Titolo: Scent of varnish
Fandom: The hobbit - An unexpected journey
Personaggi: Bilbo Baggins, Thorin Oakenshield, più o meno tutti.
Rating: PG13 (capitolo)
Avvertimenti: modern!AU
Conteggio parole: 4116
Riassunto: “Thorin?” Bilbo sente un verso - sembra quasi un grugnito, e subito gli si accappona la pelle. Bofur gli fa un cenno con la mano, sorridendogli, ed apre la porta. “Ti ho portato il signor Baggins, il tirocinante.”
Bofur gli fa spazio, e lui entra.
Sente distintamente il cuore cadergli nella pancia.
Note: Tutto ciò è molto storto, molto ansiogeno e profondamente noioso. Credetemi. Davvero. Non leggete. Soprattutto se sperate che io finisca presto - no perché sono undici capitoli programmati, e io davvero non so come farò, e voi mi odierete, e quindi non leggete.
Tutto ciò - perché amo ripetermi - è nato per colpa di un
trailer, di
silverju che mi ha fornito abbastanza materiale da rendere questo delirio vagamente fattibile, e della
queenseptienna e della
fata_verde che hanno regolarmente fatto da supporter morali - con minacce di morte e quant'altro, ma questa è un'altra storia. Questa storia parla di un mobilificio. Un mobilificio di famiglia. Un mobilificio dove son tutti uomini e tutti felicemente felici. Tranne Thorin. Che è un dito in culo.
E Bilbo, che pare essere diventato metaforicamente il dito in culo di Thorin. O il culo di Thorin. Insomma, avete capito. Se leggete, non voglio essere responsabile di NULLA. ;_; *scappa in Uganda*
Capita anche che sia una modern Au che capita a fagiolo per il cow-t.
0.
A Bilbo piace dormire.
Non ama particolarmente i pisolini pomeridiani, li trova destabilizzanti e li fa soltanto quando si sente davvero troppo stanco per riuscire ad arrivare senza alla fine della giornata. Ma adora stare nel letto a sognare di poltrire, come se nove ore di sonno per notte non fossero sufficienti - quando può permetterselo, e in questo periodo di limbo tra la ricerca di un lavoro decente e la nullafacenza si può dire che possa concedersi uno strappo alla regola anche troppo spesso.
Ma tornando al principio, a Bilbo piace dormire.
Per questo, quando il cellulare comincia a vibrare sul suo comodino, la sua bocca si apre per far uscire, in ordine: uno sbadiglio, un grugnito esasperato e un poco delicato ”Che diavolo-“. Allunga la mano sul mobile, facendo cadere a terra la bottiglietta dell’acqua e rischiando di far fare la stessa fine anche all’abat-jour, prima di riuscire a trovare il telefono e aprire un occhio per controllare chi lo stia chiamando alle… nove e quarantadue, orario assolutamente improponibile.
È un numero che non conosce; è quasi tentato di ignorare la chiamata e girarsi verso il muro per riprendere a sonnecchiare, ma la curiosità vince sul sonno.
Di certo, a quest’ora, non sarà un maniaco sessuale in cerca di ragazze stupide e incapaci di sbattere il telefono in faccia a uno sconosciuto.
“P-pronto?” balbetta, leccandosi le labbra.
Dieci secondi dopo, è seduto sul letto con lo sguardo stranito e la bocca semiaperta.
A quanto pare, i giorni di pacchia sono finiti.
*
Non se lo aspettava. Non se lo aspettava proprio.
Aveva mandato la richiesta di lavoro a quell’azienda senza troppe speranze, e non per chissà quali ragioni, ma solo perché ultimamente pare che tutte le aziende a cui è - era - interessato siano al completo con il personale, oppure non abbiano intenzione di passare otto ore al giorno stando dietro un pivello e perdendo chissà quanti soldi. Quelli invece, dopo nemmeno tre giorni, chiamano e gli dicono che da lunedì può cominciare a lavorare.
Gratis, a quanto pare. Ma fa curriculum, o così cerca di giustificare quello che, probabilmente, sarà solo tempo perso.
Sua madre userebbe sicuramente la parola curriculum, per convincerlo che sta facendo la cosa giusta.
