[Sherlock Holmes] My life would suck without you

Feb 02, 2011 19:09

Titolo: My life would suck without you
Fandom: Film> Sherlock Holmes
Personaggi: Sherlock Holmes e John Watson
Parte: One shot
Rating: NC-17
Conteggio parole: 7.238
Warnings: Slash, Introspettivo, Romantico, Erotico, Song-fic
Note: in realtà non ho granché da dire, a parte ringraziare il mio pendolo minnow90 per per la disponibilità e pazienza dimostratami nell’aiutarmi a postare qui sopra (per me che sono impedita è stato uno sclero)…
La canzone è questa
Il prompt è Salotto per la tabella: environment's table di holmes_ita
Il resto della mia tabella la trovate qui.

MY LIFE WOULD SUCK WITHOUT YOU

Nessuna luce riusciva a filtrare dalla finestra della stanza, per mia grande fortuna, di modo che non potesse arrecare danno ai miei occhi poco usi alla luce del sole.
Io ero sdraiato sul pavimento, solo la pelle di tigre mi evitava il diretto contatto con esso.
Il freddo di dicembre mi causava brividi di freddo lungo le braccia, scoperte dalla camicia tirata su fino ai gomiti. Tuttavia non feci nulla per coprirmi e rimasi lì, disteso e immobile, in uno stato di semi incoscienza per un tempo indefinitamente lungo.

Guess this means you’re sorry
You’re standing at my door

Non ricordo quando sentii per la prima volta dei colpi provenire dal portone di sotto; potevano essere appena iniziati, oppure potevano andare avanti da ore. Non me ne preoccupai più di tanto: ci avrebbe pensato la signora Hudson, quella nonnina, ad andare ad aprire, chiunque fosse.
Non aspettavo nessuno, e sentivo in qualche modo che chiunque si trovasse di sotto a bussare alla porta - o meglio, dovrei dire, cercare di sfondarla a pugni - non aveva niente a che fare in un possibile mio coinvolgimento in qualsivoglia caso.
Rimasi perciò sdraiato sulla mia comoda pelle di tigre, incurante dei colpi alla porta che si facevano sempre più pesanti, accompagnati da grida che non riuscivo bene a codificare. Il suono delle parole che uscivano dalla bocca di quell’energumeno - perché di questo si trattava, sarete certamente d’accordo con me - mi arrivava distorto, troppo lontano affinché le mie orecchie riuscissero a cogliere le onde che da quella sorgente partivano.

Non so cosa mi spinse ad alzarmi da per terra e andare a vedere chi fosse che continuava, imperterrito, a tentare di buttare giù la porta; forse il fastidio che quella cacofonia di rumori mi provocava, o forse la curiosità di sapere chi volesse, con così grande insistenza, entrare in casa mia. Mia e mia soltanto, ormai.
Fortunatamente riuscii a scacciare quel pensiero dalla mia testa appena in tempo, prima che potesse in qualche modo ferirmi - come potesse farlo, questo non lo capirò mai - e mi ricordai che Miss Hudson ieri sera mi aveva annunciato che oggi sarebbe andata a far visita alla sua cara nipote, e che pertanto sarebbe partita presto la mattina. Mi aveva anche chiesto se sarei riuscita a cavarmela senza di lei; non le avevo risposto, preso dai ricordi di un’altra persona che, a suo tempo, mi aveva fatto la stessa domanda. Ciò che avevo risposto alla suddetta persona, non me lo perdonerò mai; lo avevo ferito, e con la mia condotta, avevo ferito anche me stesso. Le conseguenze che portarono quella mia risposta avventata e certamente falsa restano uno dei momenti più imbarazzanti, violenti e tristi della mia vita; il grande Sherlock Holmes, l’unico essere umano sulla Terra a non esserlo veramente, l’unico essere umano che non provava emozioni, le aveva provate tutte e tre, contemporaneamente. Questo, ovviamente, mi aveva distrutto, in un modo tale che non pensavo possibile.

E ora, a distanza di sei mesi, sentivo nuovamente la sua voce.
“Apra, Holmes! Mi sente? Guardi che fra poco sfonderò la porta, sa che sono in grado di farlo!”

Il dottore, quello che per lungo tempo avevo pensato essere il mio dottore, era fuori la mia porta, pronunciava il mio nome, era qui per me.
Cercai di non far caso alla sensazione che sentire la sua voce mi causava, al sorriso felice, e non ironico, che mi si era dipinto sul viso non appena il mio nome, Sherlock, era uscito dalle sue labbra ed era giunto fino a me, questa volta senza nessuna distorsione di sorta.
Tuttavia, mentre mi apprestavo ad aprire, mi stampai il mio solito sorriso ironico che tutti conoscevano, e a cui tutti erano abituati.
Presi un respiro profondo e aprii la porta.

L’effetto che mi fece vederlo, dopo sei mesi lontani, è troppo complicato da descrivere; perciò per favore, scusatemi se dirò solo che fu emozionante, e allo stesso qual tempo triste, per me, vederlo. Potei constatare che godeva di ottima salute, era in forma, i muscoli delle spalle si intravvedevano appena sotto la sua giacca; i suoi occhi però tradivano una certa tristezza, che non ero in grado di spiegarmi, soprattutto dopo quello che mi aveva detto in passato.
Il ricordo del nostro folle litigio, scoppiato, appunto, sei mesi fa, mi investì con una forza tale da farmi indietreggiare.

