Wrong world - parte seconda

Feb 22, 2010 21:01

Dal momento che ho praticamente finito questa storia - se la gente da cui devo andare dopo cena non mi trattiene per mesi, magari la finisco stasera stessa - ho pensato che sarebbe stato carino velocizzare la pubblicazione, ecco, così la gente non mi odia troppo magari. XD
Ecco, avrei tante cose da dire, ma non ho troppa voglia di farlo in un post pubblico ♥ visto che poi è pieno di gente che legge e io non ho alcuna voglia che legga. Però il periodo sta migliorando, se non altro... sembra, almeno. XD
Posto subito! ♥

Titolo: Wrong world (2/6?)
Pairing: Jin Akanishi (KAT-TUN) x Tomohisa Yamashita (NewS)
Genere: AU politica, romantica (?)
Rating: NC-17 per violenza, molta violenza; non aspettatevi descrizioni accurate di scene sessuali.
Summary: Un giovane politico, dalle idee piuttosto rivoluzionarie e forse troppo ingenue, viene rapito, per evitare che “parli troppo”, proprio prima di una conferenza stampa. La sua guardia del corpo, nonché suo compagno di letto, non riesce a sopportare l’idea di averlo lontano da sé.
Warnings: Come ho già detto, davvero molta violenza. Non credo che ci siano altri warnings da fare, questo è sufficiente, no? Non immaginatevi niente di carino e confettoso, questa volta. PoV di Jin.
Commenti: Sono stata proprio tanto contenta di aver scritto questa fanfiction, mi è piaciuto così tanto. ;__; Scritta per il prompt "AU. l'uke della situazione, personaggio scomodo estremamente in vista (preferirei un politico con idee particolari/scomode etc.), viene rapito, privato della memoria e costretto a prostituirsi. vorrei che fra il seme e l'uke ci fosse un qualche tipo di rapporto, ovviamente (amicizia? compagni di letto? fiiiidanzati? *occhioni dolci*), e, soprattutto, vorrei che il seme conducesse indagini etc. in perfetto Hollywood style per ritrovare la sua dolce metà ♥ punti bonus per estremo realismo e happy ending." della meravigliosa xnyappyallyx! Per comodità di storia e di PoV ho purtroppo dovuto eliminare la parte del "costretto a prostituirsi", spero che mi perdonerà. ;_;
Disclaimer: Don’t own.

Parte Prima.



Wrong World

“Dai, stupido. Vieni dentro.”
“No, non posso. Lo sai. Non siamo a casa tua qui, siamo in un albergo, e quella è la tua stanza. E io devo rimanere fuori a fare la guardia.”
“Ma cosa sei, un cane? Dai, scemo, entra.”
“No, Tomohisa... potrebbero vederci. Questo corridoio è fottutamente pieno di stupidi poliziotti, questo albergo è pieno di politici per quell’idiozia di conferenza stampa, e...”
“Non sei molto gentile con il mio lavoro. Vuoi sbrigarti a venire dentro? Fa freddo qui, e io sono mezzo nudo.”
“Non dovresti esserlo, mi... mi tenti. Vestiti. Ed io rimango qui. Devo fare la guardia.”
“Mi farai la guardia molto meglio a letto con me, stupido. Vieni dentro...”
“Pi... non guardarmi in quel modo, ti prego, mi viene molto più difficile resisterti...”
“Ancora devo capire per quale motivo ti ostini a resistermi, veramente.”
“Non lo so. Ti giuro che in questo momento non lo so.”
“Vieni dentro?”
“Del resto, farò la guardia molto meglio se sarò più vicino a te. Vero?”
“Quanto sei scemo...”