Sua madre non è mai stata tanto fortunata con le previsioni, però.
Sospira, versandosi una bella tazza di tè nero, prima di andare a recuperare una scatola di biscottini danesi presi al discount a pochi dollari. Ha bisogno di racimolare le idee, di farsi una bella doccia e uscire a comprare qualcosa di decente da mettersi - si sentirà sicuramente a disagio con un completo formale, ma sia mai che un Baggins vada a lavoro con dei pantaloni slavati e una t-shirt con sopra Hawkeye e la sua tutina viola. Suo padre lo prenderebbe per le orecchie (e anche lui lo farebbe, in tutta onestà).
Sorseggia il tè guardando la televisione - danno davvero dei programmi pessimi, a quell’ora; è da una vita che non vede qualcosa alla tv prima di mezzogiorno - per far poi slittare lo sguardo al calendario, ventitre marzo duemiladodici. Tre giorni di libertà - due e mezzo, se proprio vogliamo essere precisi - e poi dovrà dire addio al suo letto ogni mattina a un orario improponibile e cominciare a comportarsi come un vero uomo. Non che ne abbia granché voglia, comunque.
Forse dovrebbe chiamare casa. Così, giusto per informare della notizia. Ha la vaga impressione che la sovreccitazione prenderebbe il sopravvento - ha ancora pessimi ricordi del suo diploma, della prima laurea, del menarca della sua povera cugina Primula - e sinceramente non è pronto a sentire il padre strillare al telefono, ma deve, o almeno così crede.
Dopo il tè, però.
*
“Mamma?”
Bilbo gioca innervosito col filo, mentre arriccia il naso. Vorrebbe già chiudere, ma sua madre l’ha salutato con una voce così squillante che, conoscendosi, finirebbe col sentirsi in colpa per tutto il resto della giornata.
“Bilbo!”
“Sì, mamma, ciao, mamma. Senti, sono abbastanza di-“
“Che ci fai già in piedi? Stai male? Hai bisogno che venga a Auckland?”
Sospira, guardando il soffitto. Cominciamo bene. “No mamma, sto bene. Dicevo, sono abbastanza di fretta; ti ho chiamato per dirti che mi hanno chiamato da quel mobilificio, te lo ricordi sì? Comincio lunedì.”
Due secondi di silenzio. Un respiro profondo dall’altra parte del telefono e Bilbo sospira, arreso. “Lunedì tesoro? Aspetta un momento. Bungo, Bilbo ha trovato lavoro!” sente urlare, e lui non può evitare di coprirsi il viso con la mano libera e sospirare per l’ennesima volta.
“Mamma, nemmeno mi pagano.”
“Non importa Bilbo. È lavoro anche quello. Esperienza. Curriculum.”
Per l’appunto.
“Lo so mamma, lo so. Ma non-“ sospira e scuote la testa, arrendendosi prima di poter dire qualcos’altro. “Ma è solo un tirocinio. Non è detto che poi mi tengano.”
“Abbi fiducia, non ti ho cresciuto per arrenderti al primo accenno di crisi.”
“Lo so, lo so.” Bilbo guarda sconsolato la televisione, come se Grant Bowler potesse poi dargli qualche consolazione. “Ora devo andare mamma. Ci sentiamo presto.”
“Certo, tesoro, vai e non agitarti troppo. Andrà bene.”
“Lo so. Grazie. Ciao mamma, ciao.”
Riattacca, tenendo la mano sulla cornetta ancora per un po’.
Sente il panico pizzicargli la punta delle dita. Come ci si presenta per il primo giorno di lavoro in un’azienda? Non ha idea nemmeno di come muoversi. Guarda di nuovo verso la televisione in cerca di qualche suggerimento, ma la pubblicità lo spiazza - troppo movimento, nessuno che lo guardi dritto negli occhi e, soprattutto, troppi spot per ragazze e donne alle prese coi chili di troppo. Niente che faccia al caso suo, anche perché a lui i suoi chili di troppo piacciono.
Arraffa un biscottino, mentre si dirige verso il bagno per darsi una lavata. Qualcosa si inventerà.