Era una calda sera di agosto, e forse il troppo vino che avevamo stappato per festeggiare il suo imminente matrimonio ci aveva dato troppo alla testa; non che non fossimo lucidi, lo eravamo. Non so come altro spiegare però il fatto che quella sera, per la prima volta in tutta onestà, parlammo con franchezza tra noi.
Eravamo seduti ciascuno sulla propria poltrona, sorseggiando l’ultimo bicchiere di vino, chiacchierando amabilmente tra noi; io odiavo quelle chiacchiere, le consideravo inutili e prive di qualsiasi senso, tuttavia decisi di concedergli, per una sera soltanto, di parlarmi di frivolezze. D’altronde, era l’ultima sera che passava in quella casa; il giorno dopo si sarebbe sposato e sarebbe andato a vivere con la sua stupenda moglie a Cavendish Place. Perciò ci tenevo a festeggiare con lui la sua ultima serata da scapolo, nella nostra casa.
Non so quando, mentre lo ascoltavo parlare di qualche sciocchezza inerente al matrimonio, mi resi conto che non volevo che se ne andasse, che continuasse a vivere con me, che fossi, in un qualche strano modo, geloso di lui.
Ammetto che rimasi spiacevolmente sconvolto dai miei nuovi sentimenti, e in un certo qual senso, spaventato da essi.
Era normale che io, proprio io, provassi dei sentimenti verso qualcuno? E se proprio volevo provare qualcosa per qualcuno, perché proprio per John Watson, il mio coinquilino; o per meglio dire, ex coinquilino ormai? Era appena scoccata la mezzanotte, il contratto che lo legava a questa casa, e quindi a me, era stato reciso.
Come al solito, la sua totale incapacità di notare i piccoli particolari, gli impedì di fargli notare il repentino e quanto mai improvviso cambiamento del mio umore.
Poi, improvvisamente, il dottore mi rivolse una domanda che avrei preferito non sentire mai, soprattutto in quel momento di totale confusione nella mia mente di solito totalmente all’opposto.
“Se la caverà senza di me, Holmes?”
Non ci sono altre parole per descrivere ciò che sentivo in quel momento. I battiti del mio cuore che aumentavano di velocità e frequenza, le mani che andarono ad artigliare i braccioli della poltrona, il sangue che sembrava scorrere sempre più veloce nel mio corpo e che mi imporporava le guance, tutti questi elementi mi facevano giungere alla conclusione che mi stavo adirando. Anche da questa emozione rimasi sconvolto, ma era ormai sfuggita al mio controllo.
Mi vergogno immensamente ad ammettere che quella volta il logico raziocinio della mia mente fredda fu sottomesso dall’irruenza della mia rabbia.
Balzai in piedi, guardandolo fisso negli occhi, notando ogni suo, seppur minimo, particolare, ogni sua reazione al mio improvviso scatto iroso. Avrei potuto benissimo sedermi, controllarmi, ma semplicemente non volevo farlo, senza nessuna logica.
Ero spaventato, spaventato da me stesso, dalle mie reazioni, spaventato che lui potesse capire ciò che mi agitava l’anima.
“Crede di essere indispensabile, qui, Watson? Mi creda quando le dico che non lo è affatto! E ora, se non le dispiace, se ne vada nella sua stanza, e mi lasci in pace.”
Il respiro affannato che mi usciva dalle labbra non era affatto da me, né per di più ciò che avevo detto. Ma ero arrabbiato con lui.
Ero troppo cieco per capire il vero motivo per cui lo fossi.
Per tutta risposta, il dottore si alzò e mi guardò con uno sguardo strano che non gli avevo mai visto; sembrava quasi combattuto. Non mi stupii più di tanto che non riuscissi a decifrarlo meglio; negli ultimi minuti avevo dato larga prova del fatto di non essere particolarmente in me.
“Non mi sembra il caso di reagire in questa maniera, Holmes, attaccandomi come un cane rabbioso; invero, non capisco cosa possa averle fatto, quale danno io possa aver arrecato alla sua persona per costringerla a rivolgersi a me con un tono e con dei modi tanto sgarbati.”
“Ah, lei non lo capisce? Certo, questo è ovvio! Devo sempre spiegarle tutto io, vero?”
Già, ma cosa avrei dovuto spiegare, di grazia? Neanche io riuscivo a capire veramente quali fossero i motivi per cui ero irato con lui, né per quale motivo non volevo se ne andasse, né sposasse quell’insulsa donna che rispondeva al nome di Mary Morstan.
“La pregherei di smetterla di prendersi gioco di me, Holmes, e delle mie, a suo dire, scarse capacità intellettive. E ora, se non le dispiace, tolgo il disturbo, dato che mi sembra chiaro che lei non mi voglia qui.”
“No, non mi dispiace affatto!”
Sembravo un bambino capriccioso, e me ne vergogno come non mai; me ne vergognai allora e me ne vergogno adesso che sto raccontando a qualcuno, per la prima volta, come mi comportai in quell’occasione.
“Bene, allora sa che le dico?”
“Sono ansioso di saperlo!”
“Le dico che non solo me ne andrò adesso, ma che non vedrà più la mia persona in questa stanza, né in questa casa!”
Ora anche lui era adirato, e in un certo qual senso, fui rassicurato dal fatto che anche lui non riuscisse a trattenere la sua rabbia.
Stranamente, mi trovai a pensare che volevo che se ne andasse con la stessa intensità con cui invece volevo restasse. Ditemi voi se questo vi sembra un atteggiamento che un uomo razionale come me dovrebbe avere.
Tuttavia, in quel momento, c’era di tutto in me, tranne che la razionalità.
“Bene, se ne vada!”
“È quello che farò, non si preoccupi!” disse, uscendo dallo studio e dirigendosi a passo pesante verso la sua stanza. Io lo seguii, senza capirne la ragione, ma mi chiuse la porta in faccia. Dopo qualche minuto ne uscì, con in mano un borsone, dentro il quale presumevo esserci i suoi pochi vestiti che non aveva ancora portato a Cavendish Place.
Vederlo così, furente, con la valigia in mano, pronto ad andarsene, mi ferì; sentii un dolore all’altezza del petto che non riuscii a classificare né con un imminente infarto, né con qualsivoglia altra malattia cardiaca. Inoltre, sentivo gli occhi pungere, farsi umidi.
Prima che riuscissi a dire o fare altro, forse fermarlo, chiedergli scusa e riparare a questo tremendo litigio, forse urlargli ancora contro tutta la mia rabbia e frustrazione, lui era sceso al piano di sotto e si era infilato il cappotto. Si avviò alla porta, mise la mano sulla maniglia e poi si voltò a guardarmi; lo sguardo che mi rivolse era pieno di disprezzo e odio. Mai nessuno mi aveva guardato così, e mentirei se dicessi che non ne fui spaventato, né colpito.
“Sarà meglio per lei non presentarsi domani; la libero da questo impegno. Io, certamente, sarò capace di vivere senza di lei; anzi, sarà l’unica cosa di cui non avrò bisogno.”
Detto questo, si girò verso la porta, la aprì e la richiuse alle sue spalle con un tonfo sordo.
Non appena sparì dalla mia vista, sentii qualcosa di umido e bagnato scendermi lungo le guance; ci misi una mano sopra, raccogliendo sul mio dito una minuscola goccia d’acqua. La avvicinai ai miei occhi, per analizzarla, capire cosa fosse, poi la leccai; era salata. Quelle dovevano essere lacrime. Capii che stavo piangendo, per la prima volta in vita mia, stavo piangendo. Crollai sul pavimento, sconvolto dal litigio appena avvenuto, dai miei strani sentimenti, dalle mie lacrime, dimostrazione di questi sentimenti che mi agitavano l’anima.
E mentre la notte volgeva al suo termine, la razionalità sembrava farsi di nuovo strada dentro di me, occupando ogni anfratto, nascondendo sotto un velo la rabbia e la gelosia da cui prima ero stato accecato.
Essa mi permetteva ora di vedere le cose con chiarezza. Analizzando tutti gli indizi, analizzando me stesso come ero solito fare con i casi che mi sottoponevano, il risultato a cui giunsi fu che io, Sherlock Holmes, provavo un affetto profondo verso John Watson. E lo avevo appena perduto, per sempre.