Riaprendo gli occhi, non ero riuscito a rendermi immediatamente conto di dove mi trovassi.
In parte perché quel luogo mi era del tutto nuovo, ed in parte - in maggioranza, per la verità - perché mi svegliavo da un sogno molto confuso, dove mi trovavo altrove, con te.
Sentendomi avvolto da lenzuola calde e bianche, in un letto morbido che non era il mio, il primo pensiero fu quello di trovarmi ancora a casa tua, nel tuo letto, poco distante dal tuo corpo nudo ed addormentato accanto a me.
È dura ammettere che mi ero sentito sfuggire un sorriso dalle labbra, al pensiero che fosse tutto ciò che avevo in realtà vissuto ad essere un brutto sogno, uno scherzo della mia mente causato dall’ansia della tua prima vera conferenza stampa, dagli allarmismi che giravano già da qualche giorno sui giornali riguardo alla tua incolumità.
Quando però riuscii, con immensa fatica, a mettere a fuoco la stanza, ad allungare un braccio a cercare il tuo corpo, mi resi immediatamente conto di quanto ci fosse qualcosa che non andasse.
Era raro che ti addormentassi distante da me, nonostante non fossimo una coppia, né, mio malgrado, fingessimo di esserlo, hai sempre candidamente ammesso quanto il calore delle mie braccia ti piacesse, ti calmasse, ti aiutasse a dormire più serenamente.
Ed io non ho mai recriminato, al punto da essere il primo a stringere forte, fortissimo, il tuo corpo spesso ancora scosso dal piacere troppo recente, accarezzare la tua schiena lievemente sudata, bollente, sino a farti addormentare.
In quel momento, però, svegliandomi, non sentivo alcun peso confortevole e caldo tra le mie braccia, ma solo il soffitto bianco, accecante, ed un dolore agghiacciante all’altezza delle costole quando tentai di tirarmi su, gli occhi ancora appannati.
“Fermo, Akanishi. Non alzarti ancora.”
Il tono di voce duro del mio capo servì ad immobilizzarmi, facendomi ricadere tra i cuscini, con un piccolo gemito di dolore, mentre mi portavo una mano sul petto, trovando solamente una fasciatura sulla pelle nuda - rendendomi conto di essere stato spogliato dei miei vestiti da qualcuno.
“Ma che cazzo...”
“Ti ho detto di stare fermo, idiota. Hai una contusione ad un paio di costole, deve essere stato quando uno di quei pezzi di merda ti ha preso a calci mentre eri a terra. Abbiamo già sentito dei testimoni, ma nessuno sembra essersi accorto della sparizione di Yamashita.”
Avevo ancora gli occhi chiusi, mentre quelle parole mi rimbombavano in testa.
Ero riuscito ad alzarmi, a tornare a picchiare quegli uomini che ti avevano portato via, nonostante mi avessero provocato una contusione - e, soprattutto, non era un orribile sogno causato dall’ansia.
Eri sparito veramente.
Quando avevo finalmente aperto gli occhi, riuscii a capire che era una camera d’ospedale, quella in cui mi trovavo, il mio capo seduto poco distante dal mio letto, una sigaretta spenta già tra le labbra secche, probabilmente era in procinto di alzarsi e andarsene.
“Domani, quando starai meglio, sentiremo anche te, per capire dove cazzo fossi quando Yamashita è stato portato via. Non fare un passo, le contusioni al costato sono una cosa seria, e voglio avere la garanzia che tu stia bene, per poterti rompere il culo di persona.”
Biascicava quasi, perché non si era tolto la sigaretta dalle labbra nemmeno un istante, entrambe le mani impegnate a cercare l’accendino nelle tasche dei pantaloni.
“Hanno chiamato..?”
“No, non c’è stata nessuna richiesta di riscatto. Probabilmente volevano toglierlo di mezzo per un po’, perché quel piccolo stronzetto arrogante si togliesse dalla testa le idee di andare in giro ad accusare gente più potente di lui.”
Una volta trovato il piccolo zippo argentato, si alzò in piedi, guardandomi negli occhi, torvo.
“Ovviamente ti è stato tolto l’incarico. Quando e se ritroveremo Yamashita, non sarai più tu la sua guardia del corpo personale.”
E quelle parole, erano riuscite ad infliggermi molto più dolore di quanto non avessero fatto tutti i colpi che avevo incassato per te.

Avevo cercato di alzarmi, ovviamente.
Il solo pensiero di rimanere fermo, immobile, in un letto di ospedale, mentre tu eri da solo, con gente che non conoscevi e che non si sarebbe fatta alcuno scrupolo a farti del male, mi stava facendo velocemente diventare pazzo.
Non riuscivo a smettere di pensare a te, a come avrei fatto a trovarti, a salvarti, ero così ossessionato dall’idea del poter sentire nuovamente la tua voce, che nemmeno la minaccia del mio capo - più che una minaccia, era un avvertimento su qualcosa che sarebbe avvenuto di sicuro - di togliermi il mio incarico di tua guardia del corpo riusciva a distogliere la mia mente dal tuo rapimento.
Mi sarebbe stato sufficiente sapere che eri vivo, forse, per rimanere immobile quelle poche ore che mi sarebbero bastate per sentirmi meglio, ma l’angosciante pensiero che potessi non esserlo, la consapevolezza di essere completamente inutile ed impotente in quel letto d’ospedale, mi impedivano categoricamente di rimanere immobile a riposare, anche se per sole poche ore.
Alcuni infermieri piuttosto forti bloccarono la mia prima fuga, trovandomi ansante dal dolore qualche passo fuori dalla porta della mia stanza, una mano sul petto a cercare di recuperare il respiro che sembrava schiacciato da quelle costole incrinate.
La seconda fuga ebbe successo sino a qualche metro fuori dall’ospedale, quando l’attenzione di un medico che stava tornando a casa dopo il suo turno venne attirata dai pochi abiti che avevo addosso, dal mio modo di camminare incerto.
Ovviamente, dopo, non mi fu più possibile tentare di alzarmi nuovamente, una piccola infermiera che aveva tutta l’aria di essere alquanto spaventata da me era stata obbligata a rimanere nella mia stanza, seduta su una scomoda sedia di ferro e plastica per tutta la notte, sfogliando una rivista e, occasionalmente, ricontrollando la mia cartella clinica, quasi a voler fingere un motivo della sua presenza lì che non fosse la mia palese voglia di andarmene.
E mi ero ritrovato a fissare il soffitto, ricordando i nostri primi tempi insieme, quando di te vedevo solamente quel ragazzino viziato che aveva preteso di avere una guardia del corpo, senza motivo - prima di conoscere la tua forza, la tua dolcezza, le tue parole così giuste da essere completamente sbagliate per questo mondo, che non te le avrebbe mai perdonate.

