andavano fieri e che lui, invece, non aveva potuto avere per diritto di nascita.
L’avevano chiamato barbaro, buffone, vergogna dell’Ellade.
Ma adesso quel barbaro, quel buffone, teneva ormai quasi tutta l’Ellade nel suo pugno di ferro. I suoi rozzi soldati e i suoi generali - il suo esercito di uomini che parlavano l’orribile dialetto dorico che non poteva neanche essere definito greco, erano avanzati inarrestabili - la ridicola rudezza dei loro costumi aveva stritolato la Grecia nell’inerte flaccidità in cui era ormai versata, in una via senza ritorno.
A nulla erano serviti tutti i discorsi e gli intrighi di quegli inetti politicanti che affollavano Atene e il pollaio che era ormai diventata l’agorà, a nulla erano servite le farneticanti invettive di quel pavone di Demostene - che un rozzo barbaro Macedone non aveva il diritto, non poteva ergersi a supremo comandante e guida della sacra Ellade. Filippo li aveva lasciati parlare.
Ed aveva agito, fulmineo come un rapace.
Aristotele sorrise mentre un’espressione crudele gli si dipingeva in viso.
La sua storia d’amore con Atene era finita da un pezzo. Da quando, dopo la morte di Platone, gli era stata preferita quella vecchia gallina grassa di Speusippo alla guida dell’Accademia, alla quale tanti anni della sua vita aveva dedicato.
Era stato un affronto intollerabile, ma aveva imparato a conviverci. Non si era stupito quando il Re era venuto a cercarlo.
Aristotele ricordava bene Filippo.
Egli era ben conosciuto per l’incontinenza dei suoi costumi, il suo amore esagerato per il vino (ma quale Macedone non eccedeva nei piaceri di Dioniso?), la facilità dei suoi accessi d’ira e il libertinaggio a cui spesso e volentieri si lasciava andare; tuttavia, rifletté Aristotele, l’uomo non era privo di una sua attrattiva.
Aveva tentato di ripulirsi del puzzo di barbarismo, aveva convocato a Pella artisti, letterati, tutte le figure più in vista di Grecia ed aveva fatto istruire i figli dei suoi nobili e dei suoi generali dai più stimati maestri Ateniesi. Il palazzo reale di Archelao, a Pella, non aveva ormai nulla da invidiare, nella sua magnificenza, alle più belle architetture di cui la Grecia stessa era così orgogliosa.
Aveva tentato persino di imparare a parlare il greco con il perfetto, dolce accento ionico dell’Attica ed invero - Aristotele doveva riconoscerglielo - i risultati erano stati notevoli.
Era stato come se Filippo volesse dimostrare a tutti i costi di essere un degno sposo per l’amante che aveva voluto prendere con la violenza.
L’amante l’aveva ripudiato, rifiutato, si era fatta beffe di lui.
Filippo l’amava ancora, ma non aveva più nulla da dimostrare e lo sapeva.
La sposa era ormai sua, per diritto di forza.
Il Re era stato richiamato al nord, da una violenta rivolta di alcune tribù della Tracia, e aveva dovuto momentaneamente accantonare i suoi feroci dissidi con Atene, ma presto sarebbe ritornato.
Aristotele era conscio che la battaglia decisiva per la supremazia era ormai prossima e sapeva bene su quale lato si sarebbe fatto trovare, quando fosse venuto il momento.
Osservò di nuovo il principe. La sua testa e quella del ragazzo accanto a lui erano reclinate l’una verso l’altra e si toccavano, mentre procedevano nella lettura. La luce pomeridiana faceva risplendere i loro capelli di riflessi bronzei, erano immobili come due statue auree abbandonate nell’erba.
Aristotele era figlio del medico che aveva avuto in cura Aminta, padre di Filippo, e Filippo stesso fin dalla tenera età.
Conosceva bene la Macedonia, tuttavia sapeva che non era stato quello il solo motivo per cui il Re era venuto a cercarlo fino a Mitilene, sull’isola di Lesbo, dove si era ritirato per dedicarsi ai suoi studi e alle sue ricerche naturalistiche.
Filippo voleva che suo figlio venisse educato come un Elleno.
Voleva che suo figlio fosse un discendente perfetto per quella Grecia che non poteva, non voleva accettarlo, e che probabilmente non l’avrebbe mai fatto - per quanti sforzi o doni egli le avesse portato, o per quanto sangue avesse versato.
Alessandro sarebbe stato diverso, avrebbe avuto tutto quello che lui non aveva potuto avere. Sarebbe stato un Greco.
Di nuovo il sorriso crudele accese gli occhi socchiusi dell’uomo.
Non si era venduto per poco, era ben consapevole del suo valore.
Stagira, la sua città natale, piccola perla della Calcide, era stata distrutta dallo stesso Filippo proprio alcuni anni prima, molti dei suoi abitanti venduti come schiavi.
Stagira era stata il suo prezzo. FiIippo l’avrebbe ricostruita, egli non avrebbe accettato nulla di meno e il Re non aveva battuto ciglio.
Naturalmente non si era trattato solo di Stagira.
Gli occhi gli balenarono. La tentazione di avere una parte così grande in tutto questo, e in ciò che sarebbe venuto era stata allettante come un tempo solevano esserlo le sfide logiche nelle quali si imbarcava con i suoi colleghi dell’Accademia.
Gli era stato chiesto di educare un ragazzo.
Avrebbe formato un Re.
Un Re che molto probabilmente un giorno avrebbe governato tutta l’Ellade riunita, un Re greco, per una nuova Grecia.
A poco sarebbero valsi gli sforzi dei pusillanimi politicanti Ateniesi, la Grecia era ormai caduta nella morsa di Filippo, non occorreva sforzarsi troppo per vederlo, ed un giorno Alessandro l’avrebbe certamente reclamata, anche se adesso era poco più di un bambino.
Aristotele era un uomo pragmatico.
Atene l’aveva umiliato, gli aveva preferito un altro, ed egli vi sarebbe tornato, avrebbe mostrato loro che era stato capace di condurre con sè qualcuno in grado di guidare la loro amata ormai allo sbando, e sapeva bene di essere all’altezza del compito.
Sarebbe stata una dolce vendetta. Oh,sì.