Guess this means you take back
What you said before
Like how much you wanted
Anyone but me
Said you’d never come back
But here you are again

Lo guardai mentre entrava in casa, chiudendo la porta dietro di sé, questa volta senza sbatterla.
Non riuscivo a capacitarmi della sua presenza in questa casa, del motivo che lo avesse spinto, dopo sei mesi di separazione, a venire fino a qui. Aveva forse dimenticato qualcosa? Forse si era accorto solo adesso che non aveva il suo pallone, che ora si trovava ben nascosto sotto un’asse nel mio armadio, insieme a tutti i suoi oggetti che ero riuscito a raccogliere prima della sua partenza.
Nonostante ciò che provassi in quel momento fosse felicità - solo così riuscivo a chiamare il sentimento che provavo, che mi avrebbe fatto ridere, e non solo sorridere - mi diedi un contegno, e risultai freddo e distaccato come al solito, completamente diverso rispetto all’ultima volta in cui ci eravamo visti.
“Potrebbe anche evitare di cercare di sfondarmi la porta di casa, sa? Esistono modi più garbati per chiedere di entrare in una casa.”
“Lei non rispondeva, perciò mi stavo…”
Si interruppe, incapace di proseguire oltre. Il rossore che gli si intravvedeva appena sulle guance e sulle orecchie mi face pensare che fosse in imbarazzo; sorrisi, ironico, certo di avere un minimo vantaggio su di lui: io riuscivo a nascondere il mio imbarazzo.
Mi girai e mi incamminai verso il mio studio, curioso di sapere se mi avrebbe seguito anche fino lì. La mia curiosità fu sfamata dal suono dei suoi passi dietro ai miei. Un sorriso, questa volta senza nessuna traccia di ironia, ma solo perché lui non poteva vedermi, mi tinse il volto.
Entrai nello studio e mi sedetti sulla poltrona, invitandolo a fare altrettanto. Ma lui non si mosse da vicino alla porta.
“Allora, cosa la porta qui?” gli chiesi io, ansioso di sapere la risposta, ma senza dar segno alcuno di quanto mi premesse saperlo.
Il dottore, per altro, sembrava estremamente agitato. Si torceva le mani, se le passava poi tra i capelli, oppure pinzava il naso tra due dita, chiaro segno di imbarazzo. I suoi occhi inoltre tradivano una certa sofferenza, che mi colpì più di tutto. Anche se fuori sembrava stesse bene, era più che logico che dentro di sé stesse soffrendo. Era questa, una cosa che ci accomunava. Anche io soffrivo, soffrivo per la sua mancanza, per la sua lontananza. Aveva avuto ragione, non ero in grado di vivere senza di lui.
Per un attimo sperai che anche lui fosse triste per il mio stesso identico motivo, e so bene che sarei potuto suonare quanto meno presuntuoso a pensare ciò; tuttavia non posso negare che era quello che il mio cuore - sì, a quanto pare ne avevo uno anche io - desiderava più di ogni altra cosa.

Non so se qualche dio buono ascoltò la mia silenziosa preghiera, né capii il motivo per cui ero riuscito a ottenere cosa volevo; ma il fatto è che Watson, il mio dottore, lasciò cadere in terra il bastone, si avvicinò, zoppicando vistosamente, a me e mi si inginocchiò di fronte, non curante del dolore alla sua gamba ferita che, con molta probabilità, lo stava aggredendo in quel momento.
Se qualcuno fosse entrato in quell’istante nella stanza, di certo la nostra posizione avrebbe insospettito chiunque, lui inginocchiato davanti a me, le mie mani nelle sue.
Fortunatamente nessuno entrò, anche perché, a rigor di logica, nessuno avrebbe potuto farlo; la signorina Hudson sarebbe stata fuori tutto il giorno, come già detto, e la porta di casa era stata chiusa.
Il fatto che però nessuno potesse vederci, non mi impedì di arrossire vistosamente, non appena sentii il suo tocco sulle mie mani. Era tardi per impedire che lui lo notasse, ma davvero, sembrò non farci caso.
In quel momento, assurdo, lo so, pensai che il dottore non sarebbe stato in grado di notare nemmeno un grosso elefante seduto al centro esatto dello studio.
Mi venne spontaneo sorridere, sia per i miei pensieri davvero poco opportuni in un momento tanto importante, sia per la situazione in cui ci eravamo venuti a trovare.