Era tardi, quel limbo sottilissimo in cui la sera stava per diventare già notte inoltrata, ma non stavo dormendo, né avevo alcuna intenzione di farlo in tempi brevi, in ogni caso.
Ero seduto sul divanetto basso e morbido di uno di quei locali non troppo raccomandabili, musica altissima e luci soffuse, con un cocktail dal sapore forte e dal tasso alcolico elevato in una mano, un ragazzo basso, con i capelli corti, carino, seduto al mio fianco.
Coglievo un brillio attraente nella sua bocca mentre parlava, probabilmente un piercing alla lingua, era abbastanza sveglio da non cercare risposte alle sue chiacchiere vuote quasi del tutto coperte dal volume della musica, era di sicuro consapevole quanto me che non fossi lì per conoscerlo, per parlare con lui, quando per portarmelo a letto.
Non sembrava particolarmente restio all’idea, tutt’altro - e proprio quando stavo per chiedergli maliziosamente il motivo del nostro rimanere in quel locale, quando avremmo potuto continuare la conversazione altrove, in modo più comodo e senza dubbio molto più intimo, la tasca che conteneva il mio cellulare cominciò a vibrare insistentemente.
Del tutto ostinato del voler portare a termine la mia conquista, avevo ignorato la chiamata, continuando a guardare le labbra del mio interlocutore muoversi velocemente.
Pochi istanti, e quel vibrare incessante si placò, strappandomi un sorriso all’improvvisa pace, che il ragazzo accanto a me interpretò come rivolto a lui, animandosi ancora di più nella discussione di cui non sentivo una sola parola.
La pace durò decisamente poco, però, pochi istanti e mi arrivò un’altra chiamata, facendo vibrare di nuovo la mia tasca, evidentemente, chi mi stava cercando ad un’ora così tarda, aveva davvero urgenza di parlarmi.
Quel pensiero mi attraversò la mente, ed in pochi istanti chiesi al ragazzo di scusarmi, prendendo il cellulare disturbatore dalla mia tasca ed aprendolo, fissando con sguardo vacuo sul display il nome della persona che mi stava chiamando.
Eri tu.
All’epoca, per me, eri solamente la persona per la quale lavoravo, la persona a cui ero stato assegnato, quella che dovevo proteggere in ogni istante della sua vita per guadagnarmi i soldi - tanti soldi, è inutile negarlo - che venivo pagato.
E forse il pensiero di quei soldi, più che la preoccupazione per un’urgenza vera e propria, mi spinse a fare un cenno al ragazzo che era accanto a me, alzandomi in piedi, rispondendo solo dopo aver varcato la soglia della porta dell’uscita di sicurezza, lasciata aperta per permettere ai buttafuori che conoscevo bene come fratelli di fumarsi una sigaretta di tanto in tanto.
“Sì?”
Il tono della mia voce era molto più distaccato, anche quando mi rivolgevo a te.
“A... Akanishi-kun? Ti disturbo?”
Non ero ancora Jin, solamente Jin, per te, e, nonostante fossi convinto che l’avere una guardia del corpo per te non fosse altro che il capriccio di un ragazzino viziato, il tono incerto della tua voce, quasi spaventato, mi spinse ad ammorbidire il tono della mia, quasi senza rendermene conto.
“No, Yamashita-san. Non c’è problema. È successo qualcosa?”
E non avevi parlato subito, avevi tentennato, un piccolo sospiro dritto nella cornetta del telefono mi aveva fatto venire i brividi - e non era a causa dell’aria fresca che c’era all’esterno del locale, eravamo in piena estate, ed era più che altro piacevole.
“Sono... sono in questo locale, sai. Anzi, fuori, perché dentro non sentivo niente, ma... ma non credo di poter guidare, non lo so. Comunque mi sento come... come se qualcuno... mi stesse seguendo. Ecco. Pensi che sia solo paranoia?”
Lo pensavo, e sicuramente non mi sarei fatto alcuno scrupolo a dirlo, se fosse stato chiunque altro.
Ero stranamente sicuro che non mi sarei fatto problemi nemmeno a dirlo a te, che la tua paranoia - la stessa che ti aveva spinto a chiedere una guardia del corpo ai servizi dello Stato - stesse diventando qualcosa di ridicolo.
Ma dalle labbra non mi uscì niente del genere, la strana nota di dolcezza che avevo percepito nella tua voce mi aveva del tutto spiazzato, lo ammetto.
Non sapevo cosa dirti, non sapevo come spiegarti che nonostante fossi la tua guardia del corpo, non potevo essere disponibile per te ventiquattro ore su ventiquattro, e che avresti fatto meglio a farti passare la paranoia, tornando dagli amici dai quali sicuramente eri attorniato prima di uscire fuori, per telefonarmi.
“Va bene. Dimmi dove sei, vengo io a prenderti.”
E ciò che invece ti dissi, non aveva assolutamente alcuna correlazione logica con tutto ciò che avevo pensato sino a quel momento.