Filippo non aveva badato a spese.
Aveva convenuto, sotto consiglio di Aristotele, che sarebbe stato meglio educare Alessandro lontano dal clima teso di Pella, dagli intrighi e i maneggi di una corte che, sebbene egli fosse reticente ad ammetterlo, rimaneva ancora rozza e incolta come le terre montuose a nord della capitale Macedone.
Filippo aveva fatto rimettere a nuovo una grande palazzina campestre, in una valle incantevole a circa mezza giornata di cavallo da Pella, l’aveva fatta dipingere dai più dotati affrescatori, vi aveva fatto arrivare servi, mobilia e suppellettili e ne aveva rifornito la biblioteca.
E così Aristotele si era trasferito a Mieza con il giovane principe e i figli dei nobili più in vista di Macedonia, la maggior parte generali fedelissimi a Filippo, giovani che un giorno sarebbero stati i compagni d’armi e il seguito di Alessandro.
Il luogo, considerato sacro alle ninfe, si era rivelato una fonte inestimabile per i suoi studi, Aristotele ne era estasiato. I boschi e la campagna circostante pullulavano di vita, ed egli stava cercando di catalogare e raccogliere campioni del più alto numero possibile di specie animali e vegetali. Il suo soggiorno a Mieza avrebbe portato benefici inquantificabili ai suoi studi botanici e zoologici.
Proprio il giorno prima, passeggiando nei giardini di Mida, (e quale nome più appropriato per il paradiso nel quale si trovava?) aveva scorto una nuova specie di roditore, che ancora non conosceva.
Avrebbe mandato qualcuno dei suoi ragazzi a catturarne uno per lui, stava decisamente diventando troppo vecchio per rischiare di rompersi qualche osso strisciando tra i cespugli come soleva fare un tempo.
Il pensiero lo fece sorridere, ma sentì una stretta al petto.
Il tempo era passato, eppure la vita continuava ad essere bella e piena di allettanti misteri per lui. Una sola esistenza non gli sarebbe mai potuta bastare, ma gli Dei hanno strani modi per prendersi gioco degli uomini, dopo tutto.
Aristotele abbassò di nuovo gli occhi. Alessandro sembrava ancora perso nel suo Senofonte.
A poco sarebbe valso dirgli che molto probabilmente il grande Ciro aveva avuto poco o nulla a che fare con l’illuminato e ammirabile monarca descritto nel libro; Senofonte aveva semplicemente tracciato il ritratto del Re ideale e gli aveva dato il nome di Ciro.
Alessandro non gli avrebbe creduto, ma a che scopo dirglielo? Il ragazzo sapeva essere testardo nelle sue argomentazioni.
Aristotele aveva scelto il libro per il suo fine etico e didattico, questo sarebbe dovuto bastare; tuttavia si era stupito della passione che Alessandro aveva messo nel leggerlo, e delle domande, invero sagaci e affatto scontate, che gli aveva posto e che continuava a porgli.
Sembrava non essere mai pago di discutere e dissertare del singolare modo in cui Ciro aveva scelto di governare l’immenso impero che aveva creato - e spesso le discussioni avevano degenerato, suo malgrado.
Aristotele sapeva della passione di Alessandro per Omero, ma del resto la sua epica eroica e imbevuta di hubris era popolare tra i ragazzi di quell’età.
Più degno di nota era stato, invece, il suo innamoramento di Ciro.
Era indubbiamente positivo che un futuro monarca si interessasse del modo di gestire un regno, ma c’erano alcune volte in cui Aristotele stesso si trovava a corto di parole.
Alessandro sembrava più interessato a conoscere l’esatto numero dei soldati che Ciro aveva avuto nella sua armata, o la rete stradale che collegava le varie capitali dell’impero - e che a detta sua, doveva essere immensa - che non l’intima meccanica etica e logica dell’arte di governare.
A volte il ragazzo sapeva essere impossibile.
Era stato, in verità, bene educato. Aveva saputo che il suo primo tutore era stato un certo Leonida, un parente della madre, un ferreo sostenitore dei durissimi metodi educativi di derivazione spartana.
Fin dalla più tenera età era stato addestrato alla privazione a al controllo delle sue più elementari necessità - Aristotele aveva sentito alcune storie a riguardo che avrebbe giudicato ridicole per la loro durezza, se non avesse potuto vedere il ragazzo con i suoi occhi.
Leonida l’aveva praticamente educato a fare a meno di tutto, l’aveva persino affamato, si diceva, sfiancato con l’esercizio fisico e addirittura privato delle coperte di lana e del mantello nei duri inverni di Pella.
Il risultato era che il ragazzo sapeva praticamente sopportare qualunque privazione, come e forse meglio di un soldato adulto e navigato, ma era più cocciuto di un mulo.
Sapeva parlare il greco e anche piuttosto bene, ma lo faceva solo quando voleva lui, nei suoi tempi e nei suoi modi e non una volta sola gli aveva rivolto alcuni insulti nel Macedone volgare dei soldati (senza dubbio l’aveva udito nelle baracche degli uomini, quando ancora viveva nella tana di Pella, lasciato a sé stesso come un cucciolo selvatico), guardandolo con aria di sfida.
Questo, forse più di tutto, urtava i nervi di Aristotele. Sembrava che il giovane principe lo mettesse costantemente alla prova se non fosse stato assurdo pensare questo di un ragazzino di appena quindici anni.
Ma era così.
Non si poteva negare che fosse intelligente. Teneva il passo con le sue lezioni con una speditezza che gli altri ragazzi potevano solo sognare, commentava Omero con una proprietà di linguaggio impensabile, mentre gli altri arrancavano ancora sulle facili edizioni didascaliche, ed era certo di essere riuscito a solleticare la sua ardente curiosità - sebbene il ragazzo fosse reticente ad ammetterlo.
Doveva avere odiato il vecchio Leonida.
Un giorno gli aveva posto un quesito tramite un sillogismo astratto - l’avrebbe potuto risolvere solo attraverso un’estrapolazione logica, ma il ragazzo l’aveva guardato disgustato e gli aveva offerto invece un’inaspettata e, bisognava ammetterlo, alquanto sagace soluzione pratica.
