[Fullmetal Alchemist] Pill

May 25, 2010 16:01

Titolo: Pill
Fandom: Fullmetal Alchemist
Personaggi/Pairing: Edward/Alphonse
Rating: R
Wordcount: 1853
Warning: incest, accenni alla masturbazione
Disclaimer: blablabla tutti della Mucca-sama blablabla

Il mio niisan è sempre stato, fin da piccolo, un tipo difficile. Turbolento. Irrequieto. E chi più ne ha più ne metta. Ha sempre avuto questa fastidiosissima abitudine di urlare durante la notte, ammorbato da incubi che non avevano la minima intenzione di lasciarlo stare, almeno da quando ha sette anni. Me li raccontava sempre - e dire che non ha mai avuto una memoria particolarmente breve, quindi non è che capissi mai il bisogno impellente di svegliarmi a metà della notte, fra le tre e le cinque, per raccontarmi tutto. Ma in fondo l’ho sempre amato (al tempo di quell’affezione particolare e purissima che ho celato sotto il sentimento fraterno nei confronti di chi mi vessava come esattamente un fratello fa, e che poi si è evoluta così naturalmente che, in fondo, ma chi se ne fotte di cosa stiamo facendo) e non mi è mai pesato più di tanto. Quel che non mi dava pace era non sapere come tranquillizzarlo, come calmare quel tremore fortissimo; se ne andava da solo, certo, ma intanto stavo malissimo per essere così inutile, per non essere altro che lo scarico in cui vomitare le angosce notturne. Mi sentivo piccolo e inutile, per quanto neppure capissi perché urlasse, perché per lui dormire fosse così difficile e traumatico.
Ho imparato più tardi come mio fratello fosse un ragazzo problematico. Una spugna. Girava nel mondo e ne assorbiva i problemi, non faceva niente per respingerli. È sempre stato aggressivo, a tratti scontroso, amichevole quando voleva; ma non ha mai imparato che può usare le stampelle, quando è troppo pesante procedere. È scemo, fondamentalmente, e ha troppa fiducia in se stesso, tanta da per poter credere di poter affrontare tutto da solo. A me raccontava solo degli incubi, ma con quel fiume tipico di chi semplicemente vuole liberarsi del peso immediatamente, di un peso però solo superficiale, senza radici; lui sapeva il perché dei suoi tormenti onirici, credo lo abbia sempre saputo da che ha preso coscienza di sé, ma si è sempre rifiutato. Da quando ho imparato a pensare da solo, a muovermi autonomamente nel mondo, ho indagato con i miei mezzi e coi miei occhi, e per me capire Ed è terribilmente facile; sono suo fratello, una parte di lui. È come guardarsi l’anima con un lanternino e una lente d’ingrandimento: a volte è difficile per tutta la confusione, ma con un po’ di perseveranza diventa facilissimo.
Ci siamo sempre amati, ed è un gran problema in realtà, visto che siamo fratelli. Abbiamo provato a dirlo, quando eravamo bambini, e abbiamo visto fior fiore di psicologi fino a quando non abbiamo imparato a tacere e fingere. C’è poi stata quella complicata fase di rigetto e rifiuto; da lì Ed ha cominciato a fare gli incubi, perché alla prima consapevolezza di non essere normale (non comincerò i soliti discorsi su cosa sia o meno normale, perché sono inutili, sprecherei fiato, non mi va proprio) si aggiungevano la fuga di nostro padre e la morte di nostra madre, nel corso degli anni - e i rapporti umani che si facevano sempre più difficili, ogni tentativo di fiducia nei confronti del mondo veniva tradito, o deluso (nel suo padre eroe aveva trovato un vigliacco che non sa sostenere la malattia della moglie, professori che promettono di aiutarlo in seguito ai lutti e non sanno trattare con un ragazzino, psicologi che lo trattano come l’ultima feccia del globo, aumentando il suo senso di inettitudine nei confronti  del globo intero e di chi vi cammina sopra, bambini che si impuntano sui suoi difetti fisici facendolo crescere isterico e rabbioso. Non che il mio percorso sia stato meno doloroso e lungo: ma io ho il dono di un equilibrio mentale più stabile - io ho preso dalla mamma, che ha sempre affrontato tutto con raziocinio e fermezza di spirito. Il mio modello di vita.
