Premessa.
Racconto scritto per il compleanno della pornononna ValyChan, non è nulla di che, o qualcosa di sbalorditivo, però ci ho messo d'impegno, ecco! E sebbene ci manchi quasi un mese al giorno fatidico, ho deciso di cominciarla adesso. Questa storia si svolgerà in tre o quattro capitoli e si concluderà il giorno X, con tanti auguri alla nonnina.
So quanto le piace la coppia, ecchecavolo piace anche a me °A°
E perciò ho deciso di scrivere su Hwoarang e Xiaoyu. Non me ne intendo molto di Tekken, ci ho giocato pochissimo al 5, però pressapoco questa fict si ambienta all'inizio del Quinto Volume. Hwoarang era stato preso dall'esercito coreano, ma riuscì a fuggire per partecipare al torneo. La mia storia comincia da qui.
Buona lettura <3
titolo banale, perdonatemi non sono capace di dare nome alle mie storie
1. La tigre in gabbia
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Nel silenzio della notte, nel campo di addestramento militare di Seoul, ancora addormentato, riecheggiava un unico rumore, un inquietante stridio che avrebbe sicuramente messo i brividi a chiunque fosse stato sveglio, casualmente oppure destato da quel suono fastidioso.
Come una sadica insegnante che per schernire i propri alunni graffiava le unghie sulla lavagna, una figura abbastanza massiccia dai capelli rossi che erano ben visibili anche nell'oscurità, accucciata davanti al muro della sua camerata sfregava violentemente un sassolino contro la parete scalfendola per disegnare una lunga linea, seguito di molte altre.
Era il personal modo di quel giovane per tenere conto dei giorni che passavano. Se non lo avesse fatto probabilmente avrebbe perso la cognizione del tempo, tanto le giornate passavano troppo lentamente e con una logorante monotonia; gli sembrava di vivere all'infinito lo stesso giorno.
Appena concluso quel minuzioso lavoro si mise a contare pazientemente le tacche sul muro, riunite a gruppi di cinque. Erano esattamente passati 67 giorni dalla sua reclusione in quella prigione mascherata da accademia, anche troppi per uno come lui.
Quando lo avevano prelevato con forza dal Torneo del Pugno d'Acciaio gli avevano detto che avrebbe fatto parte del servizio di leva volontaria dell'esercito. Ma quale volontario? Quale libertà di scelta?
Hwoarang era stato preso a forza, coi fucili puntati contro, ed era stato gettato in quella fogna per servire una patria che a lui non aveva mai dato nulla senza nemmeno replicare, pena il calcio della pistola contro la fronte.
Quel posto lo distruggeva lentamente, corrodendolo fin dentro l'anima, fin nel suo fragile equilibrio mentale facendolo impazzire, come lente gocce d'acqua che scavavano la pietra dura con il loro incessante picchiettare in un preciso e meccanico susseguirsi.
Non gliene fregava nulla della guerra, i politici volevano azzannarsi tra di loro? Accomodatevi ma lasciatemi fuori, diceva a se stesso.
E tantomeno gliene fregava del futuro della Corea del Sud, paese che gli aveva preso tanto e non gli aveva mai dato nulla in cambio.
La sua patria era la strada. La sua ragione di vita era battere Kazama. Il suo scopo vincere il Torneo. Poi la Corea poteva beatamente andare a farsi fottere insieme al suo amor di patria.
Non sapeva perchè si trovasse lì.
Le sue abilità nel combattimento erano forse utili a qualche generale?
Il governo aveva così tanta paura di Hwoarang come criminale da volerselo levare di torno e al contempo renderlo utile al paese?
D'altronde se fosse morto in guerra si sarebbero levati un peso di torno?
Ma non aveva alcuna certezza, né sapeva il vero motivo. Poteva solamente supporre vane ipotesi, tanto nessuno gliele avrebbe confermate.
Stare chiuso dentro quattro mura ammuffite, ubbidire ogni giorno a ordini crudeli, compiere estenuanti addestramenti, era tutto il contrario di quello che faceva nel suo ordinario stile di vita, e ciò gli dava sui nervi.
Era una tigre che amava la libertà e, padrona del luogo, faceva quello che le aggradava finchè i cani dell'esercito non decisero di mettergli il guinzaglio e la museruola e lo avevano chiuso in una gabbia.
Ma si sarebbe liberato presto.
Anche se, se ucciderlo era il loro obbiettivo, ci stavano riuscendo benissimo.
“Ehi, Hwoarang!” il suo compagno di branda lo chiamò dal buio della loro lettiga, ancora sveglio o destato dal rumore dei sassi che il rosso, per svago, lanciava contro il muro. “Come mai sei ancora sveglio? Alle cinque c'è l'addestramento notturno”. Chon'tae Ku. Un ragazzino di campagna che si era arruolato di sua spontanea volontà e che dava sui nervi a Hwoarang. Per lui tutto era un gioco, e gli piaceva starsene chiuso in quel buco col solo scopo di ubbidire fedelmente ai superiori.