Il dottore, balbettando come non mai, cominciò il suo monologo. Anzi, no, credo di aver usato il termine sbagliato; io lo stavo ascoltando, certo, ma ero catturato dai suoi occhi che brillavano, pieni di sofferenza, e dalle sue labbra che si muovevano veloci, facendo rotolare fuori dalla sua bocca parole su parole.
“Amico mio, la prego, mi perdoni. So di non essermi comportato affatto come si confà a un gentiluomo come me, durante il nostro ultimo incontro; non avrei dovuto alzare la voce, né tanto meno sbattere la porta in quel modo.”
Tipico di Watson, addossarsi ogni colpa e, in qualche modo, farmi passare dalla parte della ragione; odiavo questo suo auto commiserarsi. Ma dovrei anche ammettere che se non fosse stato per questo lato del suo carattere, ogni volta che la discussione ci sfuggiva di mano, non avremmo mai chiarito, perché io sarei stato troppo orgoglioso da fare le mie scuse per primo.

“Dottore, non si addossi tutta la colpa; sono io che ho iniziato a comportarmi in maniera tanto avventata, per non dire estremamente maleducata.” Guardai le nostre mani giunte, di nuovo profondamente imbarazzato, di nuovo sperando che fosse qui per tornare, per tornare a essere il mio Watson. Ma non volevo sperare, perché se così non fosse stato, avrei di nuovo sofferto.

Di nuovo, un qualche dio sembrò prendersi a cuore le mie sorti, regalandomi ciò che in cuor mio avevo sperato da tempo immemore; perché di certo, i miei sentimenti per Watson non risalivano solo a sei mesi fa, ma avevano radici ben più profonde nel tempo. Solo lo avevo capito nel momento in cui lo stavo perdendo. E, come mio solito, mi ero comportato nel peggiore dei modi possibili.
Comunque, non perdiamoci nei sensi di colpa che mi fanno somigliare tanto al mio buon amico - per Dio, sarebbe stato ancora giusto chiamarlo così all’epoca, quando sapevo bene che per me lui non era solo un amico? - e andiamo avanti col discorso che riguarda il dio buono che ha deciso di premiarmi, anche se non so cosa ho fatto per meritarmi tutto questo.
“Holmes, devo essere sincero con lei, anche se esserlo è per me fonte di estremo imbarazzo, e sicuramente potrebbe causare, da parte sua, una reazione violenta o quanto meno per nulla dissimile da quella avuta in precedenza.” Si interruppe e sospirò, cercando forse il coraggio per proseguire.
Dal canto mio, pendevo totalmente dalle sue labbra, quasi in uno scambio di ruoli; se era sempre stato lui a pendere dalle mie labbra, ogniqualvolta esponevo una mia teoria o una risoluzione di un caso, ora ero io a pendere dalle sue labbra, come se da esse dipendesse la mia vita.
“Sono stato un infido mentitore, un bugiardo bell’è buono. La rabbia mi ha portato a dire certe cose, ma vorrei che sapesse che mai, per tutto l’oro di Agra, avrei voluto andarmene da questa casa, abbandonare lei.”
“Ma lo ha fatto... lei se n’è andato.”
Queste parole sfuggirono dalle mie labbra, tremendamente veritiere, e ebbi come il sospetto che avessero colpito lui quanto avessero colpito me.
Il dottore abbassò la testa, senza però togliere le sue mani dalle mie, e di questo gliene fui infinitamente grato; in un certo qual senso mi davano sicurezza.
In quel momento credetti che fossimo giunti al punto di svolta. Proprio come sei mesi prima avevo desiderato con la stessa intensità che lui restasse, ma anche che se ne andasse, in quel momento desideravo che lui andasse avanti, ma nel contempo ero spaventato da ciò che le sue parole avrebbero potuto comportare nel nostro rapporto.

“Lo so. Ma la prego, mi creda quando le dico che non avrei mai voluto farlo. Il fatto è che ne sono stato costretto.”
“Costretto, e da cosa, mio caro amico?”
Gli avevo dato di nuovo l’appellativo di amico, anche se ormai era chiaro quanto non lo fosse. Mi sentii improvvisamente ipocrita, e desiderai poter dare voce ai miei pensieri, ma decisi di stare in silenzio, senza interrompere il suo discorso che, a quanto pare, aveva qualche problema a portare avanti. Aspettai che mi rispondesse, senza forzarlo altrimenti.

Tolse le sue mani dalle mie, arrossendo imbarazzato, nei suoi occhi leggevo la colpa.
“Che Dio me ne perdoni.” Disse alzandosi in piedi e allontanandosi da me. “Credo di aver peccato di sodomia, almeno nella mia testa.”
Il mio cuore perse qualche battito, forse troppi, perché mi sentii mancare. Possibile che lui provasse per me gli stessi sentimenti che provavo io? Rimasi in silenzio, completamente assuefatto dalle sue parole che sgorgavano come un fiume in piena dalla sua bocca.
“Non so da quanto tempo la mia mente malata abbia cominciato a crearmi strane idee, che raffigurano tutte lei. Non riesco a smettere di pensare alla sua bocca, ai suoi capelli, e, oddio i suoi occhi sono per me fonte di costante desiderio! Non riuscivo più a starle accanto, non immagina neanche quanto sia stato difficile per me starle vicino, né quanto io mi sia sentito in colpa per i miei vergognosi pensieri. Ma al contempo mi è anche stato difficile starle lontano, per non dire impossibile. E ora mi trovo qui, davanti a lei, implorando il suo perdono per il mio comportamento passato, per averle arrecato disturbo e per aver fatto pensieri volgari e che non si confanno a uomini per bene come noi.”