Ecco, grazie alla sua presenza costante anche dopo la morte, sono riuscito ad evitare che Edward si buttasse giù dal terzo piano. Il mio prenderla ad esempio gli ha salvato la vita.
Ho imparato, piano piano, che ciò che maggiormente tranquillizzava il mio niisan era il contatto fisico: ovviamente non di qualsiasi tipo; solo quello con me. Cominciai a notarlo dopo i suoi diciassette anni, quando cominciò volontariamente a rendere farfugliamenti e ricordi nebulosi i suoi sogni, a metà fra la vergogna di farli ancora alla sua età (lui che si considerava quasi già uomo, lui che sentiva la responsabilità di aiutare la mamma a tirarsi su - lei che sarebbe morta due anni dopo, spenta nell’animo  già da molto tempo - di aiutare me in un qualche modo che ancora oggi debbo capire) e l’ostinazione a vivere ancora lì in mezzo, considerarsi speciale e al contempo inutile, rifugiarsi nel suo mondo rassicurante di incubi sempre uguali. Ad un certo punto cominciò a parlare contro la mia pancia, contro il mio petto, contro il mio collo, mescolando tutto, fiumiciattoli di parole che riuscivo a comprendere neppure per metà. Quando lo abbracciai la prima volta - istinto non ponderato, non l’avevo mai fatto prima, fu come se mi ci accendesse una lampadina; eppure credevo non volesse essere toccato nei suoi deliri di dolore - lo sentì sussultare sotto le mie mani; un  gatto che si mette sulla difensiva, arruffando il pelo, gonfiando la coda. Durò due secondi, si sciolse presto.
Anche fuori dal letto era così: quando lo vedevo arrabbiarsi troppo oltre il limite, lo trascinavo via e lo abbracciavo stretto. Senza parlare. Semplicemente gli infondevo il mio calore, e lui stava meglio. Gli ho evitato almeno un centinaio di risse con energumeni ben più grossi di lui, e anche un paio di sospensioni.
Ha sviluppato una sorta di dipendenza da questo. Sembro essere rimasto il suo unico vero tangibile contatto con la realtà tra tutti quegli altri punti di ancoraggio sparsi nel vuoto, sospesi tra una dimensione e l’altra, tutte inesistenti o svanite come nebbia diradata. Bastava che io lo abbracciassi perché lui sorridesse, timidamente - non perché fosse un tipo schivo, ma perché gli irritava farsi vedere felice, per qualche suo strano ragionamento contorto.
Le prime volte lasciava le braccia lungo il corpo, a farsi stringere passivamente. Poi ha imparato ad avvolgermi completamente, a invadere anche me. Noi e il nostro legame inesprimibile a parole.
Coi quattordici anni sono arrivati i primi tentativi fisici più importanti. La consapevolezza. La durezza dello schiaffo di un sentimento troppo duro e reale e pulsante - la carne che richiama la carne sua gemella.
Quando entrava sotto le mie coperte era perennemente agitato - non solo dai sogni, ma dall’insonnia, dallo stress. Dai crolli nervosi che lo investivano. Aveva perennemente le croste sulle labbra, perché ciò che più gli occupava la giornata era mordersele in continuazione. Lo rimproveravo spesso per questo - mi piacevano le sue labbra intatte, era una sorta di piccolo egoismo - ma lui non mi ascoltava. Anche questo era tipico suo. Mi faceva disperare, e per questo lo amavo sempre di più. Sapevo che ero io quello a cui la sua vita era affidata. Ero speciale.
Si agitava contro di me, mi stringeva spasmodicamente. Nei suoi baci fiutavo una scia di paura sottilissima ma ben esistente. Mi respirava contro affannato, lo sentivo sempre più in me, sempre più fuso a me.