*
Adora il sole di marzo. Non fa troppo caldo, perché le temperature sono mitigate dal vento fresco che proviene dal mare, e non può che essere un bene, considerando quanto odi sudare. Sono quelle belle giornate in cui, alla fine, gli dispiace meno di quanto creda alzare il culo dal letto prima di mezzogiorno, perché il sole gli ricarica un po’ le batterie - e sono gli ultimi mesi di luce, ovvero gli ultimi giorni in cui potrà godersela, per cui tanto vale approfittarne. Cammina guardandosi intorno, alla ricerca di qualcosa di dignitoso e indossabile per il suo primo giorno di lavoro. Ha sempre odiato gli abiti troppo formali, ma non può osare presentarsi in azienda come veste di solito, perché probabilmente gli riderebbero in faccia - non a torto, gli duole ammettere.
Si sofferma davanti alla vetrina di George Harrison, pensando che non starebbe male in un completo del genere e che quasi potrebbe comprarlo, se non significasse spendere in un colpo solo i soldi di tre mesi d’affitto.
Sbuffa, andando avanti. Alla fine ripiega per un paio di camicie da Three Wise Men, una giacca blu notte rimediata in centro e un paio di scarpe prese per puro piacere personale. A metà giornata si ritrova a mangiare fuori casa, parlando a un povero hamburger mangiucchiato per metà mentre agita una mano libera nell’aria, accaparrandosi gli sguardi incuriositi e un po’ spaventati di parecchie persone all’interno del locale.
“Mi cacceranno subito.” sbotta, come se la colpa fosse del panino. Il fatto che non gli risponda, che non lo rassicuri, gli dà abbastanza sui nervi. Si gratta la testa, chiedendosi se non sia il caso di darsi una calmata.
Il problema è che conosce la risposta, ma è tutto molto più facile a dirsi che a farsi.
Vorrebbe essere una persona più seria, più responsabile, più spavalda. Vorrebbe andare in quel posto mostrandosi sicuro e capace di conquistare un contratto a tempo indeterminato, invece che andare in una tana di lupi affamati mostrandosi per quello che è, un povero idiota che vorrebbe semplicemente avere un posto fisso e non preoccuparsi di null’altro che il suo piccolo stipendio e i mille modi per spenderlo.
Finisce di mangiare, trangugiando mezzo litro di coca cola e sentendosi finalmente sazio. Una passeggiata fino a casa, e poi qualcosa da fare troverà, pensa mentre tira fuori il cellulare e comincia a mandare qualche messaggio.
Con tutto il lavoro che gli faranno fare, è sicuro che il prossimo weekend la sua voglia di andare in giro a divertirsi sarà pari a zero.
*
Il Boogie Wonderland è strapieno. Come al solito. Non che gli importi poi tanto, finché ha in mano un bicchiere di gin tonic e può non pensare a cosa lo aspetterà da lì a una trentina di ore. È seduto al bancone del bar, mentre suo cugino Frodo cerca, senza successo, di far colpo su un gruppo di ragazzine al centro della pista - riesce a vedere le sue braccia alzate, a riconoscerle da quei braccialetti assurdi, rosa e verde fluorescenti. Bilbo ride, scuotendo la testa, e manda giù quel che resta della sua bevanda, ammiccando al barista perché gliene porti un altro.
“Non dovresti abusarne, Bilbo. Lo sai che effetto ti fa.”
“Fatti gli affari tuoi, Otto,” sbotta, storcendo il naso. “tu non puoi capire.”
“Cosa dovrei capire?” domanda divertito il ragazzo, mentre gli riempie di nuovo il bicchiere. Bilbo non gli risponde. Si limita a storcere il naso un’altra volta e a tornare a guardare la pista, chiedendosi perché non possa lavorare lui in una discoteca e perdersi tra bottiglie d’alcool e sederi di belle ragazze fasciati in gonne attillate. Sbuffa sul bicchiere, prima di mandare giù tutto a grandi sorsi. Frodo non sembra aver intenzione di raggiungerlo presto.
