[Nathan/Peter. PG. Commenti aperti solo a nate_petrelli.]
Domenica, 24 Dicembre 2006.
Okay, no, non sono calmo, è inutile ripetermi il contrario. Ma almeno sto provando a stare calmo, e dovrà funzionare. Alla fine. Forse
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È una piccola costruzione solitaria in mezzo a un mare di sabbia, difficile da vedere se non la stai cercando. Il pilota sa dove è più sicuro atterrare, anche se a me sembra che in un deserto un punto valga l'altro. Per qualche minuto si solleva un polverone che ricopre interamente gli oblò e oscura la vista, poi lentamente la sabbia si dirada. È una specie di cubo di muratura basso e senza finestre con un portone di metallo. I centoventi metri quadri si estendono tutti sottoterra. Chi me l'ha venduto mi ha assicurato che una costruzione del genere può resistere a tre guerre nucleari e un'era glaciale, non necessariamente in quest'ordine. Un mese fa mi sono chiesto se avrebbe resistito a Peter. Ora mi chiedo se Peter resisterà a questo posto, e per quanto.
Ho portato un po' di roba dal mondo civilizzato. Ricordo perfettamente le schifezze che ci passavano nell'esercito, e quello che mangia Peter non sarà molto meglio. Non sono i pacchi a pesare - sì, ho portato un bel po' di roba, non è questo il punto - ma non riesco a camminare spedito come dovrei. Non sono tranquillo. E non voglio che Peter se ne accorga, e non voglio che mi legga la mente come le altre volte.
Non voglio che succeda di nuovo. Non voglio perdere il controllo, perché stavolta le conseguenze ci ucciderebbero. Abbiamo vissuto fianco a fianco per ventisei anni, non c'era motivo perché qualcosa cambiasse ora. E se è successo quello che è successo non è stata colpa di nessuno dei due, ma dell'amnesia e di qualcosa - affetto reciproco? - che abbiamo frainteso in mancanza di punti di riferimento.
Andrà tutto bene.
Appoggio un paio di pacchi a terra, liberando una mano per - uhm - suonare il campanello. Non so e non voglio sapere quanti decenni abbia questo posto. Spero solo che abbia un servizio igienico decente.
Si capisce che stavo aspettando davanti alla porta - ho aperto la porta prima che Nathan smettesse di suonare il campanello, e non m'importa se questo mi fa sembrare un ragazzino ansioso. Forse a ventisette anni non sono un ragazzino, ma non potrei nascondere l'ansia neanche a provarci, quindi non ci provo. E, sì, in teoria sono qui apposta per provare a limitarmi, imparare a controllarmi, ma in pratica poi Nathan arriva ed è un discorso a parte. Con Nathan è sempre un discorso a parte.
"Ehi! Nathan." Sono nervoso, sì. Dio, anche il mio sorriso è dannatamente nervoso. E' che - non so esattamente cosa dire e come salutarlo. Non potrei toccarlo (il che risolve alcuni problemi per, tipo, due minuti), perchè ha una sorta di intero supermercato addosso, e penso ci sia più cibo in quelle buste di quanto io possa mangiare in due mesi. Prendo due pacchi e una busta, e chiudo la porta alle sue spalle. Poso tutto sul tavolo (unico mobile della stanza, insieme a due sedie. Non è che ho molta voglia e possibilità di arredare, qui. Anche se di tempo ne avrei fin troppo.) e lo guardo. Gli sono cresciuti un po' i capelli, ma davvero non c'è speranza di rivederlo con la barba, e dovrei saperlo. Io credo di non aver usato un rasoio da almeno una settimana (me lo farà notare, sono sicuro. Lo fa sempre, quando non mi raso per più di tre giorni.) Ma è lo stesso.
Non riesco a scacciare del tutto l'idea di essere appena tornato a casa dopo aver fatto la spesa al supermercato.
(Detto per inciso, non ho mai fatto la spesa in un supermercato. Ma ho accompagnato Peter, una volta, quando si è trasferito nel suo appartamento.)
"Credevo di avertelo mandato, un rasoio."
Peter sposta il peso da un piede all'altro, incerto. Lo fa sempre quando è nervoso. Io penso che impazzirei se fossi così trasparente - se tutti mi potessero leggere dentro come io leggo dentro di lui. Impazzirei dopo due giorni. Quando si avvicina, esita per un attimo e per un attimo mi chiedo se mi abbraccerà. Ma Peter si limita a prendere un paio di buste e si allontana senza sfiorarmi. Non so se sia delusione o sollievo, so solo che è una sensazione che non mi piace.
"Le lasagne te le manda Mamma. Scherzavo. Non ci sono lasagne. È tutta roba confezionata, e comunque Mamma non sa neanche come si accenda il forno."
"L'ho perso. E roba confezionata è meglio di roba liofilizzata."
Non che io mi lamenti, di quello che mangio non me ne frega niente. Mi ricordo volte in cui Mamma non mangiava, al ristorante, perchè 'la marca di caviale non era giusta'. (Credo fosse più che altro per fare scena con gli invitati, ma ancora ho in mente la scena se penso alla relazione della mia famiglia con il cibo.)