Aristotele scosse la testa; il ragazzo aveva sangue di razza, ma era difficile da gestire. Tuttavia, i loro rapporti stavano migliorando.
Lasciò scivolare lo sguardo sul viso accanto a quello del principe, e si ritrovò a fissare i lineamenti seri e composti dell’altro giovane.
Ricordava il giorno in cui aveva condotto una lezione sull’amicizia: come l’amicizia fosse, per un uomo, il bene più grande, la ricchezza inestimabile del trovare fuori di sé un altro sé - come una stessa anima condivisa in due corpi.
Si era trovato spesso in disaccordo con Platone in passato, ma su questo non aveva mai nutrito alcuna obiezione.
Aveva parlato ai ragazzi di come l’amicizia sia virtù in sé stessa, cui fine ultimo è proteggere ed amare la virtù nell’altro - di come per ogni uomo esista un unico e solo amico perfetto, e quanto grande sia il dono degli Dei, se decidono di rendere possibile il riconoscimento.
I perfetti amici condividono tutto - la gioia e la felicità, ma anche le privazioni. Condividono le proprie visioni e i propri obiettivi. I sogni dell’uno sono i sogni dell’altro.
Achille e Patroclo, fino alla morte.
Gli altri ragazzi avevano ridacchiato alla menzione - in fin dei conti erano ben noti i pettegolezzi da taverna sul presunto rapporto che aveva unito i due eroi. Erano tutti molto giovani e Aristotele sapeva che le schermaglie amorose e i moti di un corpo che stava cambiando troppo velocemente erano inevitabili a quell’età; chiudeva un occhio perché ciò non offendeva la sua morale Ateniese, né era in contrasto con quella Macedone, tuttavia egli aveva volutamente lasciato fuori la fugace sfera di Eros, che abbaglia e rende ciechi, qualcosa che, a suo parere, toglieva invece di aggiungere.
L’amicizia di cui parlava lui era una comunione di anime.
Alessandro non aveva riso, i suoi occhi avevano scintillato mentre lo ascoltava parlare.
Forse una delle sue lezioni, dopotutto, era riuscita a fare breccia nel cuore del giovane.
I due ragazzi, rifletté Aristotele, erano stati inseparabili ben prima del loro arrivo a Mieza. Dovevano essersi conosciuti precedentemente, ma fin dai primi giorni alla scuola era stato palese quanto fossero legati più profondamente di quello che si sarebbe potuto pensare di due ragazzi di quell’età.
Efestione, così si chiamava l’altro, era figlio di uno dei generali più vicini a Filippo, uno dei suoi Eteri, I compagni del più alto rango di cavalleria; aveva persino intravisto l’uomo, un giorno in cui era venuto a far visita ai due figli che si trovavano a Mieza - un figura imponente, in un certo qual modo diversa dal comune, rude soldato Macedone e che incuteva innegabilmente un certo rispetto.
Amintore - Aristotele ricordava ancora il nome - sembrava avere modi stranamente gentili, persino raffinati se comparato ai rozzi e chiassosi uomini della sua terra, e non si stupiva che Filippo lo tenesse in così alta considerazione. Persino il suo greco era piuttosto notevole, come di chi avesse frequentato Atene con assiduità.
Quello del ragazzo, invece, era perfetto. Efestione era sicuramente cresciuto ad Atene, forse il figlio di una qualche concubina locale.
Aristotele non aveva approfondito questo aspetto, ed il ragazzo sembrava molto reticente a parlare dei suoi trascorsi, ma non c’era alcun dubbio: l’accento pulito, il dolce suono della pronuncia Attica, una delizia per le orecchie di Aristotele, erano inconfondibili e troppo perfetti perché potessero essere stati meramente appresi.
Aristotele si era stupito di trovare in lui un allievo così attento e brillante. La maggior parte dei ragazzi che si trovavano lì vi erano stati spinti dai padri, che certo speravano di ricavare un qualche vantaggio futuro dal fatto che i figli fossero stati i compagni di scuola del principe e suoi amici fin dalla tenera età. L’avere un posto a Mieza doveva essere stato qualcosa di molto ambito da più d’uno di quegli ambiziosi genitori.
Purtroppo ciò non era stato invece un vantaggio per Aristotele, che si trovava spesso a parlare ad una classe disinteressata e distratta - e questo si era rivelato frustrante oltre ogni dire.
Efestione, al contrario, era una fonte di continua soddisfazione per lui.
Il ragazzo era l’unico che riusciva a tenere il passo di Alessandro nello studio, aveva una mente vivace e curiosa, e spesso le sue fulminee intuizioni erano disarmanti persino per Aristotele.
Dimostrava una logica ferrea, unita ad una sensibilità profonda, rarissima in un ragazzo così giovane.
Aveva diciassette anni, ma spesso, guardando il suo viso serio e concentrato, talvolta persino greve nello sforzo di una riflessione, Aristotele pensava che fosse difficile dargli un’età.
Non aveva la sfrontatezza irrequieta e il gusto per la sfida che caratterizzavano il giovane principe, ma era tranquillo, spesso riservato, sebbene si potesse intuire un flusso continuo di emozioni scorrergli profondamente, sotto pelle.
Un movimento in basso, riscosse Aristotele dalle sue riflessioni: i due ragazzi si erano alzati, Efestione teneva il libro sotto braccio e camminava accanto ad Alessandro, che procedeva spedito - entrambi diretti verso il bosco subito al di là del giardino.
Alla fine dovevano aver deciso di unirsi agli altri, pensò Aristotele non senza un moto di divertimento - la giornata si era fatta afosa e il richiamo allettante del lago doveva essere stato irresistibile anche per loro.
Li seguì con gli occhi finché non scomparvero nella boscaglia, tra le ombre e i cespugli di rosa canina, poi alzò il volto verso il cielo terso, il sole di una luminosità abbacinante e divina.
Sorrise, mentre si schermava gli occhi con una mano. Gli Dei erano stati generosi, sarebbe stata un’estate perfetta e ogni cosa a Mieza ne stava già mostrando i segni.
Aristotele voltò le spalle e scomparve nella fresca penombra del corridoio.

