Ep. 7: Mama said - PRIMA PARTE

Sep 20, 2008 01:47

Metallica, “Mama said”




Ta-dah!!! Non ci avevate creduto troppo, eh?? E invece eccomi qua! Dovevo pur farmi perdonare il ritardo degli ultimi aggiornamenti ^^ ...buona lettura, pipol!
[P.S.: è pure uno degli aggiornamenti più lunghi O_o ..poveri voi XD]





Sam aveva riaperto gli occhi verso le sette del mattino, dopo quasi dodici ore di sonno ininterrotto. Seduto in cucina a gustare una fetta della torta ai lamponi preparata dalla nonna il giorno prima, il bambino ripensava ossessivamente alla scena del pomeriggio precedente - la madre che aggrediva Jewel, la sua Jewel - finché un moto di rabbia adulta non gli squassò il petto, lasciandolo senza fiato. Le immagini gli erano tornate alla mente vivide e impietose.




Le parole pronunciate da Grace solo qualche giorno prima col tono acceso di chi non ammette repliche gli rimbombavano nelle orecchie: “Non azzardarti a rivolgere parola a quella banda di delinquenti che sono appena arrivati in paese. Non guardarli nemmeno. Evita qualsiasi contatto, quelli sono ladri e assassini, gente pericolosa - ah, se ci fosse qui tuo padre...” - e qui la bella Grace s’era lasciata inumidire gli occhi dalle lacrime che, di riflesso, le scendevano copiose sulle guance al solo nominare Patrick. Stavolta Sam non s’impietosì. Se ci fosse stato ancora il padre, quel padre gelido e brutale che terrorizzava i suoi amichetti, l’unica cosa che Sammy avrebbe ricevuto da lui sarebbero state due o tre cinghiate old style sul sedere inflitte in assenza della mamma. Rabbrividì. Al diavolo la torta.



Sconvolto, corse in camera precipitandosi verso il mobile in legno in cui la mamma riponeva il guardaroba del piccolo. Sam intendeva scusarsi personalmente, controllare che la sua principessa stesse bene, abbracciarla stretta. Infilò la sua adorata salopette di jeans sopra una maglia qualsiasi e richiuse con forza la cassettiera.




Arrivò all’ingresso senza curarsi di non far rumore. Non lo avrebbero fermato, comunque. Nel silenzio di una casa stranamente addormentata, nonostante il sole fosse già alto da un paio d’ore, Samuel aprì la porta di casa e corse via.




Grace giaceva sul suo letto, girandosi e rigirandosi tra le lenzuola immacolate. Provò a serrare gli occhi più forte, ma inutilmente: l’immagine di Rain continuava a danzarle velenosa davanti, cercando invano di tramutarsi in sogno inenarrabile. Dilaniata da un vago e indistinto senso di colpa, la donna fu presto in piedi e pronta ad espiare, decisa a tentare di seppellire quegli istanti immortali nel più profondo dell’animo. Il fantasma violento del marito sembrava tormentarla ancora, minacciando terribili punizioni.




S’affacciò nel corridoio innaturalmente silenzioso, ricordando di non aver incrociato nessuno dei suoi cari quando, la sera prima, era corsa in camera sua fuggendo da quell’amore ebbro e impossibile, ed ecco spuntare May. Ancora in camicia da notte, sua madre la squadrò affettuosa, la oltrepassò e si sedette in terra, sul tappeto, come una ragazzina. Le fece cenno di sedersi accanto a lei, rassicurante.




“Racconta”, disse pacatamente. E aggiunse con un sorriso, leggendole dentro: “Sai come si dice da queste parti, no? Lancia il tuo cuore in avanti e poi corrigli dietro”. Grace si sciolse. Quella bomba a orologeria di parole, rimorsi, speranze e desideri repressi che era diventata esplose d’un tratto, riversando sulla madre - confidente, amica, alleata da sempre - le incertezze e la confusione che la rendevano schiava. Finalmente, insieme, diedero un nome alle cose. Finalmente qualcuno ebbe il coraggio di dirle a voce alta che Patrick non era l’uomo perfetto che lei avrebbe voluto ricordare e compiangere per il resto dei propri giorni. Finalmente Grace poté autorizzare i suoi sentimenti a sbocciare di nuovo, fresca primavera sul terreno arido di giorni astiosi e disseccati.




Le due donne, madre e figlia, sorelle in indissolubile amicizia, si abbracciarono strette strette. Scherzarono su quanto sarebbe stato felice Sammy all’idea di invitare quella strana bimba a trascorrere il pomeriggio insieme. Pensarono al menu da allestire, un domani, in occasione di un ipotetico pranzo con Rain. Si sorrisero complici, dopo ore di confessioni.