Un Nathan che scherza male è un Nathan a disagio. Di sarcasmo e ironia a volte ne ha anche troppo - è stressante, quando cominci a non capire quando fa sul serio. Se non fosse per il mio buonsenso (e Nathan riderebbe se dicessi 'io' e 'buonsenso' nella stessa frase: come ho già detto, è stressante), sarei davvero saltato dal Ponte di Brooklyn sei mesi fa. (Il che a pensarci dice molto sulle conseguenze di quello che mi dice Nathan. Okay, meglio non pensarci.)
Come ci si comporta con un Nathan a disagio? Non è che me ne intenda molto - nelle volte in cui è stato così in mia presenza, in genere io ero molto, molto, molto più a disagio di lui. Diciamo che ho rimosso i traumi, ecco. Quindi. Nathan a disagio. Cosa quasi nuova. Non so come comportarmi.
Mi tiro indietro una ciocca di capelli e faccio un gesto generale in direzione delle varie stanze. "Vuoi dare un'occhiata in giro?"
Come si può perdere un rasoio in un bunker? A meno che non se lo inghiotta la terra. Forse l'ha fatto esplodere.
"Prima di andare via ricordami di costringerti a fare una lista di quello che ti serve. Se ti lascio fare, a Mamma prenderà un infarto quando tornerai a casa."
La verità è che nessuno dei due sa quando finirà questa storia del bunker. Continuiamo a darci scadenze (Allora il mese prossimo. Forse tra due mesi. Comunque sicuramente prima di tre.), ma non abbiamo la minima idea di quanto tempo ci vorrà perché i poteri di Peter tornino completamente sotto controllo. Continuiamo a far finta che sia tutto a posto, e invece non c'è una singola fottuta cosa che funzioni in questa storia. Peter non dovrebbe stare qui, e io non dovrei essere qui a visitarlo come un parente in carcere. Peter dovrebbe stare a casa, con la sua famiglia. Con la gente che può prendersi cura di lui. Con la gente che lo ama.
Mi chiedo quanta parte del mio nervosismo sia dovuta al fatto che non riesco più a dormire.
"Certo." Sorrido, ma francamente ho paura di scoprire in che condizioni l'ho costretto a vivere nell'ultimo mese. Peter non dovrebbe mai essere costretto a vivere da solo.
In realtà non è che ci sia molto da mostrare. Tre porte su un lato del salone, un corridoio e un'altra stanza in fondo.
Apro la prima porta, "Bagno. Non fare quella faccia, è stato ristrutturato." E non c'è una vasca da bagno, ma c'è una doccia ed è pulito (per la maggior parte), quindi davvero, va bene. Ci posso vivere. I bagni in prigione sono infinitamente peggio. (E non dovrei essere capace di fare un confronto, ma capita di essere arrestati, no? Una o due volte. Capita.)
Passiamo oltre, e c'è la mia camera, di cui apro appena la porta perchè, okay, questa non è una stanza molto pulita. Ma ci sono solo lenzuola un po' in disordine e vestiti e fogli e libri per terra, non è proprio disordinata. Uh, non disordinatissima. "Computer, telefono." Li indico, lì sul ripiano a sinistra del letto, come se Nathan non sapesse riconoscere un computer e un telefono, e mi sento un po' un cretino - un po' tanto.
Nella terza stanza ci sono le scorte, scaffali pieni di cibi in scatola, liofilizzati o imbottiti di conservanti, e nell'angolo a destra un lavandino e un fornello. Cerco di smettere di dire il nome di tutte le cose, come un bambino di tre anni che ha appena scoperto tante parole. Ma non so davvero come coprire il silenzio e l'imbarazzo.
In fondo al corridoio c'è la Stanza degli Allenamenti, o come cavolo dovrei chiamarla. "Qui è dove cerco di non esplodere. Lì ci sono pesi. E, uh, cose. E...basta, è tutto qui." Non so dove mettere le mani, perchè non ho tasche. Il problema sarebbe risolto, se potessi appoggiarne una alla spalla di Nathan - ma già se faccio un passo avanti lo vedo irrigidirsi, e non voglio vederlo tirarsi indietro. Sarebbe troppo. Continuo a spostarmi la stessa ciocca capelli dietro le orecchie, e Dio, odio questa situazione.
"Uhm. Ti sei organizzato bene" è tutto quello che riesco a dire in questo momento. Non è il posto in sé a darmi sui nervi. È un rifugio anti-atomico, e sapevo già cosa aspettarmi da un rifugio anti-atomico. Non è la prima volta che ne vedo uno, cazzo. E Peter sembra davvero essersi organizzato bene. Sembra tranquillo, efficiente perfino. Ho sempre saputo che sarebbe stato in grado di cavarsela. Anche senza uno straccio di vasca da bagno. Quello che non riesco a immaginare è Peter che lava per terra o fa il bucato. Quando abitava nel suo appartamento gli mandavo una donna delle pulizie nelle ore in cui era fuori casa (e credo lo sapesse, anche se non ne abbiamo mai parlato), ma nessuna donna delle pulizie verrebbe a pulire un posto del genere. Senza contare che siamo già in troppi a sapere di questa storia.
Mi chiedo se tra un mese o due i giornali tireranno fuori la storia del fratellino disturbato (quella è stata in assoluto la peggiore idea della mia vita) e diranno che è tempo di far prendere aria agli scheletri nell'armadio del Senatore Petrelli. Non so se mi risolleverei da uno scandalo del genere. Non so se riuscirei a guardare di nuovo Peter in faccia.