Capitolo 2

“Ed egli governò su tutte queste nazioni, sebbene non parlassero né la sua stessa lingua, né lingue uguali tra loro, eppure, nonostante questo, fu in grado di ricoprire una regione così vasta con il timore stesso che ispirava, e di catturare gli uomini nel profondo, così che nessuno avrebbe mai osato resistergli; e fu in grado di risvegliare in tutti loro, un così urgente bisogno di compiacerlo e amarlo, che essi per sempre desiderarono essere guidati dal suo volere - ”
La voce di Alessandro si diffondeva limpida nell’aria pomeridiana, intrecciandosi ai suoni e al frusciare sommesso e segreto del bosco, mentre la giornata se ne scivolava via indolente verso il crepuscolo.
Si erano allontanati dal giardino del Nymphaion in cerca di un po’di refrigerio
dall’inaspettata calura pomeridiana ed avevano infine scovato un luogo fresco e ombroso tra i cespugli, al riparo sotto le fronde di una quercia circondata da morbide felci.
Ovunque attorno a loro, le piante di mirto e timo in piena fioritura spandevano il loro profumo ed il frinire delle cicale nel caldo opprimente sembrava sovrastare ogni altro suono. Non lontano da lì, un ruscello scorreva fresco e rumoroso, incunenandosi tra le rocce piatte e scivolando verso la valle.
Efestione sedeva ad occhi chiusi con la schiena appoggiata al grosso tronco, mentre Alessandro, accoccolato contro il suo petto, leggeva a voce alta dal rotolo aperto sulle sue ginocchia.
Il passaggio che stava leggendo era uno dei suoi preferiti, Efestione poteva indovinarlo dal semplice andamento della sua voce, che era salita di tono ed era, ora, piena di trasporto. Un sorriso sornione gli incurvò le labbra.
“E ascolta cosa dice qui, parlando di Ciro: un Re dovrebbe esercitare come un incantesimo sui suoi sudditi - non è la cosa più bella che tu abbia mai sentito?”
Efestione si stiracchiò pigramente, cercando di trovare una posizione più comoda contro l’albero e sgranchendosi le gambe intorpidite. Alessandro lo guardò contrariato.
“Ma - mi stai ascoltando?”
“Certo che ti ascolto. Questa corteccia però mi si stava infilando nella schiena e -”
Alessandro lo colpì su una spalla, brontolando qualcosa a bassa voce, poi si stiracchiò a sua volta adagiandosi più comodamente contro il petto dell’amico.
Rimasero in un silenzio confortevole per un po’, ad ascoltare il rumore costante delle cicale ed immersi nell’aroma umido del bosco.
“Non mi stancherei mai di rileggere questo libro. Senofonte sicuramente conosceva ciò di cui parlava, ma a volte faccio fatica a credere che questi luoghi esistano davvero e che siano appena al di là del mare - “
Efestione mise un braccio dietro la testa ed annuì. “Ad Atene, nell’agorà, sentivo spesso alcuni schiavi persiani parlare della loro terra. Ero un bambino e credevo si trattasse solo di leggende. Rimanevo ad ascoltarli a bocca aperta, soprattutto quando raccontavano delle meraviglie e dei tesori delle loro città. Susa, Persepoli, Ecbatana - ”
Alessandro si voltò verso l’amico, il volto arrossato dal calore e dall’emozione.
“Ti ho mai detto di quegli esiliati persiani che si trovavano a Pella, ospiti di mio padre?
Dovevo avere sette anni, allora, ma li ricordo benissimo. Uno di loro, un vecchio - o comunque, a me sembrava un vecchio - si chiamava Artabazo, si era ribellato al suo Grande Re ed era stato mandato in esilio. Mio padre gli aveva dato asilo e si trovava a palazzo con alcuni uomini del suo seguito. Erano nobili e Artabazo era uno di quei principi - di quei satrapi a capo di una delle province del loro impero. Credo fosse la Frigia, ora che ci penso - ”
Efestione annuì, raddrizzandosi a sedere e facendogli cenno di continuare.
“E ora ascolta bene: anche se Lanike mi stava sempre addosso, riuscivo comunque a sgattaiolare via in un modo o nell’altro, e andavo a parlare con il vecchio Artabazo e i suoi uomini. Erano sempre gentili ed affabili con me, penso che anche mio padre avrebbe approvato - e credo che lui immaginasse che andavo lì. Dopotutto è compito di un principe mettere i propri ospiti a loro agio no?” Si interruppe un istante, l’espressione pensosa e concentrata, ed Efestione non poté fare a meno di sorridere divertito. Alessandro aggrottò le sopracciglia.
“Non c’é nulla da ridere, sai?, ascolta: ricordo che erano vestiti in modo strano - i persiani portano i calzoni, hai mai sentito di una cosa più ridicola? - ed avevano barbe e capelli tutti arricciati e profumati. Ma erano le loro storie che mi interessavano di più - ” lanciò un occhiata ad Efestione per assicurarsi che lo stesse ascoltando, poi riprese, “mi facevo raccontare di Susa e di Ecbatana, con il suo palazzo d’estate costruito proprio sulle montagne. Un palazzo che ha sette mura, tutte ricoperte di gemme - d’oro e d’argento, ti rendi conto? Dicono che sembri nascere dalle montagne stesse. E poi Babilonia, e Persepoli, con tutte le ricchezze del mondo - ”
“Persepoli è la città dove risiede il Grande Re,” lo interruppe Efestione, “ho sentito dire che ogni anno i satrapi di ogni provincia si recano lì a porgere omaggi e tributi al loro sovrano. Attraverso la strada sacra che viene da Pasargade arrivano all’ enorme porta con i due tori alati che ne sono a guardia - ne hai sentito parlare, vero? - e vengono ricevuti dal Grande Re in persona - ”
Alessandro annuiva irrequieto ed Efestione gli rivolse un’occhiata di sbieco, cercando di reprimere un sorriso. Alessandro aveva un modo tutto suo di diventare impaziente, se interessato a qualcosa - molto impaziente.
“…e assieme al Re si trovano anche diecimila guerrieri immortali che sono da sempre a guardia del sovrano e dell’impero - sono certo che non sia solo una leggenda. Riesci ad immaginartelo, Alessandro? La fila interminabile di uomini e cavalli, di carri e di guerrieri, nitriti e frastuono - a perdita d’occhio lungo la strada polverosa. E poi la sala delle 100 colonne, dove dicono che risiedano gli Immortali - ”
Alessandro lo ascoltava attentamente, il volto illuminato e gli occhi persi in una visione che sembrava possederlo.