Maybe I was stupid for telling you goodbye
Maybe I was wrong for tryin’ to pick a fight
I know that I’ve got issues
But you’re pretty messed up too
Anyway, I found out I’m nothing without you

Non potevo credere alle mie orecchie. Se non fossi stato un uomo di scienza, avrei di certo pensato di essere sotto l’effetto di qualche strana sostanza che ero uso ingerire, o che probabilmente stavo sognando, ancora steso sulla pelle di tigre. Tuttavia avevo prove concrete che così non era, che ero sveglio, che Watson fosse davvero di fronte a me, estremamente agitato, e che avesse appena ammesso di provare qualcosa per me, qualcosa di una portata così grande da farlo addirittura peccare di sodomia, o almeno, di farlo peccare nella sua testa.
Perché di certo, non c’era mai stato tra noi, nessun contatto che potesse scavalcare i limiti della decenza e del rigore che compete a due gentiluomini.

Ciò nonostante, sono costretto ad ammettere che, dopo aver scoperto di provare io stesso dei sentimenti per lui, anche la mia mente ha divagato verso immagini poco caste e pudiche che coinvolgevano me e il dottore, o soltanto lui; immagini di cui mi sono vergognato assai, e che ho sempre cercato di scacciare dalla mia testa. Tuttavia tornavano ad attaccarmi, più forti di prima.

Era questo quindi? Era questo l’amore di cui parlavano tanti romanzi che andavano di moda oggigiorno, quell’amore che aveva preso il prode Tancredi e lo aveva portato a innamorarsi di uno suo mortale nemico, la guerriera Clorinda, quell’amore che aveva portato alla morte quei due poveri giovani di Romeo e Giulietta, quell’amore tanto decantato dai poeti inglesi, italiani, tedeschi, francesi?
Ero davvero innamorato del mio migliore, nonché unico, amico, il dottor John Hamish Watson?

In cuor mio, potevo negarlo? No, non potevo. Ma potevo anche asserire il contrario? Potevo dire di esserne innamorato?
Certamente mi pentivo di averlo maltrattato in quel modo, soprattutto col senno di poi, capendo che non dev’essere stato affatto facile per lui essere attaccato verbalmente in quella maniera brusca dalla persona che forse amava.
E lui? Lui poteva dire di amarmi?
Anche questa domanda rimaneva senza una risposta soddisfacente, benché mi sforzassi con tutto me stesso di carpire qualche informazione dai suoi piccoli gesti nevrotici e imbarazzati.

Il dottore era ancora fermo, in mezzo alla stanza, aspettando una mia battuta, un mio movimento, qualcosa che lo togliesse da quell’imbarazzante silenzio che si era venuto a creare tra noi dopo il suo interminabile e ininterrotto discorso.
Mi concentrai sui suoi occhi, bellissimi e spaventati, timorosi, speranzosi. Tante emozioni agitavano l’anima del mio amico, e se, come si dice, gli occhi sono lo specchio dell’anima, allora potevo facilmente intuire la natura delle sue elucubrazioni e delle sue sensazioni.
Da un’attenta analisi giunsi infine alla conclusione che il mio amico soffriva, e che ero io a causare la sua sofferenza, esattamente come lui era causa della mia.

Non so dire con esattezza cosa mi spinse a farmi avanti in quel modo, quella sera di ormai tanti anni fa. Forse il fatto che non sopportassi di ferirlo a quel modo, di nuovo, o forse perché capii, nel mio cuore, che era la cosa giusta da fare, che lui era davvero la persona giusta per me, l’unica persona che riuscisse a far uscire la mia natura umana, che sopportasse i miei metodi e il mio modo di vivere, che mi amasse per quello che ero, vizi compresi.
Fatto sta che mi alzai dalla poltrona, mi avvicinai a lui, che mi guardò, improvvisamente spaventato da una mia possibile reazione violenta, e, infine, lo abbracciai, stringendolo a me; in quell’abbraccio riversai ogni premura possibile, ogni parola che non avevo il coraggio di dire. Cercai di fargli capire quanto fosse importante per me, cercai di fargli capire che nulla doveva essere perdonato, se non il mio orribile e vergognoso comportamento, altro che i suoi pensieri poco casti.
Quanto durò l’abbraccio non posso dirlo, ammetto che non mi misi a contare il tempo passato, in piedi in mezzo al mio studio incredibilmente disordinato, abbracciato a lui, respirando il suo odore, con le mani immobili sulla sua schiena.
Lui ricambiava il mio abbraccio, mi stringeva a sé come se potessi voler scappare da un momento all’altro. Ma non avrei fatto lo stesso errore, questa volta non sarei scappato dai miei sentimenti, non sarei fuggito via da lui. Non avrei avuto la forza di sopravvivere, ormai era chiaro. Tuttavia, mi sembrò un bel gesto constatare ciò che in realtà era ovvio, così mi separai da lui - con una qual certa riluttanza, lo ammetto - lo guardai negli occhi e gli dissi:
“Senza di te, John, non sono niente.”