Avanzo nella stanza in cui Peter cerca di non esplodere. È più grande delle altre, una specie di immenso stanzone vuoto con della roba accatastata a una parete, pesi, cuscini, spranghe di ferro piegate o spezzate (ora ricordo quando Peter mi ha chiesto di mandargliele) e altra spazzatura che non guardo per più di un secondo. Le pareti sono bruciate su tutti e quattro i lati, chiazze nere larghe come macchie d'umido sui muri bianco-grigiastri della stanza.
"Sei mai... voglio dire, ti è successo di nuovo? L'esplosione?" domando senza voltarmi, ma piuttosto sento riecheggiare sulle pareti quello che sto davvero pensando:
Distolgo lo sguardo, rispondendo, anche se so che non mi sta guardando.
Uno magari pensa che, se non rischia di uccidere centinaia di persone, allora può esplodere tranquillamente. Che non avrà paura, che non farà male. E invece non è così, non è stato così. E non mi va di ripensarci, perchè volevo così tanto che Nathan fosse lì, allora, come la prima volta.
Però vedendoci ora, noi due, penso che davvero, è meglio che non fosse qui allora. E non solo per le ovvie ragioni, ma perchè non so se mi avrebbe tenuto stretto questa volta, se avrebbe avuto il coraggio, e se io avrei potuto dire ti amo senza problemi, senza pensare a implicazioni o complicazioni e tutto il resto. Ed è meglio non saperlo. Se la risposta è no, io non voglio saperlo. Non voglio pensare di aver rovinato tutto fino a questo punto ma forse l'ho fatto. E allora, allora non lo so che succede. Che facciamo, ora. Non lo so.
"Mi dispiace" rispondo, voltandomi, e so che è la cosa più stupida da dire ("Sono esploso" "Oh, mi dispiace. Un altro po' di insalata?"), ma è la prima cosa che mi viene in mente. Mi dispiace di aver lasciato che accadesse e mi dispiace di non essere stato qui. E scusami perché ti sei risvegliato e non c'era nessuno a procurati un paio di pantaloni interi e un bicchiere d'acqua e riscaldarti la cena. Mi dispiace perché è stato un fottuto deserto, ancora una volta, dentro e fuori, e io avrei dovuto esserci e chissà dov'ero in quel momento. Mi dispiace perché quella volta, senza sapere chi eravamo, eravamo molto più vicini e noi stessi di adesso che non riusciamo neanche a guardarci negli occhi.
Non so come farglielo capire, e so che nel dubbio non ci proverò nemmeno.
"Avresti dovuto dirmelo. Chiamarmi. Sarei venuto." Sarei venuto davvero. Sai che l'avrei fatto.
"Non c'è niente di cui vergognarsi, Pete. Guardami." Faccio un passo verso di lui. Non abbastanza per colmare tutta la distanza, ma c'è meno freddo così. "Non abbiamo niente di cui vergognarci, okay? Niente."
Nathan la chiama vergogna ma non è vergogna. Abbasso gli occhi come quando a sette anni rovistavo tra le sue cose - ero geloso di questo college che gli rubava tanto tempo e lo faceva stare via troppo a lungo - e ho rovesciato per sbaglio inchiostro sulla sua scrivania, macchiando quaderni e agende e tutto. Ed è la stessa cosa, ora, perchè ho macchiato qualcosa, ho messo le mani dove non dovevo ed è successo un casino, sapevo che sarebbe successo e l'ho fatto succedere. E non riesco a vergognarmene (e forse di questo dovrei vergognarmi), è peggio, è molto peggio. E' senso di colpa e coscienza - perchè lo sapevo, e lo so, che l'inchiostro non va via. Non va mai via.
Apro la bocca ma non so cosa sto per dire, cerco di guardare Nathan ma è difficile. E se sapesse, Dio. Lui se ne vergognerebbe. Lui ha pudore. Dignità. Regole. Morale. Credo di avere avuto anch'io queste cose, a un certo punto della mia vita, ma ne ho perse troppe per strada. Non so esattamente com'è successo. Alcune mi rimangono, ma non nello stesso modo di Nathan o del me di una volta. Le cose si fanno sfocate, quando muori. E ultimamente sono morto più di una volta. Il problema è che quando cerchi di rimetterle a fuoco, ormai le cose sono confuse insieme ed è difficile non essere confusi anche nella testa, allora.
Però se chiudo gli occhi e smetto di guardare Nathan, allora è più facile deglutire e rispondere "Okay. A-avrei dovuto, hai ragione.", facendo finta che le cose siano un po' meno complicate.
Conosco quel tono. Conosco tutti i toni di Peter, da quello spaventato a quello incazzato a quello confuso. Ho cominciato la collezione quando è nato, anche se con i vagiti era un po' più difficile, e credevo di averla terminata quando Peter è entrato nell'adolescenza e ho sentito anche il tono dell'odio (sì, era diretto a me; ma non ricordo perché). Non pensavo che avrei mai sentito un tono implorante, perché non credevo possibile sentire Peter implorare, e il suono della sua voce mentre veniva e chiamava il mio nome - e non importa che non fosse il mio, era il mio pur non essendolo - quello è stato l'ultimo. Ma il punto, adesso, è che conosco questo tono, e non mi piace che Peter sia condiscendente con me, perché io ho bisogno che capisca, non che mi dia ragione sperando di tenermi buono. Ho bisogno che senta quello che sento io, anche se non so bene cos'è. Ho bisogno che sappia che non è vergogna, la mia - o meglio lo è, ma non è dovuta alla ragione che pensa lui, e non è diretta a lui. Mai a lui. Ho bisogno che sappia che se è vergogna, è vergogna di me stesso.