Era la prima volta che ti vedevo con addosso qualche vestito diverso dai tuoi soliti abiti eleganti in colori sobri, chiari.
Mi venne da sorridere, quando mi resi conto che era davvero altamente improbabile che qualcuno ti stesse seguendo con un proposito diverso da quello di volerci, chiaramente, provare con te, perché in quel momento sembravi tutto fuorché il giovane politico con idee radicali, al centro dell’attenzione.
I capelli castano chiaro solitamente perfetti sembravano mossi da una lieve permanente, forse era solo qualche prodotto cosmetico particolarmente costoso, o forse era il contrario, e li avevi lasciati asciugare al calore dell’aria estiva, contrariamente a tutta la fatica che dovevi metterci normalmente.
La tua pelle sembrava addirittura più scura, di un colore lievemente caramellato, in contrasto alla felpa viola chiaro dentro la quale ti eri nascosto, il cappuccio tirato su, appoggiato ad un muro mentre ti guardavi attorno, cercandomi.
Erano abiti comuni, di un ragazzo comune - e probabilmente c’era davvero qualcuno che ti stava seguendo, o che ti guardava da poco distante, senza riuscire a toglierti gli occhi di dosso, vista la tua innegabile bellezza.
E no, non voglio fare la parte dell’ingenuo, non è mai stata la mia parte, quindi non voglio fingere di non essermi mai reso conto prima della perfezione dei tuoi lineamenti, le labbra morbide, il naso piccolo, gli occhi grandi e scuri, dolcissimi, per non parlare di quel corpo sottile che nascondevi sempre sotto troppi vestiti.
Avevo però catalogato la mia lieve attrazione per te come quella che si può provare verso un bel ragazzo, uno qualunque, irraggiungibile - non perché non fossi certo delle mie qualità, lo ero, lo sono sempre stato, quanto più che altro perché non avevo alcuna intenzione di averti, non volevo cadere nella rete di quello che era secondo me solamente un ragazzino viziato.
Mi ero avvicinato a te, però, e guardandoti sollevare quei grandi occhi neri appena nascosti dal cappuccio su di me, mi resi conto di non essere più così certo della mia decisione.
“Yamashita-san.”
“Scusami, Akanishi-kun. Mi dispiace di averti chiamato così tardi. Stavi dormendo? O eri occupato? Mi dispiace.”
Ti guardavo morderti un labbro, assistendo impotentemente all’ammorbidirsi di tutte le mie convinzioni, mentre ti portavo una mano dietro la schiena, come avevo sempre fatto per guidarti tra la folla, perché non ti toccasse nessuno - nonostante nessuno avrebbe potuto scambiarci per un politico e la sua guardia del corpo, quanto più per due persone decisamente intime, visto il locale davanti a cui eravamo, che oltretutto non mi lasciava alcun dubbio sulla tua sessualità, se mai ne avessi avuto alcuno.
Avevo cominciato a guidarti verso la mia auto, sentendo, come ogni altra volta che ti ero accanto, il modo quasi morboso in cui ti stringevi impercettibilmente a me, come se fossi l’unica persona di cui davvero ti fidavi, e a cui permettevi un contatto.
“Non preoccuparti. Ti porto a casa, non è un problema. Stavo comunque per andarmene, il posto si stava facendo noioso.”
Ti stavi guardando intorno, come se fossi davvero preoccupato di qualcosa, e, all’incrociare forse lo sguardo di qualcuno, sentii le dita sottili della tua mano stringersi ad un lembo della mia giacca leggera di pelle.
Avevi stretto le labbra, abbassato lo sguardo, premendoti l’altra mano sul cappuccio, facendo sì che persino io mi rendessi conto di quanto ci fosse qualcosa che realmente ti preoccupava, e che non fosse solamente il capriccio di un ragazzino viziato, troppo ubriaco per guidare e troppo svogliato per chiamare un taxi, che aveva preferito approfittare della sua guardia del corpo.
“Yamashita-san... cosa c’è?”
Ti eri stretto nelle spalle, stretto a me, gettandoti un’altra occhiata nervosa dietro le spalle, scuotendo poi la testa.
“Forse è solo una mia impressione, ma. Ma è tutta la sera... che mi sento osservato. Da tante persone.”
Mi avevi indicato un punto vago dietro la tua schiena con un cenno del capo, ed io mi ero voltato, in modo decisamente poco discreto, notando solamente qualche sguardo deluso alla vista di quella che probabilmente era la loro preda per quella sera andarsene tra le braccia di un altro.
E mi ero messo a ridere, quasi istintivamente, mentre la mano sulla tua schiena trovava le tue spalle, circondandole, stringendoti a me, quasi inconsciamente - o del tutto consciamente fiero di portarmi via, per una volta, il ragazzo davvero più bello dell’intero locale.
Nonostante fossi ancora convinto che non ti avrei toccato nemmeno con un dito.
“Ne, Akanishi-kun, perché ridi? Stai ridendo di me, vero?”
Avevo fermato la mia risata, mordendomi un labbro per cercare di nascondere quel sorriso divertito che mi era nato spontaneamente alle tue parole, al broncio da ragazzino ingenuo, lo stesso ragazzino che non si era davvero reso conto di quanto le persone potessero essere interessate a lui, e non solamente per le sue idee in ambito politico.
“Scusami. Ma, Yamashita-san... pensavi che questi ragazzi volessero farti del male a causa del tuo lavoro?”
Forse le mie parole erano venute fuori con un tono più divertito di quanto intendessi - ma non sembravi aver fatto caso nemmeno a questo, tanto quanto non avevi minimamente recriminato al cambiamento del modo in cui ti stringevo a me.
Il tuo broncio non era sparito, però avevi abbassato lo sguardo, con un piccolo sospiro.
“Lo sapevo. Lo sapevo di essere paranoico. Ma ti giuro che mi sembrava che mi guardassero tutti...”
Avevo scosso la testa, non potevo davvero crederci.
Non potevo credere di essermi davvero sbagliato sul tuo conto, sul fatto che non fossi davvero un ragazzino viziato e capriccioso - non volevo crederci, perché temevo che l’attrazione che provavo per te, non avrebbe fatto altro che aumentare, scoprendoti così dolce, così ingenuo.
“Davvero non te ne rendi conto?”
Una domanda che mi era sorta del tutto spontanea, forse dopo qualche secondo di silenzio, mentre continuavamo a camminare in direzione della mia auto, parcheggiata un po’ distante dal locale.
“Di cosa?”
“Probabilmente tre quarti delle persone in quel locale non sanno nemmeno come si scriva, la parola politica. O se lo sanno, in ogni caso non si sono preoccupati di sapere che tipo di faccia avessero le persone di cui sentono parlare sui giornali. Dubito che ci sia anche una sola di quelle persone che ti avrebbe mai guardato solo perché sei un giovane politico con idee piuttosto pericolose...”
Ti eri voltato di nuovo, guardando dietro alle nostre spalle quanti di quei ragazzi ti stessero effettivamente ancora osservando, o seguendo, e probabilmente dovevi aver notato che molti di loro avevano cambiato obiettivo, rassegnati, perché ti avevo sentito ammorbidirti nella mia stretta.
Non ti eri allontanato, però, avevi sollevato di nuovo lo sguardo su di me, gli occhi resi ancora più scuri dall’ombra che il cappuccio gettava sul tuo viso.
“Ma allora perché mi guardavano?”
E avevo riso di nuovo, rendendomi conto di quanto davvero non fossi consapevole della tua bellezza e, aprendoti la portiera della mia macchina e sciogliendo il nostro abbraccio, avevo cominciato, per la prima volta, ad evitare di dirti ciò che stavo realmente pensando.
Che eri bellissimo, davvero bellissimo.

