[Sherlock BBC] And now there's nothing but time that's wasted

May 29, 2012 01:15

Titolo: And now there's nothing but time that's wasted
Fandom: Sherlock BBC
Personaggi: John Watson, Sebastian Moran
Rating: Nc17
Avvertimenti: slash, dub-con, angst, dark, rimming, lemon, post-Reichenbach
Conteggio parole: 4350 (fiumidiparole)
Riassunto: Non si muove, quando sente l'acqua e il fango muoversi sotto il peso di qualcuno. Fissa il nome di Sherlock con gli occhi di chi cerca la morte, e poi vede un paio di scarpe firmate macchiate di sporco, e china la testa verso l’alto, sorridendo arreso.
"Alzati. Vieni con me."
In fondo non è stato l'unico a perdere qualcosa.
Note: Era da tanto che volevo scrivere una Sebastian/John. L'altro giorno ho iniziato con un piccolo input sulla mia moleskine e questo è ciò che ne è venuto fuori. Partecipa a un sacco di cose. Partecipa al terzo turno dello Sherlothon dello sherlockfest_it, prompt #4 (è una post-Reichenbach <3), partecipa al 15gen_sherlock, per il genere dark, partecipa al 500themes_ita col prompt #33, appello disperato, e partecipa alla mia personale collezione di fanfic scritte per alcun motivo alcuno se non il mero fangirlismo. Lode e gloria al Mofftiss.


E' il tredicesimo giorno, la tredicesima ora, probabilmente il tredicesimo minuto. La lapide sembra più scura, oggi che il cielo è nero di nuvole; sembra più lucida mentre brilla di luce riflessa, fulmini che aprono il mondo spaccandolo a metà. Piove, e l'odore della terra impregna i suoi vestiti e i suoi pensieri, ricordi annebbiati dal dolore di qualcosa che prima c'era e adesso non c'è più. Tredici giorni, e Sherlock non c'è più a riempire gli spazi vuoti; tredici ore, eppure sente ancora la sua voce riempirgli le orecchie, ferirle fino a farle sanguinare; tredici minuti, e a ogni secondo si sente più patetico, l'ombra di un John Watson che non esiste più.
Piove più forte.
Non si muove, quando sente l'acqua e il fango muoversi sotto il peso di qualcuno. Fissa il nome di Sherlock con gli occhi di chi cerca la morte, e poi vede un paio di scarpe firmate macchiate di sporco, e china la testa verso l’alto, sorridendo arreso.
"Alzati. Vieni con me."
In fondo non è stato l'unico a perdere qualcosa.

E' una casa modesta, spoglia di ricordi, pareti bianche che fanno male agli occhi. L'uomo l'ha fatto sedere su un divano di pelle scura, e quasi si sente in colpa a imbrattarlo coi suoi abiti intrisi di acqua e fango. Oltre la parete, un tintinnio di tazze interrompe un silenzio denso e nauseabondo come miele per pochi istanti, il tempo di riportarlo alla realtà. Sebastian Moran, Primo Reggimento dei pionieri di Bangalore, un nome che gli fa alzare la testa e portare la mano alla fronte, cenno di un rispetto che quell'uomo ha smesso di meritare troppo tempo fa.
Gli porge la tazza, e lui la stringe forte nonostante il calore gli scotti la pelle, gli occhi che seguono fili di fumo che giocano davanti al suo naso.
"Perché?" mormora piano. Moriarty ride dietro quell'uomo, ride delle disgrazie di entrambi. Sebastian ghigna, e le sue labbra sembrano una crepa sul muro, vecchia e ingiallita.
"Non ho più niente da perdere."

Non ricorda la strada che ha fatto per arrivare fino a qui. Sbirciando fuori dalla finestra, l’unica cosa che vede è un taxi fermo al lato della strada, in attesa di un cliente che probabilmente non arriverà prima di qualche ora. La via è totalmente allagata, l’acqua scorre giù nei tombini di fretta, ma non è abbastanza. Non riesce a vedere il cartello alla fine della strada, e non riesce nemmeno a riconoscere quella parte di Londra, ma il taxi ci ha messo solo cinque minuti ad arrivare davanti al portone di casa, per cui non devono essere troppo lontani dal cimitero.
Magari lo prenderà lui, quel cab per tornare a Baker Street.
“Non smetterà presto.”