Being with you is so dysfunctional
I really shouldn’t miss you, but I can’t let you go

Vidi i suoi occhi brillare, emozionati, sconvolti dall’uso della seconda persona singolare che avevo appena usato, rivolgendomi a lui, e soprattutto dal fatto che lo avessi appena chiamato per nome, cosa che, in anni di convivenza come semplici coinquilini e amici, non era mai successa.
Una sua mano corse a posizionarsi sulla mia guancia. Una strana, improvvisa sensazione di bruciare, mi investì; non riuscivo a capire cosa fosse, anche se il punto dove più bruciava era dove la sua mano toccava la mia pelle.
Mi sorrise, timido e rassicurante, e per un attimo non capii il perché di quel gesto; ma poi lo vidi avvicinarsi lentamente a me, potevo sentire il suo respiro sulle mie labbra.
Capii cosa stava per succedere e anche il motivo del suo sorriso: voleva rassicurarmi, dirmi che sarebbe andato tutto bene, anche se mi sembrava di poter sentire il suo cuore battere veloce quanto il mio, agitato e frenetico.
Mi sarei dovuto tirare indietro. Non perché non volessi con tutto me stesso ciò che stava accadendo, ma avrei dovuto ricordare che ciò che stavamo per fare era proibito dalle leggi dello Stato, della Chiesa e della normale moralità. Se qualcuno ci avesse scoperti, saremmo di sicuro finiti ai lavori forzati, e non avrei sopportato una simile sofferenza, non per me stesso, ma per il mio dottore.
Nonostante tutto, sorrisi all’idea di poterlo finalmente chiamare mio, e questa volta, non era una semplice forma d’uso comune per indicare affetto, ma sapevo di possedere il suo cuore. Ero sicuro, ora, del suo amore nei miei confronti, glielo potevo leggere in quei suoi occhi dal colore indecifrabile.
Il mio sorriso lo spinse a proseguire il suo lento cammino verso le mie labbra, ma, non appena furono a un solo soffio l’une dalle altre, la sua avanzata si fermò.
“Sherlock…” sussurrò il mio nome. Un fremito mi corse lungo la schiena, il mio nome, pronunciato dalle sue labbra, mi regalò un piacere tanto potente, che mi fece sospirare e socchiudere gli occhi.
Il suo tono di voce, tuttavia, tradiva una certa preoccupazione, così riaprii gli occhi e lo guardai, in attesa che continuasse.
“Ho paura…”
Anche io ne avevo, e molta anche. Ma preferii non dirglielo, preferii che si aggrappasse a me come se fossi la sua scialuppa di salvataggio; decisi di rassicurarlo. E, senza nessuna ragione, percorsi quei pochi centimetri che ci separavano e posai le labbra sulle sue.
Fu un attimo, mi staccai subito.
“Non devi.”
Lo vidi arrossire, forse per il frettoloso bacio che c’era appena stato, forse per altri motivi su cui non mi preoccupai di indagare.
“Non sono preoccupato per me. Temo quello che possa accaderti se dovessero scoprirci.”
Stranamente, sentii il cuore farsi più grande, ed era come se dentro di me ardesse un fuoco che riusciva a scaldarmi; il mio John si preoccupava per me, anche se non avrebbe dovuto.
“Nessuno ci scoprirà, John.” Ripetei il suo nome, col chiaro tentativo di rasserenarlo. “La cosa che più preoccupa me, invece, è ciò che potrebbe accadere alla tua persona, e” abbassai la testa, vergognandomi come non mai per ciò che stavo dicendo, “il fatto di non essere in grado di darti tutto l’amore che meriti, di non essere in grado di amare.”
Le sue mani mi strinsero il mento e lo alzarono, portando di nuovo i miei occhi all’altezza dei suoi.
“Ti insegnerò io.”
Mi sorrise nuovamente, sembrava sereno. Le sue mani si posizionarono tra i miei capelli, mentre si avvicinava a me e mi stringeva, di nuovo. Lo strinsi a me, inspirando il profumo della sua colonia e infilando le dita tra le ciocche dei suoi capelli, che erano un po’ cresciuti dall’ultima volta che ci eravamo visti.
Tuttavia quel contatto cominciava a farsi sempre più misero, e mi accorsi con sgomento di volere di più, di volere di nuovo le sue labbra sulle mie. Non sapevo se sarebbe stato il caso di forzare i tempi, già mi sembrava, in quel momento - come non ero avvezzo a stare con lui in quella maniera, a quei tempi! - così anomalo il nostro modo di stare vicini. Non eravamo abituati a questo contatto fisico, io soprattutto, perciò non mi spiegai la causa del sangue che mi colorava le guance e cominciava a ribollirmi nelle vene, invadendo ogni zona periferica del mio corpo. Mi irrigidii, cercando di controllarmi.
Tuttavia, lui notò la mia rigidità, perché fece per muoversi, ma io, andando contro ogni buon senso, lo strinsi ancora di più a me, affondando il viso nel suo collo.
Capii troppo tardi di aver commesso un errore. La mia bocca, così vicina alla sua pelle, cominciò a lasciare piccoli baci lungo tutto il profilo del suo collo, sfuggendo al mio controllo. Ammetto che me ne spaventai. Il mio corpo si muoveva e reagiva senza che io gli dessi alcun ordine di farlo.
Nonostante la mia preoccupazione fosse forte, decisi di lasciarla perdere, per quel momento; l’odore e il sapore della sua pelle erano un eccitante naturale, pensai che, con essa, avrei potuto fare a meno dell’eroina e di qualsiasi altro tipo di droga che ero solito ingerire.
Continuai così il mio gioco sulla sua pelle, che diventava sempre più accaldata. Quando poi ci presi gusto, aggiungendo anche un tocco di lingua, lo sentii irrigidirsi di colpo, per poi sciogliersi in un mugolio eccitato che mai e poi mai avrei immaginato di avere l’onore di sentire uscire dalle sue labbra.
Inaspettatamente mi allontanò da sé, e aggredì la mia bocca con passione. La sua lingua, che cercava di forzare le mie labbra serrate, mi fece rabbrividire, anche se non riuscii a capire, e ammetto, non riesco a capirlo nemmeno ora, se per la paura o se per l’eccitazione che si stava sempre più velocemente impossessando di me.
Lo lasciai entrare. La sua lingua fece irruzione nella mia bocca, e si mise a giocare con la mia, prima lentamente, poi sempre più veloce, coinvolgendola in una danza frenetica.
Non avrei mai immaginato che solo un bacio potesse essere tanto coinvolgente ed eccitante, ma così fu, per me, il mio primo, vero bacio con John Watson.
Senza più alcuna ragione, anche se nello stesso momento mi sembrava di essere perfettamente lucido, lo trascinai sulla pelle di tigre con me, e mi misi cavalcioni su di lui. Le nostre bocche si separarono, in cerca d’aria, e ne approfittai per aggredire nuovamente il suo collo. La sua camicia mi impediva di raggiungere altra pelle, così gliela sbottonai, veloce; le mie dita sfilavano i bottoni dall’asola, mentre la mia bocca continuava a dedicarsi al suo collo. Le sue mani stringevano forte il colletto della mia camicia, e cominciavano a tentare di sbottonarla. Non appena l’ultimo suo bottone fu tolto, gli sfilai camicia e giacca insieme, e mi rituffai di nuovo sulla sua pelle.
Lui, nel frattempo, era riuscito a sfilarmi la camicia, e ora le sue mani correvano verso la cerniera dei miei pantaloni.
Preso nell’euforia del momento, non feci nulla per dissuaderlo dal fermarsi, non pensai che forse sarebbe stato meglio parlarne con calma anziché lasciarsi accecare dalla passione. Tuttavia c’è da dire che eravamo due uomini adulti, che per altro erano stati costretti a reprimere i propri sentimenti per lungo tempo; perciò posso tranquillamente asserire che in quell’occasione, la nostra condotta fu più che giustificabile, se non addirittura corretta, sempre che non si consideri l’atto di sodomia in sé e per sé. Ma ormai entrambi eravamo giunti alla conclusione, e mi permetto di parlare anche a nome del mio compagno, dicevo, eravamo giunti alla conclusione che non avremmo più permesso alle nostre paure di tenerci lontani, che avremmo vissuto il nostro amore, perché di questo si trattava.
Sì, in quel momento, nel preciso istante in cui le sue mani strinsero i miei fianchi, nel momento in cui abbandonai il suo petto e alzai lo sguardo fino a incrociare il suo, quasi sentendo che qualcosa stava cambiando, io capii di essere innamorato di lui. Lo ero sempre stato, fin dal momento in cui eravamo stati presentati la prima volta, nel laboratorio di chimica dell’ospedale. E capii che lo sarei stato per il resto dei miei giorni.