Non era la prima volta che facevamo insieme un viaggio in auto, per quanto breve fosse.
Solitamente rimanevi in silenzio, accanto a me, a guardare la strada con una strana espressione, come se potessi trovare qualcosa di curioso in tutto ciò che ti circondava, anche la banale via che attraversavi ogni giorno per tornare a casa, proprio come un bambino - e non avevo mai notato, prima di allora, la tua innocenza.
Ma quella volta era andata in modo diverso, eravamo spontaneamente scivolati in una conversazione del tutto informale sui tipi di locali che evidentemente entrambi frequentavamo, stupendoci, divertiti, del fatto che non ci fossimo mai incontrati prima.
Non mi sentivo una guardia del corpo chiamata nel cuore della notte dal politico pieno di paranoie che doveva proteggere - quanto più un amico a cui era solamente stato chiesto un favore, ed era una sensazione pericolosa.
In quanto amico, non avrei trovato alcun appiglio morale che mi impedisse di desiderarti così tanto.
Non avevi nemmeno aspettato che fossi io ad aprirti la portiera dell’auto come al solito, prima di scendere, mi avevi sorriso mentre cercavi le chiavi di casa tua nelle tasche, chiedendomi con un tono del tutto sereno, come se fosse perfettamente lecita quell’atmosfera confortevole tra noi, se volessi salire a prendere un caffè.
E io avevo guardato i tuoi occhi neri brillare in modo attraente nell’ombra che il cappuccio gettava sul tuo viso, le labbra piene e perfette piegate in un lieve sorriso - e avevo accettato.
Avevo accettato, mantenendo stretta a me la convinzione che la mia professionalità non mi avrebbe permesso di cedere ai desideri che stavano diventando sempre più forti, convinto anche, come uno stupido, che sarebbe comunque toccato a me fare un passo verso di te.
Non riuscivo a capirti, la delicatezza di quel tuo carattere sfuggiva del tutto alla mia comprensione.
Prima eri solamente un ragazzino viziato, ai miei occhi, e dopo qualche minuto e una chiacchierata senza motivo lungo la strada verso casa, ti vedevo così innocente da sentirmi completamente al sicuro nelle mie decisioni.
E quel caffè erano diventate un paio di birre, bevute con calma seduti per terra nel piccolo terrazzino del tuo appartamento, dal quale avremmo visto tutta Tokyo dall’alto, se solo i miei occhi fossero riusciti a staccarsi un solo istante dal profilo morbido del tuo viso.
Le nostre spalle erano appoggiate alla porta-vetro che dava sul salottino, ti stringevi nella tua felpa viola, parlandomi senza sosta delle tue idee, ridendo di te stesso, delle tue convinzioni quasi ingenue, anche quando gli occhi ti brillavano così tanto da mandarmi completamente in confusione.
E fui io ad alzarmi per primo, finita la seconda birra, rendendomi conto di quanto non riuscissi a fare a meno di avvicinarmi a te sempre di più, temendo di non riuscire più a far fronte al terribile desiderio di sfiorarti, di toccarti, di baciarti e averti per me.
Avevi sollevato lo sguardo, interrompendo a metà una frase, piegando le tue belle labbra in un broncio lieve.
“Vai già via?”
Non avevo mai trovato attraente l’innocenza, ma la tua, era una sensualità tutta particolare, irresistibile.
Feci l’enorme errore di posare una mano tra i tuoi capelli, sentendo la loro morbidezza scorrermi tra le dita, abbandonandomi ad un gesto più intimo di quello che sarebbe dovuto essere il nostro rapporto, all’epoca.
“Mi dispiace, Yamashita-san. È tardi. E domani hai un incontro piuttosto importante o sbaglio? Dobbiamo essere ben svegli tutti e due.”
Mi ero ripreso, stringendomi nella mia dubbia professionalità, entrando dentro casa - notando, con la coda dell’occhio, che ti eri immediatamente alzato dopo di me, seguendomi sino alla porta, sentendo i passi morbidi dei tuoi piedi nudi.
“Non è poi così importante, quell’incontro.”
Avevo riso di nuovo, mi piaceva quel tuo modo di fare, mi piaceva molto di più di quando ti fingevi un ragazzino snob solamente perché il ruolo ti divertiva, eri così maledettamente carino, come un bambino che fa i capricci con sua madre perché non vuole essere mandato a dormire.
Avevo scosso la testa, fermandomi sulla soglia per mettermi le scarpe, pronto a parlare, a salutarti con un congedo sin troppo veloce, che forse avrebbe tradito la mia fretta di uscire da quell’appartamento prima di fare qualcosa di incredibilmente stupido - ma anche quelle parole mi morirono sulle labbra.
Le tue mani curate si erano strette attorno al mio braccio, le dita sottili a stringere la pelle del mio giubbotto, e, abbassando lo sguardo, vedevo solamente i tuoi grandi occhi scuri, pieni di aspettative, le labbra arrossate dal vento estivo lievemente dischiuse.
“Questa sera... volevo vederti. Lo sai? Avevo voglia di vederti...”
Mi sentivo immobilizzato, forse completamente ipnotizzato, guardavo le tue mani sciogliere lentamente la loro presa sul mio braccio, spostandosi sul mio petto, scivolando sino alla vita, stringendomi morbidamente, mi sarebbe stato sufficiente fare un passo indietro, per rifiutare quell’abbraccio.
Ovviamente, non avrei mai avuto la forza d’animo necessaria per fare una cosa del genere - e avevo l’impressione che, se fossi rimasto abbastanza in silenzio, ti avrei quasi sentito fare le fusa, mentre avevi il viso semi-nascosto contro la mia spalla.
Avevo posato le mani sulle tue spalle, con la ferma intenzione di allontanarti appena da me, ma con la volontà di farlo praticamente nulla, e mi ero limitato a tenerle lì, notando come il tuo corpo fosse molto più sottile di quanto sembrasse.
“Tomohisa...”
Avevo usato per la prima volta il tuo nome, e la cosa sembrò piacerti, perché avevi sollevato i tuoi grandi occhi neri su di me, sorridendo appena.
“Jin... puoi farmi un po’ di compagnia, ancora per un po’?”
Avevo alzato gli occhi al soffitto, questo lo ricordo alla perfezione.
E poi li avevo chiusi per qualche istante, certo che non fosse assolutamente possibile cedere così in fretta.
Certo che, anche se fossi stata la guardia del corpo più professionale dell’intero fottuto pianeta - cosa che non ho mai nemmeno finto di essere, accidenti - non sarei riuscito a resistere a quegli occhi, a quel sorriso.
E abbassando lo sguardo, ero anche certo che ti avrei solamente detto che sarei rimasto solo un po’, ancora per un po’, per farti smettere di avere quel broncio così adorabile ben delineato sulle labbra.
Quello che non avevo calcolato, era di abbassarmi quei pochi millimetri ed incontrare le tue labbra, sfiorarle lievemente, sentire il tuo respiro caldo sulle mie, vedere i tuoi occhi chiudersi - ed essere già completamente assuefatto a quella sensazione.
Tutt’ora non riesco a ricordare chi fosse stato il primo, tra noi, ad annullare quella distanza così breve.
Probabilmente io, attratto dalle tue labbra ed incapace di placare i miei desideri, avevo lasciato che una delle mie mani scivolasse sulla tua schiena, l’altra tra i tuoi capelli, catturandole un istante dopo tra le mie.
Eri colpevole quanto me, non è vero?
Avevi schiuso le labbra, le palpebre serrate e le mani sul mio petto, che trovavano la strada sulle mie guance, tra i miei capelli, mentre mi perdevo in te, nell’approfondire quel bacio lunghissimo.
Non credevo che avrei mai saputo baciare qualcuno in modo simile - lento, lentissimo, con una dolcezza che mi era completamente sconosciuta, che ci permetteva di respirare, di cercare il nostro sapore sino in fondo in quella lunga carezza umida, di stringerci, e andare avanti all’infinito.
E quando ci siamo separati, la tua fronte contro la mia, ci siamo guardati negli occhi per quelle che potrebbero essere state ore, le labbra ad un soffio le une dalle altre, prima di stringerci ancora, e perderci in un altro bacio.