Ma non so come dirglielo.
"Allora. Non mi mostri niente? Qualche trucchetto nuovo?"
Sospiro, ma non è sollievo (non può esserci sollievo, ora), è solo fatica. Questa non conversazione, questo non sapere, questo, mi stanca, mi soffoca. Vorrei dire fanculo i trucchetti, gli allenamenti. Fanculo tutto. Dimmi solo come fare funzionare le cose, Nathan. Tu sei quello che fa funzionare le cose. Fa funzionare anche questo. Cosa facciamo ora?
Non so quale sia la risposta. Forse la risposta per lui è non vederci mai più e basta, e Dio, forse sarebbe meglio di questo, di vedersi così e - e no, no, non è vero. Forse una risposta non c'è e basta, e non funzionerà più.
Ma posso fare finta che non sia vero, e far volare qualche cosa per la stanza, per un po'. "Non molto," rispondo, alzando una mano in direzione del mucchio di spranghe. Devo guardarle, concentrarmi e aiutarmi con dei gesti (piuttosto scenografici, bisogna ammetterlo) per farne sollevare una, e annodarle su sè stessa a mezz'aria - fare qualcosa mi conforta, in questo momento. E' facile, porta la mia mente a non pensare, ad agire come un muscolo che piega fisicamente il metallo. E' facile. Questo, questo posso farlo funzionare. Con un gesto faccio arrivare qui le sbarra, e una volta tra le mie mani, la piego nel verso contrario per farla tornare più o meno dritta. Più o meno, ancora devo fare progressi, e la superforza non è per niente facile da gestire, comunque. E sì, ho un po' di fiatone, quando metto il metallo non-proprio-come-nuovo nelle mani di Nathan.
Quando Peter mi porge la spranga raddrizzata, il metallo è tiepido nelle mie mani. So che ho visto miracoli a sufficienza perché non debba più stupirmi per tutta la vita, ma questo è comunque...
"... stupefacente."
Alzò lo sguardo. Peter ha il fiato corto, le guance leggermente rosse per lo sforzo. Mi ricordo improvvisamente che usare un potere per volta è già stancante - non posso negare di aver fatto un po' di pratica - ma posso solo immaginare cosa significhi controllarne due o tre contemporaneamente.
"Peter? Tutto bene?"
Sollevo una mano per posargliela sulla spalla. È un gesto talmente istintivo e abituale che me ne rendo conto quando la mia mano è già lì, a qualche centimetro dalla sua maglietta. Lo sguardo di Peter, nel mezzo secondo che gli occorre per valutare la situazione, brucia più delle ustioni che hanno richiesto un mese e tre interventi di chirurgia per guarire, e anche così hanno lasciato il segno. I segni.
Gli stringo la spalla nella mano, brevemente.
"È presto per il pranzo, ma visto che sei andato avanti a liofilizzati e carne in scatola per un mese, forse vuoi dare un'occhiata...?"
Annuisco, e poi c'è la mano sulla spalla. A volte mi sembra di aver avuto le mani di Nathan sulle spalle per tutta la vita. Ad ancorarmi giù, a supportarmi, e tante volte mi è sembrato che non ci fosse nulla di solido a questo mondo eccetto quelle mani. Un mese fa, per esempio. M'inumidisco le labbra, perchè i ricordi di un mese fa le inaridiscono, le bruciano, e quei ricordi sembrano più veri, ora. Nathan sembra più vero, ora che mi sta toccando. E dio, se io non riesco a non togliermi dalla testa quei ricordi, a causa di una sola dannatissima stretta sulla spalla, allora davvero non so come sopporterò tutto questo. Non lo so.
"Sì," rispondo, a bassa voce. Come se parlando troppo forte potessi rovinare anche questo. Continuo a fissare la sua mano, quando mi lascia la spalla, "okay."
Se le cose fossero normali tra di noi, in questo momento probabilmente lo starei abbracciando. Gli direi che tutto si aggiusterà o altro su questo stile. Gli darei un bacio sulla fronte e aspetterei di essere sicuro che abbia capito prima di lasciarlo andare. Anche se i giorni dell'amnesia si sono mischiati in una sola reminiscenza comune, confusa e nebulosa come il ricordo di un sogno, io so di aver già vissuto tutto questo - l'imbarazzo e la distanza e il non volerlo toccare per paura che tutto esploda di nuovo - metaforicamente stavolta, ma è un po' lo stesso. So anche che già una volta il rimedio è stato peggiore del male, anche se ormai il danno era fatto, e fatto per sempre. Ricordo la disperazione che ne è seguita perché semplicemente non posso dimenticarla. Potrei dimenticare la mia, col tempo, ma non quella di Peter. Perciò l'errore passato dovrebbe avermi insegnato qualcosa; se non altro, a non lasciare che Peter rimugini troppo a lungo sulle cose, perché quando Peter è lasciato in condizione di rimuginare può solo fare qualcosa di incredibilmente stupido o arrivare alla disperazione. O entrambe. E un Peter disperato è impossibile da fermare, se non con qualcosa di altrettanto disperato - e questa volta non posso permetterlo.