La voce di Sebastian è bassa, calda, drenata dell’espressività che caratterizza l’essere umano. Lui si gira e lo vede chino sul lavello, a lavare le due tazze.
Si chiede se anche la vita di quell’uomo ha subito un cambiamento drastico, dopo la morte di Moriarty. Purtroppo per lui, sa già la risposta.
“Puoi dormire sul divano, se vuoi.” continua, senza guardarlo. “Avremo tempo di parlare di due cose.”
John si chiede perché.
Ma anche in questo caso non ha di che pensare troppo.

La tv ha il volume così basso che a fatica riesce a sentire la voce del presentatore. Entrambi fissano lo schermo con lo sguardo vuoto, pretendendo di essere interessati a quello che succede. Sebastian sogghigna quando la valletta buca lo schermo, una quinta di reggiseno avvolta in un tubino troppo stretto. “La conosco, quella.” esclama, passando una lattina di birra all’ospite. “Ha una carrozzeria di plastica. Si sente sotto le mani, quando sono finte. Non c’è gusto.”
Gli viene quasi da sorridere. Un tentativo di incalzare una conversazione che non definirebbe altro che pessimo. Apre la lattina e aspetta che il gas esca, prima di portarsela alla bocca.
Non potrà mai dire a nessuno dov’è. L’unica persona a cui dovrebbe dirlo lo sa già, ed è sottoterra.
Vorrebbe essere a casa.
“Si è suicidato, James.”
Solleva la testa, la bocca semiaperta e umida di birra. Sebastian non stacca gli occhi dalla televisione, mentre agita la lattina. La sua voce contrasta col sorriso rotto sulle labbra. “Avrei dovuto ficcarti una pallottola in testa, se il detective non si fosse ammazzato. Ma lui non doveva morire. Non era nei piani. O almeno, non nella parte di cui io ero a conoscenza.”
John lo osserva di sottecchi, il viso illuminato debolmente dalla luce dello schermo. Ha un filo di barba in crescita, una cicatrice sotto il sopracciglio sinistro, una sulla piccola gobba del naso. “Il tuo uomo doveva essere davvero intelligente, per spingerlo a spararsi in gola. I topi in trappola hanno una sola via di fuga. Mi sorprende solo che il topo fosse il boss. Anche se poi alla fine ha ottenuto quello che voleva. Immagino che vederlo spappolato in terra non sia stato meno peggio che vedere le cervella di James sparse sul terrazzo del Bart’s.”
John ingurgita la bevanda in pochi sorsi, nauseato. Non vuole sentire parlare di Sherlock, tanto meno di Moriarty. Rievocare l’immagine del viso del suo compagno coperto di sangue non lo aiuta in nessun modo, e quando finisce la prima lattina, Sebastian gliene apre un’altra perché sa cosa vuol dire, chiudere gli occhi e vedere qualcosa che non si vuole.
Ormai dovrebbero essere abituati.
“Vorrei vendicarlo, davvero. Mi prudono le mani solo a pensarci. Ma ha già fatto tutto da solo.” Volge lo sguardo verso di lui, e John sente una leggera tensione nello stomaco mentre il viso dell’altro si fa più vicino. “Ha pensato a tutto. A distruggere Holmes, a distruggere te, a distruggere me. Era davvero, davvero un uomo di merda.”
Sbuffa, divertito. Torna ad appoggiarsi sul divano e John lo fissa come se fosse un puzzle.
Sempre a lui, le persone strane.

Mrs. Hudson sarà in pensiero.
Si riscopre a non esserne preoccupato.
Sono le tre del mattino e lui ha gli occhi spalancati contro il soffitto, e il suo cervello è così pieno di parole che, concretamente, non sta pensando a nulla. Ogni tanto, il cigolio del letto nella stanza affianco gli ricorda dov’è, e il cuore perde un battito, un modo per ricordargli di essere nella tana nel nemico.
Può davvero definirlo un nemico? La gente normale non ha nemici. Non ha mai visto Sebastian Moran prima di adesso, per lo meno fuori dal contesto bellico. È quasi sicuro di aver incrociato il suo sguardo altrove, probabilmente gli ha ricucito qualcosa, perché i visi delle persone a cui salvi il culo non te le dimentichi mai.
Nemmeno quelli che muoiono, te li dimentichi. Ma lui non fa parte di quella lista.
I morti non tornano indietro.