Ti piacevano i miei capelli.
Non me l’avevi detto, non ce n’era stato bisogno, l’avevo notato da come le tue dita non sembrassero volerli abbandonare, anche mentre i nostri baci si facevano più passionali, li accarezzavi, li stringevi, te li lasciavi scorrere tra le dita, anche mentre stringevo di più le braccia attorno al tuo corpo, inconsciamente tornando a muovermi lontano dalla porta d’ingresso.
Non mi dava fastidio, mi piaceva.
Mi piaceva tanto quanto i piccoli sospiri che sfuggivano alle tue belle labbra ogni volta che ci separavamo, sospiri delicati, quasi disperati, che chiedevano di più.
Mi piacevano i tuoi occhi socchiusi, il colorito delle tue guance a rivelare un barlume di innocenza quasi assurda, mentre eri tu stesso a guidarmi in direzione della tua camera da letto, dove non ero mai stato prima - non che quello fosse il momento adatto a guardarmi intorno.
Mi piaceva l’odore della tua pelle, era liscia e perfetta, sapeva di buono, di pulito, mi piaceva accarezzarla mentre mi portavo via la stoffa che la copriva, inutile, facendoti sorridere, ed arrossare ancora un po’ le guance.
Eri bellissimo, da morire, e anche allora mi chiedevo quale forza mi trattenesse dal dirtelo, mentre mi inebriavo del tuo profumo, forte come una droga.
Non mi aspettavo di trovarmi così catturato da te, con una forza tale - ero completamente perso nei nostri baci lenti, pieni di passione, nei movimenti ipnotizzanti delle tue dita tra i miei capelli, sulla mia schiena ormai nuda, dal tuo corpo perfetto che si inarcava in modo attraente sotto di me.
Non era da me perdere il controllo in certe situazioni, lo sai?
Non era da me nemmeno non essere in grado di fermarmi dopo un bacio sbagliato, non ero un ragazzino alle prime armi, di esperienza ne avevo sin troppa.
Eppure ero lì, le nostre gambe intrecciate tra le lenzuola candide, le mani che si cercavano sui nostri corpi nudi, completamente soggiogato dai tuoi occhi neri, che mi chiedevano sempre di più.
Eppure mi piaceva tutto ciò che stavamo vivendo.
Mi piaceva tutto di te, in modo sin troppo forte, quasi intossicante.
Mi piacevi tu.