Ma la verità è che ultimamente non c'è una parte di me che risponda come vorrei, e anche se non prendere nessuna scelta equivale a prenderne una in ogni caso, per il momento aspetterò che rifluisca la marea. È la prima volta in tutta la mia vita che non mi fido di me stesso.
"Avrei voluto portare un tacchino ripieno, ma si sarebbe raffreddato e non volevo che lo facessi esplodere cercando di riscaldarlo."
Esco dalla stanza con una smorfia che, forse, vorrebbe sembrare un sorriso. E' come se non fossimo noi stessi, e questo è così assurdo e - e neanche lo so più, Dio, e davvero l'imbarazzo è una delle sensazioni migliori in giro al momento, davvero. Ma fa comunque schifo.
"Peccato. Avrei potuto recuperare il Giorno del Ringraziamento. E' stato triste festeggiarlo solo con carne in scatola."
Torno in quello che sarebbe il salone, ma è troppo vuoto per essere considerato tale, e rovisto tra buste e pacchetti finchè non ne trovo una piena di pasta. Certo che Nathan me ne ha portato dieci tipi diversi. E si è dimenticato anche questa volta che preferisco le penne lisce. Perchè si dovrebbero mangiare solo col sugo di pesce? A me piacciono comunque. E la gente dovrebbe smettere di fare facce disgustate quando glielo dico, davvero. Prendo un pacco di spaghetti e entro nella stanza delle scorte, senza controllare che Nathan mi segua perchè dove può perdersi in centoventi metri quadrati? C'è un'unica pentola sotto il lavello, e metto su la pasta. Afferro una scatola di pomodori lì vicino, mi giro e la sventolo sotto il naso di Nathan. "C'è solo sugo in scatola. Sopporta."
È una specie di cubo di muratura basso e senza finestre con un portone di metallo. I centoventi metri quadri si estendono tutti sottoterra. Chi me l'ha venduto mi ha assicurato che una costruzione del genere può resistere a tre guerre nucleari e un'era glaciale, non necessariamente in quest'ordine.
Un mese fa mi sono chiesto se avrebbe resistito a Peter.
Ora mi chiedo se Peter resisterà a questo posto, e per quanto.
Ho portato un po' di roba dal mondo civilizzato. Ricordo perfettamente le schifezze che ci passavano nell'esercito, e quello che mangia Peter non sarà molto meglio. Non sono i pacchi a pesare - sì, ho portato un bel po' di roba, non è questo il punto - ma non riesco a camminare spedito come dovrei. Non sono tranquillo. E non voglio che Peter se ne accorga, e non voglio che mi legga la mente come le altre volte.
Non voglio che succeda di nuovo. Non voglio perdere il controllo, perché stavolta le conseguenze ci ucciderebbero. Abbiamo vissuto fianco a fianco per ventisei anni, non c'era motivo perché qualcosa cambiasse ora. E se è successo quello che è successo non è stata colpa di nessuno dei due, ma dell'amnesia e di qualcosa - affetto reciproco? - che abbiamo frainteso in mancanza di punti di riferimento.
Andrà tutto bene.
Appoggio un paio di pacchi a terra, liberando una mano per - uhm - suonare il campanello. Non so e non voglio sapere quanti decenni abbia questo posto. Spero solo che abbia un servizio igienico decente.
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E, sì, in teoria sono qui apposta per provare a limitarmi, imparare a controllarmi, ma in pratica poi Nathan arriva ed è un discorso a parte. Con Nathan è sempre un discorso a parte.
"Ehi! Nathan."
Sono nervoso, sì. Dio, anche il mio sorriso è dannatamente nervoso. E' che - non so esattamente cosa dire e come salutarlo.
Non potrei toccarlo (il che risolve alcuni problemi per, tipo, due minuti), perchè ha una sorta di intero supermercato addosso, e penso ci sia più cibo in quelle buste di quanto io possa mangiare in due mesi. Prendo due pacchi e una busta, e chiudo la porta alle sue spalle. Poso tutto sul tavolo (unico mobile della stanza, insieme a due sedie. Non è che ho molta voglia e possibilità di arredare, qui. Anche se di tempo ne avrei fin troppo.) e lo guardo.
Gli sono cresciuti un po' i capelli, ma davvero non c'è speranza di rivederlo con la barba, e dovrei saperlo. Io credo di non aver usato un rasoio da almeno una settimana (me lo farà notare, sono sicuro. Lo fa sempre, quando non mi raso per più di tre giorni.)
Ma è lo stesso.
E questo non mi calma quanto o come vorrei.
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(Detto per inciso, non ho mai fatto la spesa in un supermercato. Ma ho accompagnato Peter, una volta, quando si è trasferito nel suo appartamento.)
"Credevo di avertelo mandato, un rasoio."
Peter sposta il peso da un piede all'altro, incerto. Lo fa sempre quando è nervoso. Io penso che impazzirei se fossi così trasparente - se tutti mi potessero leggere dentro come io leggo dentro di lui. Impazzirei dopo due giorni.
Quando si avvicina, esita per un attimo e per un attimo mi chiedo se mi abbraccerà. Ma Peter si limita a prendere un paio di buste e si allontana senza sfiorarmi. Non so se sia delusione o sollievo, so solo che è una sensazione che non mi piace.