La conclusione della mia nuova scoperta interruppe ogni nostro movimento; lui sembrava aver capito che qualcosa doveva essere accaduto in me. Certamente pensò che avessi avuto un ripensamento e che volessi allontanarlo da me, perché cercò in ogni modo di spostarsi, ma il mio peso lo teneva inchiodato al pavimento.
Dal mio canto, io ero totalmente inebetito da ciò che la mia recente scoperta poteva portare nella mia vita. Avevo appena intuito che io sarei stato l’amante, che sarei stato io a crogiolarmi dalla gelosia di vedere l’uomo che amavo con un’altra donna. Fu come se mi fosse stato strappato via un’altra volta.
Rotolai su un fianco, finendo a diretto contatto col pavimento freddo questa volta; mi misi una mano sugli occhi, per nascondere ai suoi la sofferenza che certamente avrebbe scorto nei miei.
“Sherlock, che cos’hai?” mi chiese lui, premuroso ma anche preoccupato.
“Lei è un uomo sposato.”
Il ritorno all’uso del lei sembrò ferirlo; per un attimo un’ombra di dolore passò nei suoi occhi - sbirciavo le sue reazioni dalle fessure tra le mie dita - ma poi, stupendomi, scoppiò in una risata fragorosa. Lo guardai scioccato, non riuscendo a capacitarmi del suo comportamento quanto meno fuori luogo e inappropriato alla circostanza tragica in cui ci trovavamo.
“Stavi quasi per commettere un atto di sodomia e ti urta il fatto che io sia sposato?”
Non accettavo che qualcuno mi prendesse in giro, men che meno lui, un uomo tanto buono e caro, ma che davvero non era in grado di cogliere nessun indizio, neanche se fosse stato posizionato di proposito sotto i suoi occhi; e poi, ero pur sempre la mente più brillante di tutta la Gran Bretagna, nevvero?
Così mi limitai a guardarlo storto, facendo per alzarmi, mentre sentivo nuovamente inondarmi da rabbia e dolore. La sua mano, che era corsa a stringere la mia, mi impedì però di fare ciò che stavo per fare.
“Se ti può far star meglio, ero venuto qui da te stamattina per dirti anche che il mio matrimonio è stato annullato.”
Ne rimasi sorpreso, piacevolmente sorpreso, ovviamente. Sorrisi e mi misi seduto di fianco a lui, felice come non mai, stupendomi ogni istante di più di quanto John influisse sul mio carattere.
“E, se non risulto troppo permaloso e inopportuno da chiedere delucidazioni su un tale argomento, come mai il tuo matrimonio con la signorina Morstan è stato annullato?”
Inaspettatamente, arrossì, abbassando lo sguardo. Persino le sue orecchie divennero rosse come il fuoco che ora bruciava nel camino al fondo della stanza.
“Per svariate ragioni che potrebbero solo annoiarti.” Rispose, vergognandosi come un bambino. Sorrisi, profondamente divertito dal suo comportamento infantile, ma che classificavo anche come irrimediabilmente dolce.
Decisi di provocarlo un po’.
“C’è tempo, io non ho alcuna fretta.”