“Didàskalos dice che il loro impero si allunga fino all’India, fino ai confini del mondo. Oltre quel punto si estende l’ immenso oceano accerchiante che racchiude la terra. E megale Thalassa, la fine del mondo, Tìon - ” si interrupe, scuotendo il volto lentamente, come fosse stato attraversato da dubbio improvviso. “A volte mi sembra solo una visione, così lontana da essere quasi inconcepibile - a volte, invece, nei miei sogni mi sembra di poter solo allungare la mano e toccare quel mare. Riesco a vederlo - ne sento persino il profumo. Lo sogno spesso, continuamente - ”
Alessandro parlava veloce, a voce alta, come sempre faceva quando era acceso da uno dei suoi sogni ad occhi aperti ed Efestione lo ascoltava in silenzio, lasciandosi trasportare dall’immaginazione che Alessandro sapeva trasmettergli come un qualcosa di fisico, un segreto che appartenesse ad entrambi e a loro soltanto.
“Vuoi sapere un’altra cosa da non credere? Artabazo mi raccontò che i sudditi del Grande Re sono soliti inchinarsi a lui prima di potergli anche solo rivolgere la parola - ma non è un inchino normale, si sdraiano completamente a terra e non solo i sudditi, ma anche i nobili, i satrapi e persino gli altri re. Non riuscivo ad immaginarmi qualcosa del genere fatto a Pella,” ridacchiò, “voglio dire, riesci a vedertelo tu, quell’orso coriaceo di Parmenione sdraiarsi tutto ai piedi di mio padre come una donnetta?”
Efestione scoppiò a ridere. “Attento a quello che dici Alessandro, Parmenione non ci metterebbe un attimo a passarti sulla punta della sua sarissa se ti sentisse parlare così di lui. Per non parlare di Filota poi, che dà in escandescenze al solo sentir nominare suo padre!”
Alessandro represse una risatina nervosa. “Oh, andiamo, il vecchio Parmenione stravede per me, ma tu vedi di tenere la bocca chiusa, tanto per essere sicuri, va bene? E comunque senti questa: ho sentito dire che In India ci sono re che cavalcano animali enormi, molto più grandi dei cavalli. Sono grigi e sembra che non abbiano peli - ”
“Si, so di cosa parli”, lo interruppe Efestione, ritornando serio, “c’era un mercante ad Atene, con cui mi fermavo spesso a parlare quando mia madre mi spediva all’agorà per qualche commissione. Mi piaceva starlo ad ascoltare. Arrivava sempre al Pireo con un carico di spezie, incenso, canapa, o di tessuti preziosi, a volte persino la seta, che era una vera meraviglia per me - ”
“E questo tuo mercante da dove veniva?”
“Era originario della Caria ma aveva viaggiato per tutta l’Asia ed era molto bravo ad intagliare il legno e le pietre. Una volta mi fece una statuetta d’avorio di uno strano animale - aveva delle orecchie enormi e un naso lunghissimo. Mi disse che si trovava in India e che l’animale vero era gigantesco ma che si poteva cavalcare come un cavallo. I re, laggiù, se ne servono per farsi la guerra.”
Alessandro lo stava fissando con occhi attenti. Efestione cacciò via un’ape che si era posata pigramente sulla sua spalla, ma il ragazzo parve non accorgersene neppure.
“Vorrei vederla, questa tua statuetta.”
“La conservai come il mio tesoro più prezioso - mia madre rideva sempre come una bambina ogni volta che mi vedeva giocarci, diceva che era orribile e che solo a me poteva piacere una cosa del genere. Purtroppo non l’ho più con me. La perdetti quando - ” Si interruppe e la voce gli tremò per un istante, “Beh, tu sai quando.”
Alessandro annuì e si voltò verso di lui sorridendogli con tenerezza, poi scostò un ciuffo di capelli scuri che gli era spiovuto sulla fronte. Sapeva che Efestione non amava parlare di certi argomenti e non sopportava di vederlo triste.
Gli rivolse un sorriso luminoso. ”Tìon, sai che mio padre ha intenzione di rivolgersi ad est, quando avrà risolto le sue faccende con Atene?”
Efestione fece un cenno col capo. Alessandro gliene aveva accennato ma era la prima volta che ne parlava apertamente.
“Me l’ha detto mia madre, sai che mi scrive continuamente. Lei crede che io e Filippo non ci parliamo praticamente più, e suppongo che ciò le faccia piacere, ma mio padre non ha mai fatto mistero della cosa e lui sa che mi interesso di tutto ciò che riguarda le sue campagne e la guerra. Credo che avrebbe già attraversato l’ Ellesponto se Demostene non avesse messo su quella sua campagna denigratoria - ti ho raccontato di quando quel coniglio è venuto a Pella, vero? Se ne è tornato ad Atene con la coda fra le gambe, te lo posso assicurare. Ad ogni modo, al momento mio padre è troppo occupato ad assicurarsi il favore degli Ateniesi, o meglio a tenerli a bada - ma le città greche della Ionia, della Frigia e della Caria hanno chiesto più volte il suo intervento - è troppo tempo ormai che sono sottoposte al giogo dei persiani, è una vergogna per tutti gli Elleni!”
“Beh, questo lo sanno tutti - ”
“Non tutti. Il caro Demostene sembra aver perso la memoria riguardo a questo argomento, a quanto pare. Efeso, Mileto, Alicarnasso, persino Pergamo. Certo partire ora sarebbe una pazzia, non prima di essersi assicurato le retrovie comunque - e la situazione con Atene è ancora tutta da risolvere, ma mio padre guarda a est, non c’è dubbio, e non credo che si fermerà alle città Elleniche della costa, non se lo conosco almeno un po’…”
Alessandro scosse le spalle con un gesto nervoso. Efestione sapeva come fossero controversi i suoi sentimenti verso il padre, come l’avessero sempre lacerato, così diviso tra una malcelata ammirazione e un affetto che era cresciuto in lui suo malgrado, ed un disprezzo instillatogli fin dalla culla dalla madre e certo non migliorato dalla condotta troppo spesso spregiudicata del Re - che Alessandro non aveva mai fatto mistero di disapprovare.