"Le lasagne te le manda Mamma. Scherzavo. Non ci sono lasagne. È tutta roba confezionata, e comunque Mamma non sa neanche come si accenda il forno."
Il mio senso dell'umorismo è decisamente a terra.
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Non che io mi lamenti, di quello che mangio non me ne frega niente. Mi ricordo volte in cui Mamma non mangiava, al ristorante, perchè 'la marca di caviale non era giusta'. (Credo fosse più che altro per fare scena con gli invitati, ma ancora ho in mente la scena se penso alla relazione della mia famiglia con il cibo.)
Un Nathan che scherza male è un Nathan a disagio. Di sarcasmo e ironia a volte ne ha anche troppo - è stressante, quando cominci a non capire quando fa sul serio. Se non fosse per il mio buonsenso (e Nathan riderebbe se dicessi 'io' e 'buonsenso' nella stessa frase: come ho già detto, è stressante), sarei davvero saltato dal Ponte di Brooklyn sei mesi fa. (Il che a pensarci dice molto sulle conseguenze di quello che mi dice Nathan. Okay, meglio non pensarci.)
Come ci si comporta con un Nathan a disagio?
Non è che me ne intenda molto - nelle volte in cui è stato così in mia presenza, in genere io ero molto, molto, molto più a disagio di lui. Diciamo che ho rimosso i traumi, ecco. Quindi. Nathan a disagio. Cosa quasi nuova. Non so come comportarmi.
Mi tiro indietro una ciocca di capelli e faccio un gesto generale in direzione delle varie stanze.
"Vuoi dare un'occhiata in giro?"
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"Prima di andare via ricordami di costringerti a fare una lista di quello che ti serve. Se ti lascio fare, a Mamma prenderà un infarto quando tornerai a casa."
La verità è che nessuno dei due sa quando finirà questa storia del bunker. Continuiamo a darci scadenze (Allora il mese prossimo. Forse tra due mesi. Comunque sicuramente prima di tre.), ma non abbiamo la minima idea di quanto tempo ci vorrà perché i poteri di Peter tornino completamente sotto controllo.
Continuiamo a far finta che sia tutto a posto, e invece non c'è una singola fottuta cosa che funzioni in questa storia. Peter non dovrebbe stare qui, e io non dovrei essere qui a visitarlo come un parente in carcere. Peter dovrebbe stare a casa, con la sua famiglia. Con la gente che può prendersi cura di lui. Con la gente che lo ama.
Mi chiedo quanta parte del mio nervosismo sia dovuta al fatto che non riesco più a dormire.
"Certo." Sorrido, ma francamente ho paura di scoprire in che condizioni l'ho costretto a vivere nell'ultimo mese.
Peter non dovrebbe mai essere costretto a vivere da solo.
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Apro la prima porta, "Bagno. Non fare quella faccia, è stato ristrutturato."
E non c'è una vasca da bagno, ma c'è una doccia ed è pulito (per la maggior parte), quindi davvero, va bene. Ci posso vivere. I bagni in prigione sono infinitamente peggio. (E non dovrei essere capace di fare un confronto, ma capita di essere arrestati, no? Una o due volte. Capita.)
Passiamo oltre, e c'è la mia camera, di cui apro appena la porta perchè, okay, questa non è una stanza molto pulita. Ma ci sono solo lenzuola un po' in disordine e vestiti e fogli e libri per terra, non è proprio disordinata. Uh, non disordinatissima.
"Computer, telefono."
Li indico, lì sul ripiano a sinistra del letto, come se Nathan non sapesse riconoscere un computer e un telefono, e mi sento un po' un cretino - un po' tanto.
Nella terza stanza ci sono le scorte, scaffali pieni di cibi in scatola, liofilizzati o imbottiti di conservanti, e nell'angolo a destra un lavandino e un fornello. Cerco di smettere di dire il nome di tutte le cose, come un bambino di tre anni che ha appena scoperto tante parole. Ma non so davvero come coprire il silenzio e l'imbarazzo.
In fondo al corridoio c'è la Stanza degli Allenamenti, o come cavolo dovrei chiamarla.
"Qui è dove cerco di non esplodere. Lì ci sono pesi. E, uh, cose. E...basta, è tutto qui."
Non so dove mettere le mani, perchè non ho tasche. Il problema sarebbe risolto, se potessi appoggiarne una alla spalla di Nathan - ma già se faccio un passo avanti lo vedo irrigidirsi, e non voglio vederlo tirarsi indietro. Sarebbe troppo.
Continuo a spostarmi la stessa ciocca capelli dietro le orecchie, e Dio, odio questa situazione.
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Quello che non riesco a immaginare è Peter che lava per terra o fa il bucato. Quando abitava nel suo appartamento gli mandavo una donna delle pulizie nelle ore in cui era fuori casa (e credo lo sapesse, anche se non ne abbiamo mai parlato), ma nessuna donna delle pulizie verrebbe a pulire un posto del genere. Senza contare che siamo già in troppi a sapere di questa storia.
Mi chiedo se tra un mese o due i giornali tireranno fuori la storia del fratellino disturbato (quella è stata in assoluto la peggiore idea della mia vita) e diranno che è tempo di far prendere aria agli scheletri nell'armadio del Senatore Petrelli.
Non so se mi risolleverei da uno scandalo del genere. Non so se riuscirei a guardare di nuovo Peter in faccia.