“Lo so, Ku. Lo facciamo tutte le maledette mattine, alla stessa identica ora!” lo aggredì mostrando i denti come un animale inferocito, gesticolando in maniera aggressiva. Chon'tae si raggomitolò su sé stesso impaurito, l'ex campione di taekwondo, quando era di malumore, non andava mai infastidito o contraddetto.
Il comportamento irrequieto e aggressivo di Hwoarang, abituato ad essere lui a comandare, e non ad eseguire gli ordini, gli comportava sempre richiami disciplinari -senza dargli la soddisfazione di venire cacciato dal campo-, e ore o intere giornate chiuso in una buia cantina, o cella di detenzione, come la chiamavano le reclute, simbolo e manifestazione dell'idea che il rosso si era fatto di quel campo: un autentica prigione.
Sospirò pesantemente, stringendo i pugni e i denti cercando di reprimere la rabbia. “Io me ne andrò di qui” sibilò in una frase che sembrava colma, più che di speranza, di certezza.
“Lo spero per te, amico” si limitò a commentare Chon'tae poco convinto, irritando ancor di più Hwoarang.
“E lo farò ora”
Centro di Seoul, poche ore dopo.
Massaggiandosi la mano dolorante ed ignorando il dolore lanciante ad un fianco Hwoarang camminava lentamente per le vie della metropoli coreana, destreggiandosi per i vicoli bui abitati da poveri vagabondi e senzatetto come se conoscesse quelle strade a memoria.
Era riuscito a scappare da quel posto, quasi per miracolo osava dire.
Durante l'addestramento delle cinque era sfuggito al controllo del generale per un attimo, rompendo le righe e correndo con tutto il fiato che poteva verso la sua unica via di fuga: un muro con del filo spinato.
Gli sparanono contro, ma ringraziando i suoi riflessi quasi felini riuscì a schivarli quasi tutti. Ecco il motivo della ferita tra le costole.
Con un balzo riuscì a scavalcare il muro di cinta, tutte i muscoli tirati al massimo che gli chiedevano pietà, ma per non cadere dal verso sbagliato dovette aggrapparsi al filo, tagliandosi la mano, in maniera superficiale per fortuna. Atterrò dall'altra parte, l'uscita, la libertà, e correndo come un forsennato per evitare di rifarsi catturare e le pallottole mirate alle sue gambe -gambe preziose per il taekwondo, gambe che lo avevano sempre portato alla vittoria, gambe che lo avevano salvato anche in quel momento- corse a perdifiato, follemente, verso il centro di Seoul.
Aveva detto addio a generali urlanti, aveva detto addio al freddo, al fango, alle umiliazioni, a quei pazzoidi che gli avevano tagliato i suoi lunghi capelli rossi.
E aveva mostrato a quei soldati un baldanzoso dito medio alzato in segno di vittoria.
E ora si trovava lì, tra la spazzatura e i delinquenti, in quella che un tempo chiamava casa, e cercava impazientemente il suo vecchio covo. Dov'erano i suoi uomini. Già, loro, perchè non erano ad attenderlo?
Quando si trovò davanti al luogo in cui -teoricamente- avrebbe dovuto trovarsi la sua magione -non degno di un re, certo, ma per uno come lui bastava e avanzava quel buco-, trovò nient'altro che macerie. Provò a chiedere in giro, ma fu inutile.
“Tutti quelli che si trovavano qui, quei maledetti banditi, sono stati arrestati e giustiziati un mese fa!” gli disse una candida vecchietta che si trovava lì, e che lo aveva visto smarrito. Una vecchietta cordiale e carina, dai lineamenti cinesi, del tutto fuori posto in quel luogo malfamato. “Non è una bella notizia, giovanotto?”
Hwoarang imprecò. Ora dove sarebbe andato? Che ne sarebbe stato di lui. Sanguinava molto, e non poteva di certo andare all'ospedale, lì era uno dei tanti posti dove l'esercito lo attendeva con un radioso sorriso e le manette pronte.
Dannazione! Pensava. Prendere in ostaggio la vecchia era fuori discussione, ma fu proprio questa a porgergli una mano per cercare di aiutarlo, commossa dalla sua disperazione, dalle sue ferite, e dal suo stato di inquietudine, come se si fosse smarrito.
“Sembri stanco. Perchè non ti riposi a casa mia? Finchè non ti rimetti in sesto sarai mio ospite!” sorrise la piccola anziana cinesina cordialmente, lasciando il rosso sbalordito. Ma come? Lo accettava in casa, lui? Un perfetto sconosciuto, ex capobanda e ora fuggitivo? Eppure quella era la sua unica possibilità di salvezza, e rischiare tutto per diffidare di un innocua signora non era calcolabile. O lei, o ritornava al campo.
Non sapeva che però quel fortuito incontro con la gentile cinese avrebbe scombussolato la sua vita