Si sente elettrico. La pelle del divano non lo aiuta, né indossare una maglietta che non odora di sé, bianca, troppo larga. Fuori, alla pioggia si sono uniti dei tuoni che fanno vibrare i vetri, e Cristo, perché non ne ha approfittato quando il tassista era appostato proprio fuori dalla porta? Un salto e via, sarebbe tornato alla sua vita normale.
Normale.
Ingoia aria, molle che cigolano più forte, e poi il silenzio. C’è una luce debole, arancione, in mezzo al buio della camera da letto di Sebastian. Vede un filo di fumo salire fino al soffitto e perdersi nell’ombra. Si mette seduto, mentre lo vede uscire dalla camera, il petto nudo, una cicatrice che percorre il petto, dalla spalla fino al cuore.
“Non sono l’unico, eh?” ghigna, buttandosi accanto a lui. John si gratta la testa, storcendo il naso.
La cicatrice che cercava.
Sebastian tira ancora, prima di piegare il braccio verso di lui, porgendogli la sigaretta; John non ricorda di aver toccato una sigaretta in anni, ma al momento non ha intenzione di dare ascolto al lato medico del suo cervello. Incastra la sigaretta tra pollice e indice, e quando la poggia sulle labbra riesce a sentire un vago sentore d’alcool, e la voglia di leccarsi le labbra è così forte che è costretto ad allontanare il cancro ai polmoni per un istante e obbedire all’istinto, prima di fare un tiro - probabilmente l’ultimo della sua vita. Lascia il fumo libero di uscire dal suo corpo con un sospiro basso, gli occhi chiusi e la testa poggiata sullo schienale, la coperta ancora sulle gambe. Si sente meglio. È un’illusione e lo sa bene, ma non gli interessa, finché può continuare a fare finta.
Restituisce la sigaretta al proprietario dopo un secondo tiro, e non riesce ad impedirsi di passare continuamente la lingua tra le labbra, piano, come se capire che sapore hanno fosse fondamentale alla sua sopravvivenza. Non si accorge subito degli occhi di Sebastian che lo fissano.
Quando lo nota, è già troppo tardi.
“James era geloso di te.”
Un tuono in lontananza, e la pioggia cade fitta, deformando la luce fioca dei lampioni. Sebastian si sfrega una mano sulla coscia mentre con noncuranza fa cadere la cenere sul pavimento. “Voglio anche io un animaletto, a volte avrei voluto ucciderlo.” Lascia scivolare i gomiti sulle cosce e respira il suo stesso fumo, fissando davanti a sé.
Avresti potuto farlo. Avresti potuto, e tutto questo non sarebbe successo.
“Avrei voluto ucciderti. Così avrebbe smesso di annoiarmi coi suoi discorsi. Sono geloso, Seb!, sono geloso, sì, certo. Il giorno che ti abbiamo riempito di Semtex saresti dovuto saltare in aria. Dio solo sa perché quella puttana abbia chiamato in quel momento. Avrei voluto vederti saltare in aria, così non avrei fatto io il lavoro sporco. Avrei voluto che Holmes non si buttasse dal Bart’s per poter godere del tuo cervello sparso in strada.” Ride, passandosi una mano sulla faccia. “Ma poi mi fermavo a pensare. E come cazzo fai a uccidere qualcuno che ti ha salvato la vita?”
Lo ascolta quasi ipnotizzato. Pensa all’odio che si portava dietro e pensa che gli manca. Essere odiato è meglio che non essere niente. Sebastian lo guarda con occhi vuoti, un sorriso che non è un sorriso. “Io mi ricordo di te, dottore. Mi ricordo persino il giorno. Ci sono cose che non ti puoi dimenticare nemmeno con una sbronza. E il mio problema, il mio problema col mio lavoro, sei tu. Sempre stato tu. Perché sono un cecchino e sono un traditore, ma non di chi mi salva il culo dopo un fottuto attacco kamikaze in piena notte.”
Si rilassa di nuovo contro lo schienale, e il suo viso non cambia espressione. Sembra perso nei suoi ricordi, perso come lui. Potrebbe quasi dire di trovarsi davanti a uno specchio, se solo non fosse per le strade diverse che hanno preso le loro vite. Ci sarebbe potuto essere lui, al posto suo?
No, probabilmente no.
“Perché sei un uomo normale e distruggi la vita della gente?”
Mastica aria. Come se fosse lui, quello cattivo.
“Non lo so.”
