Ep. 6: Waiting for the rain to fall - PRIMA PARTE

Sep 14, 2008 11:27


Chris Isaak, “Waiting for the rain to fall”






Arieccomi, nice people! Sentita la mia mancanza?? O non ve n'è fregato di meno? XD
Ebbene, nonostante qui vada tutto un po' uno schifo, eccomi a proseguire la storiuzza! Una promessa è una promessa, mica posso lasciarvi tutti così appesi... Oggi, sesto capitolo, troverete alcune storiche attese finite al meglio e altre finite al peggio, così è la vita: il resto, sotto il cut!





Rain entrò nella stanza, titubante eppure in qualche modo fermo e sicuro. Lei si mise a sedere, fissando la tazza di tisana fumante per non dover guardare quegli occhi fondi. Poi vide la tazza cadere in terra, sfuggita alla presa incerta di lui, e qualcosa dentro di sé si ruppe.





Il mare di parole che Rain aveva rinunciato a pronunciare in sua presenza, preferendo continuare a guardarla di sottecchi con tutto l’amore disperato di cui era capace, si espresse in un’unica frase antica quanto il mondo, eppure sempre nuova per ogni orecchio di donna che si sorprenda a volerla ascoltare. “Ti amo, Grace”. Mentre lei capitolava sul letto, incapace di proferire parola in quello stravolgimento di situazioni, lui si avvicinò e le afferrò le mani. Tutto accadde in pochi istanti immortali.





Fu un abbraccio.





Grace chiuse gli occhi, sorpresa. Non seppe mai con esattezza chi dei due avesse alzato la testa per primo, chi avesse dimenticato ogni ragione, chi si fosse completamente abbandonato alla dolce follia lucida che sembrava così ineluttabile in quel momento. Entrambi, probabilmente.





Il bacio fu la morte e la rinascita della sua persona, sorta a nuova luce in quell’attimo di abbandono inatteso e sconvolgente. Si travolsero come due ragazzini famelici, persi l’uno nella scoperta dell’altro e incapaci di sospettare le ineffabili croci e delizie di quanto sembrava stare accadendo tanto rapidamente tra loro. Sembrava si conoscessero da sempre. Sembrava non si fossero conosciuti mai.




La tazza continuava il suo viaggio per il pavimento, ignorata. Non che Grace vi avesse minimamente fatto caso. Lui le sorrise per un attimo, a rassicurarla. Le sembrava non più una minaccia pretestuosa, ma una meta a lungo cercata: e Grace ricordava all’improvviso, nel fiume in piena di emozioni che la stavano travolgendo, quanto l’avesse colpita l’intensità di quegli occhi scuri al loro primo incontro.




Tutto le scorreva davanti come una pellicola sbiadita eppure vivida, mentre si dava in pasto alla meno probabile follia. Ricordava le volte in cui avrebbe desiderato con tutta l’anima che il ragazzo si fermasse a cena, nonostante Patrick sembrasse solo volerlo sfruttare come scimmione tuttofare e non elevarlo al rango di amico per nessuna ragione al mondo. A lei sembrava così triste la vita solitaria di quel fuoricasta che l’avrebbe raccolto come si fa con un micino da una scatola di cartone abbandonata lungo il marciapiede.




Il cuore era un martello impazzito contro le costole. La lucidità era altrove. Soccombette sotto quell’insistenza impossibile da non condividere. E intanto ricordava ancora. Ricordava quando, passato a prendere i documenti che Patrick gli aveva richiesto dall’ufficio, Rain s’era presentato alla porta di casa Donovan imbarazzato e titubante, mentre lei e gli anziani genitori insistevano nell’offrirgli un the freddo in quell’ennesima giornata di afa sabbiosa. Ricordava il rifiuto di lui. Ricordava di aver pensato con dolore che lui la detestasse cordialmente. Ricordava di averne parlato a Patrick, che inferocito aveva frainteso e pensato che lei e lui... che tra loro ci fosse...




Grace, lacrime a fiotti sulle guance e un senso di colpa smisurato, arrestò di botto il corso dei pensieri e le labbra affamate del compagno, alzandosi di scatto. Rain non capì del tutto, fraintendendo. “Perdonami, non avrei mai dovuto, non accadrà più, non so cosa mi sia preso”, biascicò il ragazzo nella confusione emotiva e reale che avevano creato in quella stanza fino a un minuto prima silente e tranquilla. “No, aspetta, non è colpa tua - è solo che io... Non posso, capisci? Lui - lui...”, balbettò la povera, sconclusionata Grace senza alcuna possibilità di spiegarsi compiutamente.