Bere quello schifo non lo aiuta a non pensare, comunque. L’ansia lo sta mangiando da dentro come lui a pranzo mangiava quel povero hamburger, e sente che non ha nessuna pietà di lui. Dannato karma. E il problema più grande è che sarà l’intera azienda che se lo mangerà, perché quando entrerà negli uffici, tutti lo guarderanno male e lo indicheranno ridendo malevolmente di lui.
Non vuole andare. Ha solo voglia di rotolarsi nel letto e frignare come se avesse cinque anni. Servisse poi a qualcosa, al diavolo.
Finisce il secondo bicchiere che non ha più voglia di stare lì. Prende la giacca e si butta in mezzo alla pista, afferrando suo cugino per il bavero della camicia prima che riesca anche solo a dire il suo nome a una povera sfortunata che lo guardava col terrore negli occhi e probabilmente, da oggi, penserà a Bilbo come al suo salvatore ignoto.
*
Lunedì arriva troppo presto.
La sveglia suona alle sei e quarantacinque interrompendo un sogno inquietante e facendolo saltare giù dal letto come una molla, lasciandogli sullo stomaco una poco vaga sensazione di nausea. Sbuffando sonoramente, si trascina in bagno, raccattando nel tragitto il completo che con tanta cura ha lasciato sulla sedia la sera prima. Abbandona la roba sul cestino e riversa la sua disperazione sul water, affondando il viso tra le mani. Non ce la può fare. Adesso esce fuori dal bagno, prende il telefono e chiama in azienda inventandosi un cataclisma naturale che riguarda unicamente i quaranta metri quadri del suo appartamento, così può tornare a letto e svegliarsi alle due fregandosene altamente di qualunque cosa.
Sospira sconfortato, sapendo più che bene di non poterlo fare. Odia la leggera apprensione che lo attanaglia ogni volta che esce fuori dalla sua routine - apprensione più liberamente interpretabile come pigrizia acuta in realtà - ma non può davvero stare chiuso in casa a non fare niente per sempre, no?
No?
Si alza dalla tazza a malincuore, tirando lo sciacquone e passandosi la mano sul viso. Voltandosi verso lo specchio vede il volto di un uomo disperato, e quasi vorrebbe allungare la mano sul se stesso riflesso e darsi un’amorevole pacca sulla spalla, ma si limita a darsela da solo, sentendosi un po’ un idiota.
Lava il viso, i denti, si passa la mano sul mento per vedere se ha qualche accenno di barba da eliminare - divertente che in ventiquattro anni non abbia mai visto che uno o due peli miseri da quelle parti. Bah, tanto meglio. Conoscendosi, sarebbe stato capace di tagliarsi e insomma, è sempre un motivo in meno per essere preso per i fondelli. Si profuma peggio di un damerino, ogni bottone al suo posto è un battito di cuore all’altezza dello stomaco. Si sente quasi peggio di come s’è sentito ogni volta che ha dato un esame, ed è tutto dire. I capelli, intanto, sembrano non voler collaborare. Avrebbe dovuto tagliarli, ma ormai è tardi, e insomma, in fondo a lui piacciono i suoi capelli, chi se ne frega se non piacciono agli altri.
Butta un occhio all’orologio. Le sette e cinque.
Lancia le mutande dentro il cestino che, ora che è aperto, sta praticamente urlandogli di fare una lavatrice, e lui sbotta “Quando rientro, quando rientro!” tornando a guardarsi allo specchio. Scosta una ciocca bionda da davanti agli occhi, arricciando il naso. La ciocca ritorna esattamente dov’era pochi istanti fa, e Bilbo si arrende. Poi decide che i suoi attributi hanno preso abbastanza aria e finisce di vestirsi, cominciando a far ricorso alla sua fede per sperare che il karma lasci perdere la sua ansia e faccia sì che le cose girino per il verso giusto.
Esce dal bagno in punta di piedi, correndo verso la cucina per accendere il tostapane e lasciare due fette a scaldare, per poi scattare in camera e prendere le scarpe eleganti, quelle che aveva per la laurea, quelle che suo cugino da parte dei Sackville guardava con troppa bramosia.
Le sette e undici. Entro venti minuti, Bilbo sarà fuori casa, con in una mano una valigetta piena di fogli da firmare per avviare il tirocinio e nell’altra il panico esistenziale che lo sta accompagnando da quando quel dannato telefono ha suonato tre giorni prima.