Mi è sempre piaciuto il sesso occasionale, non me ne sono mai vergognato e non l’ho mai nascosto.
Le persone danno il meglio di sé, con chi sanno che probabilmente non incontreranno mai più dopo una notte di passione, non temono giudizi affrettati, non provano la vergogna di chi si è conosciuto in altri ambienti e poi si trova tra le lenzuola, senza maschere né abiti a coprire le proprie imperfezioni.
Ho sempre creduto che il sesso occasionale fosse una grande invenzione, ma solo con chi si conosceva per una sera, solamente per quel preciso scopo.
Spesso non chiedevo nemmeno il nome dei miei amanti, prima di consumare i nostri minuti di passione in una camera d’albergo, o di un love hotel, in automobile addirittura, prima di voltarci le spalle certi di non incontrarci mai più.
E sì, mi sono sempre ben guardato dal cercare sesso dalle persone che avrei poi rivisto, soprattutto in ambito lavorativo.
Avevo infranto una delle mie regole sacre, per te, del tutto involontariamente, mi ero lasciato catturare dal tuo sguardo così ingenuamente languido e dal tuo corpo perfetto, lo ammetto.
Non avevo intenzione di farla diventare un’abitudine - di certo non quando abbiamo cominciato.
Ero sicuro che sarebbe stato imbarazzante, che ci saremmo sorrisi pieni di confusione, che ci saremmo sentiti a disagio persino spogliandoci, consci che il giorno seguente saremmo tornati ad essere un politico la cui fama era in ascesa e la sua personale guardia del corpo, sì, il mio lavoro di certo non aiutava, a giudicare da quanto ero obbligato a rimanerti attaccato ogni istante della tua vita.
Ma non mi sono mai sbagliato tanto su qualcosa, in ambito sessuale.
Non ci siamo risparmiati nulla, ci siamo completamente abbandonati a tutta la passione che avevamo in corpo, senza remore, senza vergogna nel chiedere o dare di più, sorridendoci divertiti quando le nostre labbra e i nostri sguardi non riuscivano a fare a meno di legarsi.
Il modo in cui la tua schiena si inarcava al passaggio delle mie mani su di te era forse la cosa più sensuale che avessi mai visto, o forse lo eri tu, in tutto il tuo essere, i gemiti quasi trattenuti, la voce dolce, bassa, sottile, le tue mani sulla mia schiena, i tuoi baci pieni di desiderio e disperazione allo stesso tempo, i tuoi occhi, fissi nei miei, per tutto il tempo in cui siamo stati insieme.
Tra noi scorreva la stessa mancanza totale di imbarazzo tipica di una notte di sesso occasionale con uno sconosciuto, ma c’era qualcosa in più, qualcosa che non ero riuscito a decifrare.
Qualcosa che era riuscito a far diventare quella notte davvero perfetta, forse la migliore della mia vita.
Qualcosa che c’entrava del tutto con il fatto che mi piacessi così tanto.
E poi, dopo, ti avevo guardato.
Ti avevo guardato a lungo, e non ero riuscito ad evitarmelo - avevi il fiato corto, steso sulla schiena a guardare il soffitto mentre cercavi di recuperare il respiro che ero stato io a rubarti, le guance rosse, e forse mi sembravi ancora più incredibilmente bello.
Ti si era dipinto un lieve sorriso sulle labbra, gli occhi ancora puntati sul soffitto candido della tua camera da letto, e li avevi socchiusi un istante dopo, con un sospiro, prima di parlare.
“Non ti addormentare.”
Ero rimasto lievemente sconvolto, lo ammetto, forse spiazzato.
Avevo alzato un sopracciglio, mi ero sollevato su un gomito, guardandoti mentre ti voltavi su un fianco, verso di me, le tue dita sottili che cercavano le lenzuola, per coprirti appena da quel lieve venticello estivo che filtrava dalla finestra socchiusa, attraverso le tende.
“Cosa? Vuoi davvero cacciarmi via e non lasciarmi dormire qui? Sei crudele...”
Forse avevo messo il broncio, non ne ho idea.
Probabilmente l’avevo fatto, anche se quella era una mossa tipicamente tua, te l’avevo rubata per qualche istante, sentendomi colpito completamente allo scoperto dalla tua frase.
Mi ero convinto di essermi nuovamente sbagliato sul tuo conto, lo ammetto, forse non eri affatto quel ragazzo incredibilmente dolce e persino ingenuo dietro la tua facciata da ragazzino viziato.
Forse, dietro a quel ragazzo dolce e ingenuo, c’era davvero soltanto un ragazzino viziato, ed io ero stato il tuo giocattolo per una notte - non che cercassi qualcosa di più, non da quella notte.
Ma ero sempre stato io ad alzarmi ed andarmene, dimostrando il mio palese menefreghismo nei riguardi di ciò che avevo appena fatto, dimostrando che per me non era altro che sesso.
E sentire il mio amante di una notte essere il primo a dimostrare ciò che solitamente era parte di me, feriva il mio orgoglio, è inutile girarci intorno a lungo.
Poi, però, avevi sorriso, in quel modo adorabile, con quell’unica fossetta che ti bucava la guancia liscia, e ti eri stretto di più a me, lasciando scorrere una mano sul mio petto, sino ad insinuarla tra i miei capelli - d’altronde, ti piacevano i miei capelli, già me n’ero accorto.
E con quel sorriso, ero riuscito a mettere da parte anche quel po’ del mio orgoglio rimasto.
“No. Voglio ricominciare...”
Ed eri bellissimo, davvero bellissimo, e forse stavo per dirtelo - prima che le tue labbra si posassero sulle mie, ed il mondo cominciasse di nuovo a girare tre volte più veloce rispetto al solito, con te tra le mie braccia.