Corse via in lacrime lasciando la stanza, la casa, il cuore di Rain rovesciato come la tazza fumante di tisana ormai sparsa su tutto il pavimento.

***




Che ansia. Mentre aspettava che Kim si presentasse, guardando spazientito l’orologio ogni trenta secondi e chiedendosi per l’ennesima volta se non avesse esagerato col profumo, Karl rifletteva sul caso straordinario che li aveva fatti incontrare/scontrare. Più il bel biondino ricostruiva la dinamica dei fatti, più si convinceva che finalmente le leggi del karma avessero iniziato a funzionare anche per lui. Se lo meritava, cavolo. Aveva accettato il trasferimento a Tsegi senza drammi eccessivi, piegandosi alla necessità e assecondando i deliri bucolici del fratello. L’aveva aiutato perfino a ridipingere le pareti della stalla. Si era affezionato ai cavalli e ai cani come mai avrebbe creduto possibile. Certo, il dialogo con James era ancora un precario miraggio e la depressione se lo stava mangiando vivo, ma tutto sommato la sua inconsueta predisposizione al sacrificio doveva aver commosso qualcuno, lassù tra le alte sfere, pensò sorridendo tristemente. Poi però il flusso familiare di immagini e suoni iniziò a riempirgli la testa, letale - sentì gli occhi bruciare.




Sette anni prima, cinque e un quarto di un pomeriggio d’inferno. I passi arrabbiati di Pa’ in garage, verso Ma che tenta di placarlo dopo l’ultimo - l’ennesimo - litigio sui fatti triti e ritriti della vita da bamboccione del loro secondogenito biondo, abbronzato e nullafacente. Le valigie pesanti pronte per essere caricate in macchina, bagaglio di sogni racchiuso nei biglietti d’aereo per Aruba regalati dai colleghi per la pensione. Se solo li avesse abbracciati prima della loro partenza, continuavano a rimproverargli gli occhi di James... La porta sbattuta, la sgommata verso l’aeroporto. Le mani di Pa’ che tremavano visibilmente.

Forse, nello scontro devastante con quel furgone beige mentre prendevano l’uscita 149, i signori McKenzie non avevano sofferto.




Il silenzio. La telefonata formale e aliena, la corsa in auto. L’incredulità. Il dolore lancinante. I lampeggianti di una pattuglia inutile, l’ambulanza senza senso. I due sacchi neri da obitorio, ineluttabili e impossibili da accettare. Le grida.




Il veleno sputato da James alla veglia funebre nel loft extralusso sulla Camelback Road. La convivenza progressivamente sempre meno tollerabile. L’astio, gli insulti. Gli schiaffi. L’allontanamento forzato e inevitabile dagli occhi di quel fratello ombroso che continuava a rimandargli contro l’immagine di due amatissimi corpi straziati tra le lamiere.




Non riuscì a ricacciare indietro le lacrime. “Dove cavolo s’è cacciata ’sta tipa? Sto andando in paranoia”, si disse tentando inutilmente di ricomporsi. Dopo quarantacinque minuti di attesa, furioso principalmente con se stesso per essersi fatto dare una buca clamorosa dalla bella sconosciuta e aver ceduto a quella malinconia strisciante da depresso inguaribile e condannato, il giovane scrollò le spalle e tornò alla fattoria, detestandosi.




Scoprendo che suo fratello non si vedeva da nessuna parte, nonostante per una volta avvertisse un disperato bisogno di parlarci, Karl si mise ad attenderlo sul divano malconcio che ammuffiva in salotto e, ancora scosso, si assopì.




Che fine aveva fatto James? Beh, il timido architetto s'era avviato verso il campo nomadi con tutta l’intenzione di rimediare alla figuraccia fatta con Moon. Aveva deciso di rinunciare a qualsiasi pretesto e andare dall’adorabile streghetta col coraggio in tasca, senza falsi pudori, per invitarla a fare un giro in quel buco di paese. Arrivato in vista dei carrozzoni colorati, però, sentì il suono celestiale della voce di lei ridacchiare complice con qualcuno. Poco dignitosamente, decise di sbirciare. Il cuore gli mancò un battito quando la vide flirtare apertamente con un affascinante colosso rastafari dal dna assolutamente multietnico, contro il quale sapeva di non avere alcun tipo di chance.