Il tostapane suona e lui si sta allacciando la seconda scarpa, il tempo sta correndo così in fretta che deve esserci dietro qualche stregoneria, perché non è assolutamente possibile che sia normale. Nuovamente si ritrova a correre, fermandosi al frigorifero per tirar fuori un barattolo di marmellata di fragole e il burro, poggiando tutto sul ripiano di marmo e acchiappando il coltello dalla parte della lama - fortuna che sono coltelli pressoché inutili.
Non ha tempo per mangiare in pace, se sua madre lo sapesse lo ucciderebbe seduta stante; prende la giacca e la infila mentre tiene il toast tra i denti, acchiappando le chiavi e chiudendo casa lasciandosi il beneficio del dubbio per quanto riguarda qualunque finestra nella casa, meraviglioso.
Agita la mano per fermare il primo taxi che gli passa vicino, sperando che questo posto non sia troppo lontano da casa, perché l’idea di spendere una quantità infinita di soldi per andare a lavorare in un posto da cui non riceverà un centesimo lo lascia decisamente a desiderare.
“Alla Oakenshield and company.” dice rapidamente al tassista, tornando poi ad addentare il suo toast.
Il conducente lo guarda storto, alza le spalle, e va.
*
Quindici minuti di taxi e qualche imprecazione al traffico più tardi, Bilbo stringe così forte la ventiquattro ore che ha paura che il sangue possa smettere di arrivare alla mano. Scuote la testa e cerca di allentare la presa sul manico della borsa, alzando lo sguardo verso quello che sarà il suo nuovo posto di lavoro per almeno i prossimi tre mesi.
A guardarla da fuori sembra un posto tranquillo. Ha le pareti bianche e alte, grandi finestroni nella parete frontale per far entrare la luce in quelli che, a guardare da fuori, sembrano uffici ampi e accoglienti. Muove i primi passi su quella terra nuova, ricordandosi ogni tre passi di buttare fuori l’aria dai polmoni, se non vuole morire prima di entrare. L’insegna a fianco alla porta è decisamente adorabile, il nome dell’azienda inciso in una corteccia di quercia e messo in risalto da un tenero color crema.
Non può essere così terribile.
Con un profondo respiro, spinge la porta ed entra. La sala d’ingresso è invasa da un buon odore, se chiude gli occhi quasi gli sembra di essere in mezzo a un bosco - l’unica cosa che lo tiene legato alla realtà è il chiacchiericcio che proviene dalle varie stanze, il ronzio di qualche macchinario in fondo all’andito, il bip prolungato di una macchinetta che ha appena omaggiato un dipendente di qualcosa di commestibile. Si guarda attorno un po’ perduto, senza vedere qualcuno a cui potersi rivolgere.
Ha la sfortuna di azzardare i primi passi nella Oakenshield and company nel momento sbagliato - o forse no, ma al momento il suo fianco destro e soprattutto il suo sedere non la pensano così. “Ma cos-“ fa in tempo a dire, prima di cadere a terra come una pera, sentendo qualcuno sopra di lui lamentarsi sonoramente.
“Ma perché state tutti sempre in mezzo ai piedi, ho fretta, ho fretta!” sente, e apre gli occhi, trovandosi davanti un ragazzo che non può avere più di vent’anni, moro e con appena un accenno di barba che, anziché continuare a prenderlo a parole, lo guarda imbambolato per qualche secondo.
Bilbo alza un sopracciglio, perplesso. “Mi scusi,” esordisce, alzandosi in piedi e sibilando di dolore mentre si massaggia la natica. “non l’avevo vista. Ehr… ecco… posso chiedere a lei?”
L’altro fa un’espressione che non è capace di definire, potrebbe quasi definirla buffa, e annuisce alzando le spalle. “Dica pure.”
“Ecco… sono Bilbo Baggins, il nuovo tiroc-“
Prima di entrare, ha avuto il terrore di diventare mira degli scherzi di più o meno tutto il personale. Ha cercato in tutti i modi di allontanare il pensiero per riuscire a vivere adeguatamente la sua esistenza all’interno del suo nuovo posto di lavoro, e per qualche istante, mentre arrivava a destinazione, ha convissuto con la leggera illusione che in fondo le cose potessero andare bene.