Ero sconvolto da come il rapporto tra noi fosse cominciato allo stesso tempo in modo così inusuale e così naturale.
Non stavamo insieme, né avevamo intenzione di diventare una coppia in tempi brevi, eppure quella notte mi addormentai stringendoti tra le braccia.
Ti stringevo, con la banale scusa di un poco probabile freddo di una notte estiva, guardando i tuoi occhi chiusi ed il tuo respiro calmo e profondo, regolare.
Mi era sembrata la cosa più naturale del mondo assecondare la tua richiesta di tenerezze e calore, dopo che avevamo trascorso gran parte della notte a prenderci tutte le energie e tutta la passione l’uno dall’altro, e, nonostante non l’avessi mai fatto prima, mi sentivo incredibilmente in pace, accarezzando i tuoi capelli morbidi sino a farti addormentare.
Forse avrei dovuto ringraziarti, per avermi stancato così tanto, perché non riuscii a trovare il tempo di spaventarmi per i repentini cambiamenti del mio comportamento, prima di addormentarmi profondamente con il viso nascosto tra i tuoi capelli, inebriandomi del loro profumo.
E non so ancora adesso se a svegliarmi fosse stato quel forte profumo d’Europa, di caffè caldo appena fatto o il lieve quanto improbabile brivido che mi aveva colto alla tua lontananza.
Il sole filtrava attraverso le tende delle finestre che avevamo lasciato spalancate quella notte, abbandonandoci del tutto alla mercé degli insetti che affollano Tokyo in estate - che non avevamo nemmeno notato, crollando l’uno tra le braccia dell’altro stremati dalla passione.
Le lenzuola stropicciate profumavano ancora del passaggio del tuo corpo caldo, quando mi alzai, cercando i miei boxer e i miei jeans sparsi sul pavimento della tua stanza, per riuscire a darmi un aspetto lievemente più presentabile, prima di venire a cercarti.
E tu eri in cucina vestito solamente con un paio di morbidi pantaloni grigio chiaro di cotone sottile, girando su una piccola piastra tonda quello che sembrava in tutto e per tutto un pancake, pronto ad andare ad accumularsi su una pila di simili frittelle ancora calde.
“Buongiorno. Hai fame? Spero di sì, ho sbagliato le dosi... con quell’impasto credo che ne vengano fuori ancora cinque o sei, almeno.”
Sorridevi, i capelli scompigliati sugli occhi ancora pieni di sonno, mentre facevi delicatamente scivolare il pancake ormai cotto insieme agli altri.
Ed eri riuscito a spiazzarmi immediatamente, non ricordavo più cosa volessi dirti, ma avevo la netta impressione che fosse qualcosa di molto stupido, che non avrebbe avuto senso dirti.
“Buon... g... ti piace la colazione all’americana?”
Mi ero portato una mano tra i capelli, energicamente, cercando di reprimere uno sbadiglio, fallendo, mentre mi avvicinavo a te.
Non ero certo di come avessi interpretato la notte che avevamo appena passato insieme, non ero nemmeno certo di voler mettere immediatamente le cose in chiaro, ero confuso, dalla dolcezza del tuo sguardo di prima mattina, dalla possibilità di poter smettere di fingere che un rapporto appena più intimo mi disturbasse così tanto.
E poi, c’era quel tuo sorriso.
“Sì! La adoro... a te non piace? Oddio, cosa mangiate voi guardie del corpo a colazione? Cose pesantissime come quelli che fanno palestra? Vediamo... riso, uova? Pancetta? Hot dog?”
Ti eri messo a ridere, mentre con una piccola spatola giravi un altro pancake, per farlo cuocere da entrambe le parti.
Ed io mi ero ricordato di ciò che volevo dirti, del modo in cui volevo mettere in chiaro ciò che c’era stato tra noi quella notte, quella notte perfetta, anche se ancora non mi rendevo conto di quanto la perfezione fosse difficile da trovare.
Scioccamente imputavo l’averla vista in te nella birra di troppo che avevo bevuto, nell’essermi lasciato catturare per la prima volta da un ragazzo che conoscevo, con cui avevo addirittura un rapporto di lavoro.
Da un ragazzo bellissimo.
“Tomohisa... senti, riguardo a questa notte...”
Avevi rivoltato l’ennesimo pancake, posandolo con un gesto secco eppure delicato in cima agli altri, voltandoti, guardandomi con un mezzo sorriso, mentre mi posavi una mano al centro del petto, fermandomi, e facendomi fare appena un passo indietro, per lasciarti spazio di manovra.
E non ero riuscito a continuare, ti avevo guardato inerme mentre posavi due piatti pieni di frittelle morbide e calde sul tavolo, coprendole con altri due piatti per mantenerle calde, e per evitare che il tuo cagnolino cercasse di assaggiarle, incuriosito dal profumo incredibile che emanavano.
“Non hai bisogno di giustificarti, Jin. Siamo entrambi adulti, ne? L’abbiamo fatto perché ci andava. O vuoi forse negarlo?”
Avevi riso di nuovo, guardandomi, forse conscio molto più di me di quanto il tuo sguardo fosse magnetico, e la fossetta che ti bucava la guancia nei tuoi sorrisi mi ipnotizzasse.
Dovevo avere un’aria completamente idiota, immobile, in silenzio, mentre mi lasciavo travolgere da te, vero?
Mentre la mia vita si lasciava travolgere da te.
“Se vuoi, mangia pure qualcosa. Io intanto vado a fare la doccia... se vuoi compagnia, mi trovi lì.”
Ed il tuo sorriso si era ammorbidito, vestendosi di quella malizia che solo uno sguardo innocente come il tuo poteva avere, così tremendamente sensuale.
E mentre ti guardavo sparire dietro alla porta del bagno, lasciata socchiusa come un silenzioso ma nemmeno tanto sottile invito, avevo alzato gli occhi al cielo un’altra volta.
Non sarei mai stato in grado di resisterti, mai, e probabilmente un po’ me ne rendevo conto, mentre ti seguivo come un cagnolino fedele, chiudendo la porta del bagno alle mie spalle, lasciandomi travolgere ancora una volta dal tuo sorriso.

つづく

Mwah, andato anche questa seconda parte. Che ne dite? Fatemi sapere i vostri pareri. *_*
Vi amo (come sempre, quasi tutti) ♥

genre: fluff, jin, pin, genre: angst, fanfiction: italian, pi, rating: nc-17

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