Ma, cercando invano il piccolo Samuel per tutta la casa mentre nonno Neil dormiva ancora, presto furono annientate dall’angoscia. Fu chiaro ad entrambe ciò che doveva essere successo. Prima che Grace, sopraffatta ancora una volta da eventi più grandi e precipitosi di lei, potesse anche solo reagire, però, May aveva già afferrato la cornetta del telefono: sapeva perfettamente a chi chiedere aiuto.

***




Avevano ridacchiato per un po’, all’inizio - di cosa, non era dato capire. Nervosamente, comunque, come ragazzini con la tremarella. Moon era la terapia più efficace che a James avrebbero mai potuto prescrivere. Parlarono per un paio d’ore, camminando lungo le stradine sterrate che girellavano al limitare del paese. Presto gli sembrò di non avere più segreti, con lei. La non comune bellezza che lo aveva tanto colpito non era l’unico pregio di quella giovane straordinaria: Moon aveva infatti il rarissimo dono di saper ascoltare. Nonostante l’apparente richiesta d’aiuto venisse da lei, infatti, che con quel “Portami via” l’aveva steso, presto i ruoli s’erano invertiti ed era stato James che, spinto dal silenzio invitante di lei, aveva preso a raccontare.




Avevano ripercorso di tutto, assieme: dagli anni del college, passati a sentirsi un figlio di papà intellettuale e un po’ nerd all’ombra del fratello cool che gli soffiava le ragazze sotto il naso, al periodo più recente della sua vita, in cui un lavoro soddisfacente e amatissimo non riusciva a colmare il vuoto affettivo lasciato dai genitori prematuramente scomparsi e dagli attriti continui con Karl, preda silenziosa di sensi di colpa letali.




Finché lei non lo aveva abbracciato, d’improvviso. Senza nessun doppio fine, peraltro: era stato un accostarsi spontaneo e protettivo tra due mondi abissalmente distanti eppure contenuti nello stesso sentiero, sotto lo stesso cielo, sulla stessa fetta di terra - per qualche giorno o qualche secolo, chissà.



Moon gli aveva allora raccontato di sé, colpita da tanta vicinanza ma sempre un po’ distante, imprendibile, altera. Aveva riassunto in fretta: una madre perennemente assente, affascinante gatta sfuggente e ballerina che passava da un uomo all’altro e di materno non aveva nulla, era stata felicemente sostituita dalla cara Aster, che aveva accolto lei e i suoi fratelli con affetto infinito.




Moon non amava ripensare alla sua infanzia, anni in cui il vorticoso turbinare delle gonne setose e dei profumi speziati della madre aveva segnato il passo del suo abbandono portandola a questa sorta di bulimia affettiva da mangiauomini. Non aveva presente neanche la voce di lei, ormai. Ne ricordava invece, incancellabili, le assenze lunghe settimane, nelle quali lei e Emi divorate dall’ansia coccolavano assieme il piccolo Claude, che per culla aveva un cassetto. “Tutta scena, la mia”, concluse. “Mi sento una carogna per quello che sto facendo a mia sorella. E’ innamorata persa di Bal, il tipo che hai intravisto al campo, e io invece non faccio che esasperarla per puro sfizio. Quando faccio così mi detesto. Non so far altro che reclamare attenzione, sembra che viva solo per questo”, aggiunse con un sospiro e un insolito rossore sul viso.




James fece per avvicinarsi, ma lei indietreggiò all’improvviso. “Si sta facendo tardi, rischiamo che Aster spedisca quel bestione di Bal a cercarmi. E poi, non vorrei essere nei tuoi panni se vi incontraste un’altra volta... E’ un po’ manesco, a volte”, tentò di scherzare la ragazza, evidentemente imbarazzata. James non riusciva del tutto a capire, ma la lasciò andare, rispettoso. “Spero di rivederti presto. E’ da un sacco di tempo che non riuscivo ad aprirmi così con qualcuno”, sussurrò. Lei lo salutò con un sorriso antico e sparì.




Karl fu svegliato dal suono della chiave che girava nella toppa. Ritrovandosi ancora in quel salotto incartapecorito, con le ossa ammaccate dal divano sfondato su cui aveva sonnecchiato poco e male, balzò verso James deciso a parlare una volta per tutte. Ma il fratello, contrariamente ad ogni sua previsione, non si negò. Anzi, lo circondò con un braccio, raggiante.




“Che c’è, Karl? Incubi? Io esco proprio adesso da un sogno meraviglioso, ma non mi pare di averci capito molto. Ho un casino in testa...”, scherzò il bruno, ancora disorientato dalla bella gitana, e aggiunse: “Davvero, che hai? Sembri sconvolto”. Per tutta risposta, Karl - l’inossidabile Karl, il superficiale Karl, lo sbruffone rubacuori party-hopper Karl - scoppiò in lacrime.