L’illusione però si infrange nel momento stesso in cui l’altro comincia a ridere.
“… N-non mi sembra carino ridere così degli altri.” sbotta, mentre le orecchie gli si fanno rosse. L’altro si sventola una mano sul viso, scuotendo la testa e cercando di trattenersi.
“No, no, mi scusi, signor Boggins-“
“Baggins.”
“Sì, quello. Ma non- oh buon Dio,” dice, allungando la mano verso di lui e voltandosi verso la porta da cui è uscito, “Fili! Fili, vieni!” e Bilbo rimane lì a fissarlo, e a fissare la porta, e a fissare di nuovo l’altro ragazzo, finché non vede sbucare una testa bionda dalla stanza e lui si trova a chiedersi perché in questo posto tutti sembrino dannatamente più giovani di lui. “Fili, guarda, c’è il signor Baggins!”
Storcere il naso diventerà il suo nuovo hobby, ne è sicuro. Il biondo - Fili - rimane a guardarlo per qualche istante, poi la scena si ripete, e anche lui comincia a ridere. Bilbo si chiede se non sia uscito di casa in mutande, o se si sia sporcato con la marmellata e non se ne sia accorto, ma mentre gli altri due continuano a ridere, lui si controlla e non vede niente che non vada nella sua camicia a righine azzurre, o nella giacca o i pantaloni del suo completo.
“Posso sapere cosa c’è di così divertente?” chiede, gonfiando le guance, irritato. Fili agita le mani, così come ha fatto prima l’altro ragazzo, e ha paura che questo non gli porti altro che sfortuna, o peggio magari altre venti persone che rideranno di lui.
Che poi, più o meno è quello che succede. Ci sono altre tre persone che si uniscono ai due - questi almeno sembrano più grandi, e uno di loro anche piuttosto inquietante. Gli altri due, alla loro vista, si calmano un poco, non senza sbuffare divertiti ogni volta che poggiano lo sguardo su di lui.
“Vi si sente fino al piano di sopra,” dice quello che sembra essere il più giovane dei tre, senza mancare di sorridere educatamente quando poggia gli occhi su Bilbo. “Si può sapere che succede?”
L’omaccione, invece, non solleva nemmeno di un millimetro gli angoli della bocca, guardandolo storto.
“Chi è questo damerino?”
Damerino.
“Damerino?”
“Oh, Dwalin, lui è il signor Bog-“ ride il moro, scuotendo la testa, “Baggins. Baggins.”
“Damerino?!”
Si chiede dove diamine sia finito. Delle cinque persone davanti a lui, l’unica con un po’ di buon senso pare il ragazzo che gli ha sorriso poco fa. Per fortuna, il terzo uomo, che fino al momento non ha detto parola, gli si avvicina porgendogli la mano.
“Deve scusarli, signor Baggins. Sono degli idioti,” si giustifica, dando un cenno con la testa ai due giovani, “ma non siamo abituati a vedere qualcuno così ben vestito in questo posto.” Il sorriso che gli dedica fa decisamente bene a Bilbo, che sente la sua rabbia chetarsi di un poco. “Io sono Bofur, signore, al vostro servizio.”
Bofur gli tende la mano e lui la prende, incerto se fidarsi o meno dell’uomo. “B-Bilbo Baggins, al vostro.” La sua mano viene scossa con amorevole fervore, prima che Bofur la molli e si volti verso i suoi compagni.
“Mi permetta di presentarle Kili e Fili, addetti alle vendite, Ori, che si occupa dell’analisi dei nostri materiali, e Dwalin, che lavora con me al reparto qualità. Siamo felici di averla tra noi.”
“Sì, sì, certo.” risponde, cercando di essere il più positivo possibile.
È l’hamburger che si vendica. Ormai dovrebbe essersi arreso, dannato pezzo di carne.