Il ragazzo gli pose una mano sulla spalla, stringendolo lievemente ed Alessandro gli rivolse un sorriso grato appoggiando la mano sulla sua.
“Qualunque sia la sua decisione, continuò con voce più leggera, “spero proprio che mi resti ancora qualcosa da conquistare, quando verrà il mio turno!” e rise, improvvisamente sollevato.
“Sembri molto ansioso di andare in guerra, Alessandro.”
“Non è la guerra a cui sto pensando, o comunque non l’ho mai concepita come un fine, per me - ma voglio andare lontano, Efestione. Qui a Mieza è bello, molto più che bello - e forse sono anche felice, più felice certo di come sia mai stato. Ma mi sento in gabbia, mi sento sempre così ansioso e irrequieto e tu sai bene che i miei sonni sono spesso popolati di incubi - ”
Efestione annuì e fece per rispondere, ma Alessandro scosse il viso e riprese a parlare, una nota impaziente nella voce adesso. “Il vecchio maestro ha molte delle risposte alle mie domande, ma ce ne sono alcune che devo, che voglio trovare da solo. Voglio vedere i confini del mondo di cui tutti parlano, voglio entrare in quelle città che ora posso solo sognare e vederne i tesori, sfiorare quelle mura millenarie e poi - voglio toccare Thalassa, Efestione, mi ci voglio immergere, là dove la terra finisce per gettarsi nel mare - ”
I suoi occhi si persero di nuovo lontani, fissando uno stormo di uccelli grigi che si stagliavano contro il cielo come creature aliene di un altro mondo e seguendo scie che solo lui riusciva a vedere, ed Efestione sentì la consueta lama di paura trafiggergli il petto. Una paura che spesso non riusciva nemmeno ad articolare, il timore annichilente di non essere in grado di poterlo seguire, di essere lasciato indietro come una creatura inutile dimenticata al freddo, nella notte. In quei momenti Alessandro sembrava lontano, così lontano che pensava che se avesse allungato il braccio per toccarlo avrebbe afferrato l’aria, o una lama di fuoco lacerante che sarebbe scomparsa subito dopo averlo incenerito.
Ciò nonostante lo toccò, sfiorandogli le spalle esili e facendolo voltare verso di sé.
“Mi porterai in guerra con te, e ovunque tu vada Alekos, non è vero?”
Alessandro rimase immobile per un istante sbattendo le palpebre, come non riuscisse a capire bene ciò che gli era stato chiesto, poi una linea si formò improvvisa tra le sopracciglia corrugate, trasfigurandogli il viso in un’espressione irata.
“Portarti con me? Come puoi anche solo chiedermi una cosa del genere? Credi davvero che potrei andare da qualche parte senza di te? Per gli Dei, Efestione, dovresti saperlo ormai, che non potrei mai farlo - mai!”
Efestione rimase spiazzato dallo scoppio di rabbia improvvisa. Non si era aspettato quell’aggressione e restarono a fronteggiarsi senza sapere cosa dire per qualcosa che sembrò un’eternità. Poi, l’espressione feroce di Alessandro sembrò addolcirsi con la subitaneità con cui si era manifestata e un sorriso gli apparve sulle labbra fino a quel momento compresse in una linea sottile.
Appoggiò il viso sulla spalla di Efestione e gli cinse il collo con le braccia, affondando il volto nell’incavo della sua gola. “Scusami. Scusami Tìon - ma mi addolora sentirti parlare così, perché è come se tu dubitassi di me. Io non potrei mai partire senza di te, né per l’Asia né per nessun altro posto, questo dovresti saperlo - ”
Efestione rimase immobile per un istante, ancora colpito dall’ira violenta dell’amico e dal brusco cambiamento di umore, poi gli accarezzo fugacemente i capelli con una mano, appoggiando il palmo sulla testa dorata del ragazzo. “Perdonami - ma a volte è come se accanto a te vedessi una fiamma che brucia alta, accecante, e che ti nasconde alla mia vista - ed è in quei momenti che ho paura di non riuscire a seguirti - di non esserne in grado. E’ difficile da spiegare, Alessandro. Non è di te che dubito, ma di me stesso e non ne sono fiero. Mi dispiace per quello che ho detto - dimenticalo.”
La voce gli giunse ovattata dalla stoffa della sua tunica, contro cui Alessandro aveva affondato il viso: “Non dubitare allora. Tu mi seguirai, io lo so, ed io seguirò te, ovunque tu vada. Abbiamo fatto un giuramento, non ti ricordi Patroclo? E non è un voto che alcun mortale possa infrangere - né gli Dei oseranno farlo - solo la morte. I veri amici sono tutto l’uno per l’altro, condividono ogni cosa, soprattutto i loro sogni - o l’hai dimenticato?”
Efestione corrugò la fronte. Non gli piaceva come spesso Alessandro indugiasse sul pensiero della morte, ma sorrise dolcemente mentre il ragazzo alzava il volto per guardarlo.
“I veri amici condividono tutto, sì - lo so bene - e non lo dimenticherò più, te lo prometto.”
Alessandro annuì con convinzione. Rimasero vicini, in silenzio per qualche istante, poi Alessandro si staccò dall’amico per raccogliere il rotolo di pergamena che era scivolato sull’ erba. Lo riaprì con cura, come qualcosa di sacro e lo porse ad Efestione.
“Ed ora, Patroclo,” esordì con un tono placido che tuttavia non ammetteva repliche, “che ne diresti di continuare tu, per un po’, la lettura?”
Efestione gli rivolse un sorriso divertito. “Che cosa c’è, il grande Achille ha dimenticato come si legge in greco?”
Alessandro lo colpì sulla fronte e gli strappò la pergamena dalle mani. “Molto divertente, davvero, ma per mia fortuna so leggere benissimo, anche meglio di te. Lo sai, però, che mi piace ascoltarti leggere con il tuo accento ateniese. Nessuno legge come te, ed è - così bello da ascoltare - ”
Efestione sorrise con dolcezza e gli prese di nuovo il rotolo dalle mani, poi si accorse che Alessandro lo stava fissando con una strana espressione interrogativa, una domanda inespressa negli occhi grigi. Conosceva bene quella sua espressione, come ogni altra, ogni suo moto, ogni sua sfumatura.