Avanzo nella stanza in cui Peter cerca di non esplodere. È più grande delle altre, una specie di immenso stanzone vuoto con della roba accatastata a una parete, pesi, cuscini, spranghe di ferro piegate o spezzate (ora ricordo quando Peter mi ha chiesto di mandargliele) e altra spazzatura che non guardo per più di un secondo. Le pareti sono bruciate su tutti e quattro i lati, chiazze nere larghe come macchie d'umido sui muri bianco-grigiastri della stanza.
"Sei mai... voglio dire, ti è successo di nuovo? L'esplosione?" domando senza voltarmi, ma piuttosto sento riecheggiare sulle pareti quello che sto davvero pensando:
Non posso lasciarlo a marcire in questo posto.
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Distolgo lo sguardo, rispondendo, anche se so che non mi sta guardando.
Uno magari pensa che, se non rischia di uccidere centinaia di persone, allora può esplodere tranquillamente. Che non avrà paura, che non farà male.
E invece non è così, non è stato così. E non mi va di ripensarci, perchè volevo così tanto che Nathan fosse lì, allora, come la prima volta.
Però vedendoci ora, noi due, penso che davvero, è meglio che non fosse qui allora. E non solo per le ovvie ragioni, ma perchè non so se mi avrebbe tenuto stretto questa volta, se avrebbe avuto il coraggio, e se io avrei potuto dire ti amo senza problemi, senza pensare a implicazioni o complicazioni e tutto il resto.
Ed è meglio non saperlo. Se la risposta è no, io non voglio saperlo.
Non voglio pensare di aver rovinato tutto fino a questo punto ma forse l'ho fatto.
E allora, allora non lo so che succede.
Che facciamo, ora. Non lo so.
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Mi dispiace di aver lasciato che accadesse e mi dispiace di non essere stato qui. E scusami perché ti sei risvegliato e non c'era nessuno a procurati un paio di pantaloni interi e un bicchiere d'acqua e riscaldarti la cena. Mi dispiace perché è stato un fottuto deserto, ancora una volta, dentro e fuori, e io avrei dovuto esserci e chissà dov'ero in quel momento.
Mi dispiace perché quella volta, senza sapere chi eravamo, eravamo molto più vicini e noi stessi di adesso che non riusciamo neanche a guardarci negli occhi.
Non so come farglielo capire, e so che nel dubbio non ci proverò nemmeno.
"Avresti dovuto dirmelo. Chiamarmi. Sarei venuto." Sarei venuto davvero. Sai che l'avrei fatto.
"Non c'è niente di cui vergognarsi, Pete. Guardami." Faccio un passo verso di lui. Non abbastanza per colmare tutta la distanza, ma c'è meno freddo così. "Non abbiamo niente di cui vergognarci, okay? Niente."
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Abbasso gli occhi come quando a sette anni rovistavo tra le sue cose - ero geloso di questo college che gli rubava tanto tempo e lo faceva stare via troppo a lungo - e ho rovesciato per sbaglio inchiostro sulla sua scrivania, macchiando quaderni e agende e tutto.
Ed è la stessa cosa, ora, perchè ho macchiato qualcosa, ho messo le mani dove non dovevo ed è successo un casino, sapevo che sarebbe successo e l'ho fatto succedere.
E non riesco a vergognarmene (e forse di questo dovrei vergognarmi), è peggio, è molto peggio. E' senso di colpa e coscienza - perchè lo sapevo, e lo so, che l'inchiostro non va via. Non va mai via.
Apro la bocca ma non so cosa sto per dire, cerco di guardare Nathan ma è difficile. E se sapesse, Dio. Lui se ne vergognerebbe. Lui ha pudore. Dignità. Regole. Morale.
Credo di avere avuto anch'io queste cose, a un certo punto della mia vita, ma ne ho perse troppe per strada. Non so esattamente com'è successo. Alcune mi rimangono, ma non nello stesso modo di Nathan o del me di una volta. Le cose si fanno sfocate, quando muori. E ultimamente sono morto più di una volta.
Il problema è che quando cerchi di rimetterle a fuoco, ormai le cose sono confuse insieme ed è difficile non essere confusi anche nella testa, allora.
Però se chiudo gli occhi e smetto di guardare Nathan, allora è più facile deglutire e rispondere "Okay. A-avrei dovuto, hai ragione.", facendo finta che le cose siano un po' meno complicate.
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Ma il punto, adesso, è che conosco questo tono, e non mi piace che Peter sia condiscendente con me, perché io ho bisogno che capisca, non che mi dia ragione sperando di tenermi buono. Ho bisogno che senta quello che sento io, anche se non so bene cos'è.
Ho bisogno che sappia che non è vergogna, la mia - o meglio lo è, ma non è dovuta alla ragione che pensa lui, e non è diretta a lui. Mai a lui.
Ho bisogno che sappia che se è vergogna, è vergogna di me stesso.
Ma non so come dirglielo.
"Allora. Non mi mostri niente? Qualche trucchetto nuovo?"
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Vorrei dire fanculo i trucchetti, gli allenamenti. Fanculo tutto. Dimmi solo come fare funzionare le cose, Nathan. Tu sei quello che fa funzionare le cose. Fa funzionare anche questo. Cosa facciamo ora?
Non so quale sia la risposta. Forse la risposta per lui è non vederci mai più e basta, e Dio, forse sarebbe meglio di questo, di vedersi così e - e no, no, non è vero. Forse una risposta non c'è e basta, e non funzionerà più.