Davanti ad un James stupefatto, il biondo istruttore di nuoto sfogò anni di repressione psicologica in un batter d’occhio, dai sensi di colpa che si portava appresso dal maledetto incidente fino all’inedita incapacità di gestire una relazione stabile, o quantomeno allacciarne una. Poi, dopo un fiume di parole confuse e pasticciate in cui James sentì la parola Kim ricorrere spesso, Karl attese in un silenzio imbarazzato che il fratello lo deridesse, finalmente in posizione di schiacciante superiorità. Questo non avvenne mai.




James, con una zampata da orso piena di affetto e comprensione, si dedicò a lui come non aveva mai fatto. Le teste cozzarono, vicine come mai. “Sai cosa disse mamma una volta, parlando di te?”, domandò James con tenerezza, mentre a Karl brillavano di speranza gli occhi chiari. “All’epoca non capii - o non volli capire. Oggi me ne rendo conto. Mi disse che esiste un proverbio, in questa bella Arizona sabbiosa, che io avrei dovuto tenere a mente tutti i giorni della mia vita: prima di giudicare un uomo, cammina per tre lune nelle sue scarpe. Disse che il nostro peggior nemico, a volte, siamo noi stessi. Finalmente... finalmente, fratellino, eccoti qua. Senza maschere”.

***




Vivica e Juno non avevano mai avuto un cattivo rapporto, rifletteva la ragazza fissando il suo piatto. Neanche poteva dirsi che ne avessero mai avuto uno buono, però. Semplicemente, non c’era stato, mediato com’era da una paghetta extralusso da cliché. Essere l’unica figlia di una coppia di VIP a tutti gli effetti aveva i suoi indubbi pregi, niente da dire: alla ragazzina non era mai mancato nulla, circondata com’era da persone pronte a soddisfarne ogni capriccio sin dalla più tenera età. Ma di ben altro Vivi aveva poi capito d’avere un gran bisogno: crescere con tate sempre diverse, cambiare amici e scuola in continuazione, sentire i suoi genitori più vicini al telefono che di persona non aveva lasciato il suo cuore bambino senza ferite. I soldi, tanto per essere banali, sicuramente aiutavano a fare la felicità, ma da soli non riuscivano a crearla dal nulla. A volte Vivi si sorprendeva a detestarli. Così il loro rapporto madre-figlia non aveva avuto connotazioni negative, ma nemmeno positive: semplicemente, non s’era potuto sviluppare granché. Più intensa era stata l’amicizia tra Vivi e la sua prima carta di credito, per dire.



Ora quindi, al sentirsi Juno che di punto in bianco tentava di percorrere con lei la strada della complicità, la sedicenne rimase spiazzata. Non infastidita, sia chiaro: solo spiazzata. Chinò il capo, valutando la situazione e l’imminente tempesta. Fino a qualche giorno prima aveva odiato i suoi genitori per l’ennesimo spostamento fuori programma, per di più nel bel mezzo del nulla, ma ora - presasi la sua vendetta a colpi di tintura per capelli e fughe in minigonna - Vivica non intendeva peggiorare le cose. Sapeva bene quale sarebbe stato il punto di vista di suo padre su Claude. Di sua madre invece non riusciva del tutto prevedere la reazione, ma probabilmente tutto questo zucchero era una mera facciata di comodo.




“Allora, tesorino. Stanotte, ad un orario ridicolo, ti ho beccata a rientrare quatta quatta senza riuscire a ricordare nemmeno di averti mai dato il permesso di uscire. Me la spieghi, questa? E poi, se con Chris è finita, quel look supersexy per chi era?”, attaccò a recitare Juno con un sorriso smagliante da pubblicità del dentifricio. Questo sembrava a Vivica, di assistere ad uno show: il ruolo che sua madre stava ricoprendo era quello della tipica figura materna con un occhio attento ai gggiovani, comprensiva e disponibile fino a prova contraria o a cambio di copione. L’adolescente decise di stare al gioco. “Sai mamma, ho conosciuto questo ragazzo...”, iniziò allora con tutto l’armamentario di vocetta tremula e rossori.




La maschera di Juno crollò a terra. “Quando? Di chi parli? Come hai fatto a conoscerlo, se la prima volta che hai messo il naso fuori di qui è stata proprio stanotte? Ti dispiace se chiamo un attimo tuo padre? Vuoi essere più chiara...”, fece la madre tutto d’un fiato, aggiungendo solo un “...tesoro, per favore?” sibilato tra i denti. Vivi sorrise tristemente a se stessa. “Ed ecco a voi, ladies and gentlemen, la vera Juno Hudson LaMar. Ci siamo”, pensò, arrestandosi con la forchetta a mezz’aria.

Seconda parte subito qui!

tsegi, sims, ts2

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