Dandosi dell’illuso, decise di tornare sui propri passi e dimenticare la moretta prima di scoprirsi troppo coinvolto, quando sentì il suono distinto di uno schiaffo attraversare l’aria. Voltandosi, vide una bellezza molto simile alla sua Moon azzuffarsi con lei come se ne andasse della propria vita, mentre il moro restava a fissarle stupito e apparentemente indeciso sul da farsi.




Il tutto durò una manciata di secondi: presto l’altra ragazza, quella che James non conosceva ma che sembrava aver dato inizio alla lite, si allontanò piangendo col colosso al seguito, e Moon si guardò intorno imbarazzata. Se ne stava lì, immobile, fissa, spaesata - poi posò lo sguardo su di lui. “Non intendevo spiare, io...”, tentò di articolare James.




“E questo chi sarebbe? Lo conosci?”, fece il bel gitano, voltandosi con intenzioni bellicose. “Tranquillo Bal, ci penso io. Piuttosto, corri da Emi e chiaritevi una volta per tutte: io sarò pure una stronza, ma la colpa è più tua che mia. E tu lo sai bene”, disse in fretta la bella gitana con un pizzico d’irritazione e l’espressione imbronciata. Poi, voltandosi verso l’intruso mentre l’amico si allontanava alla ricerca di Emerald, inchiodò James con gli occhi liquidi e due parole devastanti: “Portami via”.

***




Svegliandosi a mezzogiorno passato dopo quella magica nottata di follia, che le tornava alla mente poco a poco mentre constatava che il calore di quel deserto s’era infiltrato perfino nelle stanze climatizzate di quella fredda prigione di lusso, Vivica rivide in un lampo il bel faccino del suo salvatore. Non vedeva l’ora di incontrarlo di nuovo. Sarebbe fuggita con lui in un baleno, se solo gliel’avesse chiesto, per non guardarsi indietro mai più. Bambolina tanto viziata e annoiata da non rendersi conto di cosa avrebbe perso nel cambio? Forse. Ma l’incosciente leggerezza dei suoi meravigliosi sedici anni le assicurava che sì, il colpo di fulmine era più che vivo e lottava insieme a lei. Per cos’altro vale la pena rischiare, a questo mondo?




Mentre si avviava verso il suo piccolo e confortevole bagno patinato per affondare in una vasca che le lavasse via tensioni e disorientamento dal cervellino appena acceso, Vivi si sentì chiamare. “Sono viva e vegeta, purtroppo! Mi do una lavata e scendo a mangiare, non rompete”, gridò abbastanza forte perché i genitori la sentissero.




Poi, sprofondando nella schiuma al cocco che aveva versato nell’invitante acqua tiepida, si lasciò cullare dal tepore e sprofondò nuovamente nei dolci ricordi risalenti a poche ore prima, fino ad assopirsi nuovamente.




“Allora, signorina, devo prendere un appuntamento tramite segretaria per parlare con te?”. La voce di sua madre la riscosse. Era passata quasi un’ora. “Su, esci di qui o ti spunteranno le branchie”, fece Juno con tono spiccio. Vivica, ancora scombussolata, ubbidì. “Vieni a mangiare qualcosa, adesso. Otto ore di sonno sono più che sufficienti per una giovane adulta, non cercarti altri alibi”, ammiccò la madre. Scendendo le scale dietro di lei con addosso il morbido accappatoio preferito, Vivi non realizzò immediatamente il reale senso di quelle parole.




Mentre affrontava i suoi adorati waffles sotto lo sguardo un po’ beffardo di quella mamma da fotoromanzo, la verità la folgorò: Juno sapeva precisamente quante ore avesse dormito sua figlia, quindi era chiaramente a conoscenza del fatto che la sventata Vivi era andata a nanna dopo le quattro di quel mattino stesso, e non alle dieci della sera precedente. La ragazzina deglutì vistosamente, alzando gli occhi con malcelato timore sulla madre. Quella fece una risatina di sufficienza: “Allora, piccola delinquente, quando avevi intenzione di dirmelo?”.

Seconda parte here, as alwalys ^^

tsegi, sims, ts2

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