Sebastian ride e scuote la testa. “Non lo sai. Ovvio. Ovvio. Nemmeno io ci ho mai capito un cazzo. Suppongo fosse normale, per noi poveri esseri umani, non capire un cazzo di quello che c’era nelle loro teste. Corri, seguilo, da qualche parte ti porterà, no? Non pensavi così anche tu? Chi se ne frega della coerenza, della decenza, se poi puoi sentire l’adrenalina pomparti in vena e non hai nemmeno bisogno di drogarti, per sentirti un uomo vivo?” Butta il mozzicone a terra, schiaffandosi poi la mano sulla fronte. “E chi ci ha mai capito un cazzo, dottor Watson?”
Si alza in piedi con un balzo, cominciando a muoversi in cerchio davanti a lui, il viso sempre alto, lo sguardo volto a qualcosa che nemmeno lui può vedere. “A me bastava vivere. Poi è morto. Poi Jim è morto e non c’è stato più nulla da fare. Scappare non serve. Aspettare non serve. Non c’è niente da fare, nessuno da uccidere, nessuno da inseguire, nessuno da assecondare.” Sebastian si ferma e lo guarda. Stringe gli occhi come se stesse mettendo a fuoco una preda lontana. “Niente che ti faccia eccitare.”
Non sa come se lo ritrovi addosso, le mani che premono contro le sue spalle così forte che ha paura gliele possa spezzare.
Non lo respinge soltanto perché vuole vedere fin dove arriva. Vuole solo capire se davanti ha un uomo pericoloso o uno perso.
“Non c’è niente che ti faccia sentire vivo, dottor Watson. Niente sociopatici. Niente maniaci. Tu sai come ci si sente ad essere strappati da una vita del genere, perché altrimenti non saresti qui.” Lo scuote, piano, fissandolo negli occhi. “Non saresti qui.”
Dio, quanto ha ragione.
Il sapore che aveva sulle labbra ora si diffonde nell’aria, gli entra nelle radici, rapido. È lo stesso odore che si portava dietro Harriet nel suo periodo peggiore, fumo e whiskey che si mischiano proprio lì, davanti al suo naso. Gli occhi di Sebastian sono di un colore diverso a quello che aveva notato sotto la luce pallida di qualche ora prima, adesso, un verde scuro che non riesce a ricordare d’aver visto in natura. “Non c’è più niente per cui valga la pena vivere, non credi, dottore?”
Cerca nei suoi pensieri una risposta, ma c’è qualcosa che non va, e l’unica cosa che riesce a pensare è che la forma delle labbra di Sebastian è morbida, gonfia, e in fondo, se non c’è più niente per cui valga la pena vivere, trattenersi dal fare stronzate sarebbe solo un’inutile perdita di tempo.
“Potrei ucciderti adesso.” Sibila, stringendo ancora di più gli occhi, il pomo d’Adamo che si muove piano mentre deglutisce. “Potrei prenderti la testa”, e fa salire lentamente le mani sulle tempie, stringendo i palmi finché John non si irrigidisce appena, la paura che si mischia a qualcosa che gli è mancato per troppo tempo, “e crack, non sentiresti niente, perché sono un assassino ma ho un buon cuore, e non ti farei soffrire. Potrei anche sfondarti il cranio e basterebbe quello, a farti morire, e guarderei sangue e materia grigia mischiarsi sopra il divano. Sono un po’ ossessionato coi cervelli. Se non lo avessi notato.”
John lo guarda dritto negli occhi, e cerca di leggergli dentro. Pupille dilatate. È quasi nero. Dio. Si lecca ancora le labbra, senza pensarci, senza dar peso alle sue azioni. Ed è quando Sebastian diventa troppo vicino che si rende conto che quello stare zitto, quel continuare a umettarsi le labbra non è altro che una provocazione. È quando il sapore di alcool si fa forte che capisce che non è scappato solo perché voleva avere l’occasione di sentire ancora un barlume di vita in mezzo al vuoto lasciato da Sherlock, perché sapeva che non l’avrebbe trovato da nessun’altra parte se non lì. E non gli importa davvero in che forma arrivi, se come una Browning o una lingua che spinge per aprirgli le labbra, no, davvero. A questo punto non c’è più niente che abbia importanza.