“Avanti, dì! Che cosa c’è? Che ti passa per la testa?”
Alessandro sembrava riluttante a parlare; fece un respiro profondo e appoggiò il mento sui palmi delle mani. “Mi chiedevo - sì insomma, a volte mi chiedo se ti manca quella vita - la tua vita laggiù intendo - ”
Efestione emise un sospiro e appoggiò il rotolo sull’erba, accanto a lui.
“Non direi - sai bene che non sono mai stato felice ad Atene. La mia vita è iniziata qui, in Macedonia, il giorno in cui sono arrivato.”
Alessandro lo scrutò con occhi attenti, l’espressione indecifrabile. “So che non è stato facile per te all’inizio. E’ tutto diverso qui. Ma ora hai tuo padre no?, lui ti ama molto. E c’è Liside e - ” sembrava ansioso, come fosse turbato da qualcosa.
Efestione scosse il viso lentamente. “Sai bene che non si tratta solo di questo, Alessandro. Ho trovato molto di più qui. E comunque,” aggiunse con un sorriso divertito, “se proprio lo vuoi sapere, Liside mi odia a morte - ”
Alessandro proruppe in una risata argentina. “Questa la dovevo ancora sentire! Liside ti odia? Quel tuo moccioso di un fratellino non fa un passo senza imitarti in tutto, e tu dici che ti odia? Per Zeus, Efestione, a volte mi chiedo dove hai gli occhi!”
Alessandro non riusciva a smettere di ridere. Efestione gli scoccò un’occhiata minacciosa e lo spinse via con un’imprecazione, facendolo rotolare in mezzo alle felci.
“Sua altezza oggi è davvero in vena di scherzi a quanto pare! E comunque vorrei ricordarti che il moccioso di cui parli ha la tua età, né un anno in più, né un anno in meno - o l’hai dimenticato, principino?”
Alessandro, che si stava rimettendo in ginocchio ripulendosi dall’erba, gli spedì un’occhiata torva e inequivocabile ed Efestione riuscì a soffocare una risata appena in tempo. Assunse un’aria vaga, cercando di non scoppiare di nuovo a ridere. Sapeva come Alessandro fosse terribilmente suscettibile a chi gli ricordava che era il più piccolo, tra gli allievi di Mieza.
Era orgoglioso fino all’impossibile.
“Comunque ti assicuro che ti sbagli su Liside, Alessandro. Non mi stupirei affatto di sapere che avrebbe voluto finissi sulla cima di qualche lancia ben appuntita, quando tuo padre ha assediato Olinto. Dovevi vederlo i primi tempi, quando mi portarono a casa. Mi evitava come fossi stato un serpente velenoso, o qualche nuova specie di insetto particolarmente disgustoso - ”
Alessandro si rabbuiò per un attimo: “Oh, che sciocchezze! Non voglio nemmeno sentirti dire cose del genere, Liside o non Liside. Il solo pensiero che tu ti sia trovato in mezzo a quell’assedio mi dà ancora gli incubi. Non posso nemmeno immaginare che cosa deve - essere stato.” La voce si abbassò di un tono, “a volte mi chiedo come tu possa non odiare mio padre per - per tutto quello che è successo.”
Efestione scosse la testa con aria seria. “Non lo odio affatto, tuo padre non l’ha certo fatto come qualcosa di personale, e noi non ci conoscevamo neanche. Filippo è un re, ha preso le sue decisioni in accordo con la sua politica, ed il destino di un uomo è sempre legato a quello del suo signore - nel bene e nel male. E’ così che vanno le cose Alessandro, dovresti saperlo.”
Alessandro sbatté le palpebre con veemenza. “Hai ragione, ciononostante ti ammiro per come ti sei sempre comportato con lui. E comunque quando penso a quell’assedio - e a tua madre, che non ho mai conosciuto, io vorrei - vorrei - ”
Efestione gli appoggiò una mano sulla testa rimanendo in silenzio. Non c’era bisogno di parole tra loro, capiva benissimo i sentimenti di Alessandro, ma parlarne era inutile e non voleva in nessun modo che fosse turbato a causa sua.
“E’ una cosa che appartiene al passato, Alessandro, non c’è motivo perché tu debba essere ancora così arrabbiato. E’ finita, va bene così, c’era una ragione per tutto. Gli Dei avevano un loro disegno che alla fine si è rivelato. Non -”
“Come puoi parlare così, Efestione?” gridò improvvisamente Alessandro, una sfumatura rabbiosa nella voce adesso, “come puoi rimanere così indifferente dopo quello che ti è successo? Non riesco a capirti! ”
Efestione scosse il viso, lentamente. “Adesso ascoltami - non angosciarti per questo e non pensare che io sia indifferente, perché non lo sono - non potrò mai esserlo. Ma non è mai stato saggio cercare di riportare indietro le ombre, Alessandro - lasciamole dove sono. E’ quello che ci è stato insegnato, e non c’è nulla che si possa fare per cambiarlo.“
Alessandro abbassò gli occhi, mortificato. Efestione appoggiò la fronte alla sua, in silenzio.
Era vero, non ce l’aveva con Filippo per quello che era successo ed il Re era sempre stato gentile con lui - ma spesso, anche solo chiudendo gli occhi, udiva ancora il pianto terribile e disperato delle donne e dei bambini e le grida degli uomini, lo strepito dei soldati e il rumore assordante delle lance, mentre berciavano di distruggere tutto, di bruciare tutto, nel dialetto macedone che allora l’aveva riempito di terrore.
Poteva ancora sentire il calore spaventoso e soffocante del fuoco che sembrava essere ovunque, mentre il bosco e la città bruciavano senza più speranza, il sapore metallico del terrore spinto giù nella gola, a tagliargli il respiro nella corsa disperata per una salvezza che non era venuta.