Avere l’effetto della medicina aveva anche un suo volto negativo; assuefatto, cominciai a non fargli più effetto. Solamente le strette non gli bastavano più. Mi sentivo inutile ma non potevo arrendermi: dovevo diventare una droga più potente. (forse davvero ero accecato dall’egoismo, non volevo che nessuno prendesse il mio posto privilegiato. Doveva entrare solo nel mio letto. La carne che esigeva la carne sua gemella.)
Alcune settimane prima dei suoi quindici anni sentii la prima erezione pulsare contro la mia coscia. Non dissi niente, sapevo perfettamente che si sarebbe vergognato - sapevo che stava facendo di tutto per cercare di non farsi notare; fallì, ma lo strinsi e basta, perché ero colpevole anch’io, e non ci si accusa fra assassini. La mia confessione fu così tenue e sottovoce, così profonda e così vera che scoppiammo a piangere assieme, facevamo assorbire i nostri singhiozzi dalla bocca dell’altro.
Eppure lui non riusciva a calmarsi.
Tutto attorno a lui lo assorbiva, lo uccideva, lo ammorbava, era tutto una coltre di tempera nera, di petrolio che non lo faceva respirare. Le parole non gli bastavano, dovevo tornare alla fisicità, solo quella funzionava con lui. Quando mi resi conto che stringerlo al mio petto, unire il battito del mio cuore al suo, non bastava più, tentai di fonderlo con le parole. “Calmo, calmo, niisan…”, gli dicevo piano all’orecchio, “Edward, va tutto bene…”, non sapendo come preferisse essere chiamato, “Calmo, calmo, è tutto a posto, ci sono io, c’è Al con te, va tutto bene, andrà sempre tutto bene…”, ma fu una blanda panacea. Era un approccio errato, seppur efficace in pillole così piccole da essere quasi insignificanti; lui era fisicità. Lo fu sempre, il mio niisan adorato.
Allora, piano, una sera - “Al, Al, Al, Al, sto malissimo, c’era qualcosa, un’ombra, era ai piedi del mio letto, mi fissava, porca puttana gli brillavano gli occhi, erano pieni di sangue, grondavano, Al mi sta per esplodere il cuore, Cristo vieni qui Al sto per morire…” - infilai la mano nei pantaloni del suo pigiama. Senza un senso apparente, perché così mi diceva il corpo - perché era così bello, e lo è sempre, e sempre lo sarà. Ho cominciato a muovere la mano subito, a metà fra il desiderio e la paura folle che mi fermasse e, Dio, mi guardasse, odiandomi come odiava i suoi incubi (i baci possono anche essere normali; ma questo no). Non l’avrei sopportato; invece stava lì, gemeva, si contorceva contro di me e potevo sentirlo pregare nella sua mente, supplicare di venire presto. Una fisicità portata a questo estremo - questo sarebbe servito a guarirlo? Mi sentivo talmente disperavo mentre continuavo che non seppi mai come riuscii a trattenermi dallo scoppiare a piangere. Ciò che desideravo più al mondo era essergli di aiuto.
Lo masturbai fino a quando non soffocò un rantolo roco contro la maglietta del mio pigiama, finché non sentii la mano bagnata del suo orgasmo. Dopo aveva il respiro regolare, una voce rasserenata. Stava lì, aggrappato a me, ma era calmo. Si addormentò quasi subito. Sentii nel petto quel principio di egoismo che di lì a poco mi avrebbe contaminato senza quasi che me ne accorgessi: ero riuscito nel mio intento, avevo marchiato Edward come mio. Io solo sarei riuscito a tranquillizzarlo, ero io la sua medicina. Lui forse sarebbe peggiorato, ma io non avrei dovuto fare altro che trovare nuovi metodi di cura, sarei sempre stato un medico costantemente aggiornato. Sentirlo respirare contro di me, sentire il calore che usciva dalle sue narici, sentire il suo cuore che batteva mi faceva sentire vivo. Addirittura immaginare come il sangue gli fluisse nelle vene e lo riscaldasse - viveva grazie a me, quel sangue era lì grazie a me. Non l’avrei mai abbandonato; non avrei mai potuto. Non avrei mai voluto.
Lui era mio, io ero suo.
La carne che esigerà per sempre la carne sua gemella.


fandom - fullmetal alchemist, anno 2010 - giorno 05, autore - mikamikarin

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