Si lascia scappare un sospiro quando la lingua del colonnello spinge più in fondo nella sua bocca, un ginocchio incastrato tra le sue gambe. Ha una lingua calda, sicura, che gli fa mancare il fiato. D’istinto s’aggrappa alla coperta, un groviglio di stoffa incastrato tra il peso di Sebastian e se stesso, l’altra mano che trova appoggio solo dietro il collo nudo dell’altro - niente riccioli, una rasatura fresca, riesce a sentire i capelli bucare la cute. Il calore che gli si irradia dal petto è qualcosa che riattiva ogni sua cellula, e anche se sa che sarà un momento relativamente breve, rispetto al resto della sua noiosa esistenza, John stringe gli occhi e si preme quello sconosciuto addosso ripetendosi che questo, questa cosa, non deve scivolargli dalla mente, e dalle mani, perché potrebbe essere l’ultima occasione della sua esistenza per sentirsi ancora vivo. C’è il rumore umido ad invadergli le orecchie, adesso, assieme ai sospiri dell’altro che vibrano nella sua bocca e scivolano nella gola, e lui non può far altro che inghiottire, assimilare.
Deve pensare a Sebastian Moran, colonnello del Primo Reggimento dei Pionieri di Bangalore, non a Sebastian Moran, il braccio destro di Moriarty.
Come se poi attribuirgli un’identità importasse ancora qualcosa.
John mugola dentro la sua bocca, e il suo cervello smette di funzionare. Non c’è più nemmeno Sherlock a guardarlo dietro le palpebre - e perché mai, se non tornerà mai più? Segue i movimenti della lingua dell’altro concentrandosi unicamente sul suo sapore, nuovo e familiare in modi che non è capace di definire. Gli sembra di prendere lentamente il suo odore, mentre la bocca di Sebastian si sposta sulla mascella, sul suo pomo d’Adamo, avvolgendolo con le labbra, leccandolo piano per lasciare una traccia di sé. La sua pelle odora di Sebastian, la maglia che ha addosso odora di Sebastian - una maglia che non usa per uscire, basta guardare la macchia giallastra sull’orlo mal cucito, sangue che ha deciso di lasciare un ricordo indelebile, chissà quando, chissà perché.
I denti di Sebastian affondano nella sua carne con foga, e lui decide finalmente che può lasciar perdere la coperta, lanciandola dalla parte opposta del divano per poi aggrapparsi alla carne nuda dell’altro, cicatrici che sfregano contro i suoi polpastrelli - cicatrici che hanno la sua stessa storia. Oh, Dio.
“Potrei ucciderti e dimenticarti.” sussurra sopra la pelle arrossata, la lingua che scorre sopra i segni dei suoi denti. “O tenerti qui, farti diventare un altro.” Risale con piccoli baci fino all’orecchio, prendendone il lobo tra i denti. “Potrei scavare dentro e cercare qualcosa che ti spezzi, ma dovrei scavare all’infinito. Sei un uomo senza luce dentro.”
John può sentire un come me echeggiare attorno alla fine della frase.
Sebastian si ferma a guardarlo per qualche secondo, spostando le mani ai lati della testa, la cicatrice che fa ombra sul suo viso contratto in una smorfia eccitata. Spinge con forza tra le sue gambe di John, strappandogli un gemito basso, una stretta forte attorno al bacino. E poi spinge ancora. E ancora, ancora finché la bocca di John è così piena di ansiti che non ci può stare altro. Sebastian si china a raccoglierli tutti, la lingua che gli accarezza piano le labbra, nicotina e whiskey, cose che non ha mai apprezzato, cose che non amerà per il resto della sua vita.
“Ti osservo da così tanto tempo.” mormora sulle sue labbra, cucendogli le parole addosso. “Non hai mai avuto la sensazione di avere gli occhi di qualcuno addosso? Qui.” e preme l’indice contro la sua fronte calda, prima di farlo scendere sul naso, sulle labbra.
Qui.
“Non sei nessuno e hai rovinato la vita a tutti, compreso te stesso.” Le sue mani scivolano sul petto, ora, veloci, fino a che le dita si attorcigliano attorno al lembo della maglia. “Ma non ha più importanza.”
Sente le nocche ruvide di Sebastian sfregare contro la sua pelle, la maglia sollevata fino al collo. Quando la sua bocca succhia la carne, proprio al centro del petto, John lascia scappare un gemito più alto, le dita dei piedi che si contraggono per l’eccitazione. Le sue mani si muovono da sole, incapaci di stare ferme in un solo punto; gli occhi vagano sul corpo dell’altro, sulla testa china sul suo petto, sulla sua mano che preme contro il collo perché oh, Dio. Se prima aveva tentato di pensare a un motivo valido per cui fosse rimasto, adesso l’unica cosa che la sua testa riesce a formulare è una serie di inutili balbettii che si concretizzano sulle sue labbra, imprecazioni che si susseguono a bassa voce, spezzati dai gemiti.