Non immaginavo che la mia frase potesse far sfociare questa nostra normale conversazione in qualcos’altro. Lo sguardo che mi lanciò, pieno di malizia, mi fece seccare la gola; si avvicinò a me, sussurrando con voce roca “Conosco un modo più interessante per passare il tempo”, e poi cominciò a baciarmi il collo, scendendo lungo il profilo dei miei pettorali e dei miei addominali. Mise una mano sulla mia schiena, costringendo a sdraiarmi sul pavimento freddo; tuttavia non provavo nessun freddo, anzi, mi sentii di nuovo andare a fuoco dove le sue labbra si posavano. Inarcai la schiena e soffocai un gemito quando iniziò a giocare con la lingua lungo il bordo dei miei pantaloni, per poi sfilarli completamente.
Con un colpo di reni invertii le posizioni, e, senza soffermarmi troppo oltre, gli sfilai i pantaloni, e gli tolsi anche le mutande che indossava. Era nudo sotto di me ora, come nelle mie migliori immaginazioni. Anzi no, era ancora meglio; ora potevo toccarlo, potevo sentirlo sciogliersi e fremere sotto il tocco delicato delle mie dita, che, gentili, percorrevano ogni centimetro del suo corpo. L’erezione che aveva in mezzo alle gambe avrebbe dovuto sconvolgermi, o spaventarmi, ma invece ne rimasi solo contento.
Lo volevo. Mai come in quel momento avevo desiderato così tanto averlo, sentirlo mio, sentirmi avvolgere dal calore del suo corpo. E i suoi occhi facevano trasparire chiaramente che anche lui aveva il mio stesso desiderio.
Senza più alcun indugio mi sfilai le mutande, e mi posizionai sopra di lui. I suoi occhi avevano abbandonato per un attimo i miei, ed erano corsi lungo tutto il mio corpo; ciò mi aveva causato brividi di piacere talmente forti che, per un attimo, ricordo di aver pensato che sarei venuto da un momento all’altro. Non so con quale forza riuscii a trattenermi, né con quale forza riuscii a essere così delicato.
Avvicinandomi di più a lui, lo baciai teneramente, mentre gli sollevavo una gamba e la posizionavo sulla mia spalla; compiute queste operazioni, lo guardai negli occhi, per avere il permesso di proseguire oltre. Permesso che giunse subito, accompagnato da un bacio lungo e passionale. Entrai in lui, sentendo subito i muscoli dei suoi glutei irrigidirsi, serrando la sua apertura già stretta. Dovevo farlo rilassare in qualche modo, così cominciai a massaggiargli i capelli dietro la nuca, mentre con l’altra mano scendevo a sfiorargli la sua intimità. La sua bocca non lasciò un attimo la mia, anche se lo sentivo gemere di dolore e stringere le mie spalle, infilando le sue unghie nella mia pelle.
Quando la mia mano circondò la sua erezione, la sua testa ricadde all’indietro, lasciando la mia bocca, e serrò gli occhi. Pensavo che avrebbe urlato, invece mi stupii del suo controllo e del suo decoroso contegno; non dovevo dimenticare che era pur sempre un soldato, un uomo che in vita sua aveva patito le più atroci sofferenze, anche per colpa mia.
Ricordandomi della sue ferita alla spalla che si era procurato durante il nostro scontro con Blackwood al molo, mi avvicinai al punto suddetto e ci appoggiai lievemente la bocca.
Questo sembrò rilassarlo, perché di colpo i muscoli delle sue natiche si rilasciarono, consentendomi di scivolare fino in fondo dentro di lui, mentre una sua mano lasciò la mia spalla e, posizionatala dietro la mia nuca, mi tirò a sé, coinvolgendomi in un bacio che di casto aveva ben poco, come d’altronde lo era tutto quel momento.
Preso da una passione incontrollabile, cominciai a spingere, gemendo nel suo orecchio; i gemiti che invece uscivano dalle sue labbra erano di dolore misto a piacere, e sapevo bene individuarli. Cercai pertanto di distrarlo dal dolore, continuando il mio massaggio sulla sua erezione pulsante.
Lasciò la mia bocca, senza però interrompere il contatto delle nostre labbra; con la lingua cominciò a leccarmi il labbro inferiore, causandomi altri brividi lungo la spina dorsale.
Toccai più e più volte il suo ultimo fascio di nervi, mentre sentivo di star raggiungendo il limite. Quando poi John si avvicinò al mio orecchio e, gemendo, mi disse “Ti amo”, persi ogni controllo, e venni, insieme a lui.
Non so come mai la sua voce roca e incrinata dal piacere mi fece quell’effetto; mi prendereste certamente per un romantico se vi dicessi che mi piace pensare di essere venuto perché per la prima volta lui mi espresse, senza giri di parole, ciò che provava veramente per me.

Ansimai vicino al suo orecchio, la fronte appoggiata sulla sua spalla sana, cercando di regolarizzare i miei respiri. Non appena il mio ritmo cardiaco ritornò a un battito normale e i miei respiri si fecero meno affannati, riuscii a parlare, e dissi, per la prima volta, ciò che il mio cuore aveva chiaro da tempo.
“Ti amo.”

Cuz we belong together now
Forever united here somehow
You got a piece of me
And honestly
My life would suck without you

Guardo il mio John dormire profondamente vicino a me. Sono passati ben dieci anni da quel pomeriggio d’inverno in cui io e John fummo in grado di mettere da parte le nostre paure e di dichiararci l’un l’altro il nostro amore.
Noi ci apparteniamo, ci siamo sempre appartenuti, anche se abbiamo messo anni per capirlo, accettarlo e per imparare a conviverci. Mentirei se vi dicessi che è sempre stato tutto rose e fiori, perché ovviamente, io non sono cambiato; il mio stile di vita frenetico lo porta ad arrabbiarsi con me, proprio come un tempo. E mentirei ancora se dicessi che non mi ha cambiato stare con John; di certo ho smesso di far uso di droghe, non farei mai nulla per ferirlo e poi, finché ho la sua pelle, posso anche non avere bisogno delle droghe.
Anche se so che ne andrebbe della mia reputazione di essere non umano, se si sapesse che sono profondamente legato a una persona che è in grado di sconvolgermi con tanta facilità, sono comunque felice di avere John al mio fianco, di essere legato a lui indissolubilmente. Perché so che senza di lui, senza il mio Watson, la mia vita farebbe orrore.

sherlock holmes, tabella

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