Bilbo si passa una mano sul volto, sospirando e guardandosi attorno. “Devo regolarizzare il contratto. Sa, per l’università.” dice a Bofur, prendendo per buono che sia la persona più affidabile lì dentro. “Con chi devo parlare per-“
“Uh, sì, certo. Seguimi, ti porto dal presidente.”
Bofur sorride ancora e Bilbo si chieda se in realtà non abbia una paresi facciale. Dietro di lui, Kili e Fili ridacchiano, Ori li guarda torvo e Dwalin scuote la testa, prima di andar via e tornare al proprio lavoro senza dire una parola.
“Piacerai tanto allo zio, ne sono convinto.” ridacchia Kili, prima di agitare la mano e proseguire per la sua strada. Quando tutti tornano alle loro mansioni, Bofur gli fa cenno di seguirlo e lo conduce verso l’ufficio della direzione.
“Spero non l’abbiano spaventata troppo.”
“Oh no non mi hanno spaventato affatto.” replica Bilbo secco. Non è spaventato, davvero. È solo oltremodo sconvolto dalla cafonaggine di chiunque. “Solo, è stata una reazione inaspettata.”
“Ci saranno tante cose inaspettate qui dentro, signor Baggins. Ma si abituerà, vedrà. Alla fine vedrà, si troverà così bene che non se ne vorrà andare.”
Gli piace, la voce di questo Bofur. Più parla e più Bilbo è convinto che sia l’unica persona con un po’ di sale in zucca, almeno per il momento. Annuisce alle sue parole, anche se sa che Bofur non può vederlo, e si guarda attorno finché può. Poi, entrano in un ascensore, e l’unica cosa che può vedere è se stesso e l’uomo riflessi negli specchi.
“Dopo aver firmato il contratto, le farò fare un giro dell’azienda, se le va, signor Baggins. Le sono stato assegnato per farle d’assistente, in questi giorni. Sa, è meglio avere qualcuno di competente a fianco, quando ci si ambienta, non crede anche lei?”
“Le sono infinitamente grato. E la prego, non mi chiami signor Baggins, Bilbo va più che bene.”
Finalmente Bilbo riesce a rilassarsi un poco e a sorridere sinceramente per la prima volta in tutta la giornata. Quando l’ascensore si apre, sente solo una leggera tensione stringergli lo stomaco - più per la firma in sé che per altro, comunque.
“Ah, prima di entrare: Thorin ha un modo tutto suo di trattare la gente. Non preoccuparti troppo, se lo vedi un po’… ostile.”
Scherzava, riguardo la tensione. Annuisce automaticamente - non fa che annuire, oggi, non gli piace granché, ma immagina di doversi accontentare.
“Nessun problema.” risponde, mentre le sue gambe urlano scappa finché sei in tempo. Stringe la presa attorno al manico della borsa e lascia che Bofur gli faccia strada. Bussa tre volte, con un ritmo che potrebbe quasi definire allegro - anche se al momento suona più come una condanna a morte.
“Thorin?” Bilbo sente un verso - sembra quasi un grugnito, e subito gli si accappona la pelle. Bofur gli fa un cenno con la mano, sorridendogli, ed apre la porta. “Ti ho portato il signor Baggins, il tirocinante.”
Bofur gli fa spazio, e lui entra.
Sente distintamente il cuore cadergli nella pancia.
L’uomo davanti a lui non gli comunica ansia, no. Gli comunica terrore. A prescindere dalla barba scura che avvolge la mascella, a prescindere dagli abiti neri, lo sente emanare un’aura tremenda e la tentazione di fare un passo indietro e dire che in realtà lui non è il signor Baggins, ma il signor Boggins, e che sicuramente ha sbagliato posto è forte e pulsante sulle gambe, ma in realtà non muove un passo. Semplicemente, non osa.
Thorin Oakenshield lo guarda con aria di sufficienza, senza nemmeno degnarsi di alzare il culo dalla sedia e andare a stringergli la mano. Thorin Oakenshield lo guarda come se fosse un granello di polvere, una noia in più a cui badare, un peso da sopportare senza nemmeno premurarsi di nascondere il fastidio. “Baggins.” sibila quasi, indicandogli la sedia davanti a lui.
Meraviglioso modo di cominciare.
Davvero meraviglioso.