Più di tutto, ricordava il volto di sua madre, della sua bellissima madre, distorto in un ghigno di terrore e disperazione, in una maschera di sangue e sporcizia. Non aveva mai saputo che cosa ne fosse stato di lei e sapeva che Amintore non si dava pace per questo, ma in cuor suo a volte sperava che fosse morta quella notte e le fosse stata risparmiata l’orribile esistenza che certo l’avrebbe attesa se fosse sopravvissuta.
Fu riscosso dalla consapevolezza del calore del corpo di Alessandro contro il suo e la soffocante nube grigia che gli aveva avvolto la mente parve dissiparsi in un istante.
Gli sorrise.
“Alla fine sono arrivato qui. Una volta mi dicesti che gli Dei vedono cose che ai nostri occhi sono precluse, ma che dobbiamo saperli ascoltare e io ti risposi che non ero daccordo; ero molto arrabbiato allora, ma qualunque sia stato il prezzo, ne sono stato ampiamente ripagato Alessandro, per cui, forse, non avevi poi così torto.”
Alessandro gli sorrise radioso, un sorriso quasi intossicante nella sua gloria, e tutto sembrò tornare alla normalità, come una nuvola capricciosa che finalmente si allontani per lasciar filtrare di nuovo il sole.
Efestione si stupì ancora una volta della luminosità che sembrava irradiare da ogni fibra del ragazzo e del potere che ciò aveva sempre avuto su di lui. Bastava davvero uno di quei sorrisi per dargli la forza di guardare avanti, e per cancellare ogni dubbio, ogni tormento? Non era ancora riuscito ad abituarsi a questo, tanto meno a spiegarselo, ma aveva finito per accettarlo come un dono del Dio.
O forse una maledizione - pensò per un attimo brevissimo.
Sporse il braccio per raccogliere la pergamena che giaceva a terra dimenticata, ma Alessandro fece una smorfia contrariata.
“Basta con la lettura per oggi, fa troppo caldo! La prossima volta ce ne andiamo anche noi al lago, e per favore uccidimi se ti parlo ancora di libri.”
Si guardarono per un istante, poi scoppiarono a ridere, un suono che si diffuse come una nota nell’aria ferma del tardo pomeriggio.
Alessandro si adagiò meglio contro il corpo dell’ amico e chiuse gli occhi; Efestione incrociò le braccia dietro la nuca, sistemandosi contro il tronco nodoso della quercia, ed alzò lo sguardo verso il cielo.
Nubi rossastre attraversavano pigre il cielo luminoso, ed il carro solare aveva ormai quasi terminato il suo viaggio verso ovest. Apollo sarebbe presto tornato alla sua casa.
Squarci rosei e vermigli si stagliavano sopra l’orizzonte, colorando l’azzurro di sfumature sanguigne; da un momento all’altro Aristotele avrebbe dato ordine di preparare la cena e si sarebbe certo arrabbiato se non si fossero fatti trovare puntuali alla tavola del refettorio insieme agli altri.
In quel momento tuttavia, Efestione non se ne dava pena, troppo intento ad assaporare quello stralcio di istante così perfetto perché potesse essere interrotto da qualcosa di così insignificante.
L’armonia di tutto lo colpì quasi dolorosamente, come una lama affilata. Il ripetersi dei suoni del bosco, costanti e mai uguali, il rumore incessante del fiume - che non riusciva a vedere ma di cui avvertiva la frescura - l’odore metallico dell’acqua, il fruscio delle fronde e delle foglie che mormoravano sommessamente, forse scosse dal passaggio di qualche spirito. Tutto gli apparve di colpo misterioso e chiaro, come non avrebbe mai creduto possibile ed il cuore accelerò il battito nel suo petto, simile al frullo di ali prigioniere.
Poi l’istante passò, e si stupì di non riuscire quasi a ricordare quella sensazione inspiegabile di pienezza e di riverenza, di timore e venerazione. Se davvero un Dio era passato e l’aveva sfiorato, adesso era scomparso e ne rimaneva solo una piccola traccia sul fondo di sé, come sempre accade ai mortali che sono benedetti, anche per un breve attimo, dal tocco divino. Ricordò le parole di sua madre in un giorno lontano, il dolce mormorio della sua voce nella penombra di una camera da letto: “…la verità degli Dei, piccolo mio. Persino un tocco leggero è troppo intenso perché gli uomini possano portarne il ricordo o viverne la pienezza e rimanere illesi. Altrimenti è morte, o pazzia…”
Abbassò gli occhi, turbato da questo pensiero, e osservò Alessandro. Il suo respiro si era fatto più profondo e regolare e il petto si alzava e abbassava appena nel sonno. Aveva la pelle chiara e arrossata dal sole e dalla temperatura, e le ciglia proiettavano ombre scure sulle guance lisce.
Il suo sonno era lieve, come quello dei felini - non aveva mai avuto il sereno abbandono e la morbidezza del riposo dei mortali, ma sembrava sempre vigile e fermo, anche e soprattutto nei momenti in cui avrebbe potuto apparire più vulnerabile.
Ma non c’era nulla di vulnerabile in lui, Efestione lo sapeva bene. Era solo in attesa, come una belva accucciata, ma pronta a spiccare il balzo al più flebile respiro.
Gli scostò una ciocca di capelli dal viso e gli toccò una guancia. La sua pelle era fresca e ardente allo stesso tempo - la sua temperatura corporea era sempre stata innaturalmente alta, come avesse un fuoco che bruciasse costantemente nel profondo del suo essere. Questo lo turbava e spesso lo infastidiva. A volte si chiedeva se Alessandro non stesse in qualche modo consumando sé stesso e se un giorno quel fuoco l’avrebbe distrutto, lasciando di lui solo le ceneri.
La schiena gli faceva male contro il vecchio legno, ma non voleva muoversi, non voleva svegliarlo, così rimase immobile, con la mano posata sui capelli biondi del ragazzo e gli occhi chiusi mentre lo zefiro serale gli accarezzava la fronte.
Dopo qualche istante anche Efestione sentì le dita lievi del sonno che lo toccavano e si lasciò scivolare in un oblìo bianco e silenzioso.

EDIT: siccome la fanfiction è molto lunga la posto in due entry, più un'altra entry per il secondo raccontino, ambientato nello stesso periodo della fic, e che ritrae un momento particolare del rapporto dei due guerrieri greci ^_^

flora, fanfiction, italiano, alexander

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