Ma posso fare finta che non sia vero, e far volare qualche cosa per la stanza, per un po'.
"Non molto," rispondo, alzando una mano in direzione del mucchio di spranghe. Devo guardarle, concentrarmi e aiutarmi con dei gesti (piuttosto scenografici, bisogna ammetterlo) per farne sollevare una, e annodarle su sè stessa a mezz'aria - fare qualcosa mi conforta, in questo momento. E' facile, porta la mia mente a non pensare, ad agire come un muscolo che piega fisicamente il metallo. E' facile. Questo, questo posso farlo funzionare.
Con un gesto faccio arrivare qui le sbarra, e una volta tra le mie mani, la piego nel verso contrario per farla tornare più o meno dritta. Più o meno, ancora devo fare progressi, e la superforza non è per niente facile da gestire, comunque.
E sì, ho un po' di fiatone, quando metto il metallo non-proprio-come-nuovo nelle mani di Nathan.
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"... stupefacente."
Alzò lo sguardo. Peter ha il fiato corto, le guance leggermente rosse per lo sforzo. Mi ricordo improvvisamente che usare un potere per volta è già stancante - non posso negare di aver fatto un po' di pratica - ma posso solo immaginare cosa significhi controllarne due o tre contemporaneamente.
"Peter? Tutto bene?"
Sollevo una mano per posargliela sulla spalla. È un gesto talmente istintivo e abituale che me ne rendo conto quando la mia mano è già lì, a qualche centimetro dalla sua maglietta.
Lo sguardo di Peter, nel mezzo secondo che gli occorre per valutare la situazione, brucia più delle ustioni che hanno richiesto un mese e tre interventi di chirurgia per guarire, e anche così hanno lasciato il segno. I segni.
Gli stringo la spalla nella mano, brevemente.
"È presto per il pranzo, ma visto che sei andato avanti a liofilizzati e carne in scatola per un mese, forse vuoi dare un'occhiata...?"
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A volte mi sembra di aver avuto le mani di Nathan sulle spalle per tutta la vita. Ad ancorarmi giù, a supportarmi, e tante volte mi è sembrato che non ci fosse nulla di solido a questo mondo eccetto quelle mani.
Un mese fa, per esempio.
M'inumidisco le labbra, perchè i ricordi di un mese fa le inaridiscono, le bruciano, e quei ricordi sembrano più veri, ora. Nathan sembra più vero, ora che mi sta toccando.
E dio, se io non riesco a non togliermi dalla testa quei ricordi, a causa di una sola dannatissima stretta sulla spalla, allora davvero non so come sopporterò tutto questo. Non lo so.
"Sì," rispondo, a bassa voce. Come se parlando troppo forte potessi rovinare anche questo. Continuo a fissare la sua mano, quando mi lascia la spalla, "okay."
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Anche se i giorni dell'amnesia si sono mischiati in una sola reminiscenza comune, confusa e nebulosa come il ricordo di un sogno, io so di aver già vissuto tutto questo - l'imbarazzo e la distanza e il non volerlo toccare per paura che tutto esploda di nuovo - metaforicamente stavolta, ma è un po' lo stesso. So anche che già una volta il rimedio è stato peggiore del male, anche se ormai il danno era fatto, e fatto per sempre.
Ricordo la disperazione che ne è seguita perché semplicemente non posso dimenticarla. Potrei dimenticare la mia, col tempo, ma non quella di Peter.
Perciò l'errore passato dovrebbe avermi insegnato qualcosa; se non altro, a non lasciare che Peter rimugini troppo a lungo sulle cose, perché quando Peter è lasciato in condizione di rimuginare può solo fare qualcosa di incredibilmente stupido o arrivare alla disperazione. O entrambe. E un Peter disperato è impossibile da fermare, se non con qualcosa di altrettanto disperato - e questa volta non posso permetterlo.
Ma la verità è che ultimamente non c'è una parte di me che risponda come vorrei, e anche se non prendere nessuna scelta equivale a prenderne una in ogni caso, per il momento aspetterò che rifluisca la marea.
È la prima volta in tutta la mia vita che non mi fido di me stesso.
"Avrei voluto portare un tacchino ripieno, ma si sarebbe raffreddato e non volevo che lo facessi esplodere cercando di riscaldarlo."
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"Peccato. Avrei potuto recuperare il Giorno del Ringraziamento. E' stato triste festeggiarlo solo con carne in scatola."
Torno in quello che sarebbe il salone, ma è troppo vuoto per essere considerato tale, e rovisto tra buste e pacchetti finchè non ne trovo una piena di pasta. Certo che Nathan me ne ha portato dieci tipi diversi. E si è dimenticato anche questa volta che preferisco le penne lisce. Perchè si dovrebbero mangiare solo col sugo di pesce? A me piacciono comunque. E la gente dovrebbe smettere di fare facce disgustate quando glielo dico, davvero.
Prendo un pacco di spaghetti e entro nella stanza delle scorte, senza controllare che Nathan mi segua perchè dove può perdersi in centoventi metri quadrati? C'è un'unica pentola sotto il lavello, e metto su la pasta.
Afferro una scatola di pomodori lì vicino, mi giro e la sventolo sotto il naso di Nathan. "C'è solo sugo in scatola. Sopporta."
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