È troppo disperato, per non restare.
Non si rende conto di essere nudo dall’ombelico in giù se non quando sente i pantaloni dell’altro fregare contro l’interno coscia, il ginocchio che adesso lo solleva dal divano, sfrega sulla sua erezione macchiandosi appena di sperma. Lascia andare la testa contro lo schienale del divano e decide che, finché non lo uccide davvero, può fare quello che vuole.
Meglio questo che il nulla.
La lingua di Sebastian è bollente come lava - non sa se sia una sua impressione o la realtà, ma sente bruciare la pelle, e per un momento gli vien da pensar a tutte le volte che ha fatto sesso e a come fossero tutte diverse da questa. Completamente diverse.
I denti di Sebastian premono sulla sua pancia, la lingua che si muove circolare appena sotto l’ombelico. Il suo respiro accelera e il bacino si muove incontrollato, seguendo l’istinto, l’aria che si blocca in gola e lo fa quasi soffocare. Sebastian solleva lo sguardo per fissarlo negli occhi, la sua lingua scorre lenta tra le labbra. John vorrebbe smettere di fissarlo, ma non ci riesce. Stringe forte le labbra, quando l’altro lo afferra per le gambe sollevandogliele sulle spalle mentre fa scivolare il ginocchio a terra. Può respirare di nuovo, solo per pochi secondi, il tempo di vedere Sebastian in ginocchio, il tempo di portarsi le mani alla bocca per trattenere gemiti troppo alti per lasciarli andare.
Tutto quello che ha provato fino ad ora si concentra in brividi troppo forti, scariche di eccitazione che schizzano al basso ventre e lo fanno fremere. Sente la lingua di Sebastian forzare per entrare in lui, le dita che da sotto le ginocchia scivolano sul sedere, per allargargli le natiche e permettergli di farsi spazio. Spinge, si muove, si flette appena, e John non riesce a far altro che soffocare i gemiti tra i palmi delle mani, e stringere gli occhi così forte da vedere flash di luce verde spandersi a macchia d’olio sulle sue palpebre. Ha il viso in fiamme, si vede rosso dalla vergogna.
L’altro non sembra essere preoccupato di starlo scopando con la lingua, sembra così a suo agio. Fa scivolare due dita dentro di lui senza cura, aprendolo piano e incastrando dentro la lingua, e John si sente vulnerabile come non lo è mai stato in tutta la sua vita, nemmeno quando è stato ricoperto di semtex, nemmeno quando si è trovato, innumerevoli volte, a dover fronteggiare la morte per non fargliela avere vinta. Sebastian è osceno, con la bocca aperta sulla sua apertura, la lingua che entra ed esce e un altro dito che si insinua, umido della sua saliva. Respira forte contro la sua pelle, e John riesce a sentirlo gemere basso, breve. Sospira soddisfatto soltanto quando si rialza in piedi, le gambe del dottore ancora sulle spalle e le dita ancora dentro di lui. “Non ha più importanza.”
John sente le cosce sfiorargli la pancia, mentre Sebastian gli spinge le gambe in avanti. È un momento, il tempo di fare un respiro profondo, il tempo di posizionarsi, prima di spingere piano, lo sguardo dell’uomo chino sul suo ventre, sul suo cazzo che viene inghiottito piano dal corpo piccolo e morbido di John. Lui sente una fitta di dolore partire dal sedere e vibrare per la spina dorsale, quando Sebastian è totalmente dentro e comincia a dare colpi di bacino secchi, lenti, gli occhi semichiusi mentre guarda il viso del dottore.
Vorrebbe andasse più veloce. Vorrebbe gli aprisse le gambe e cominciasse a spingere, invece di scandire il tempo come fosse un orologio. Sebastian lo sovrasta, si lecca ancora le labbra, come se lo stesse imitando, e sorride, ancora quella smorfia incrinata, quell’espressione calcificata. Spinge forte, e John sente la sua erezione sbattere contro la pancia, rimbalzarci sopra ad ogni colpo, e non sa per quanto resisterà - è tutto troppo, la testa scoppia, il ventre scoppia, lo stomaco arrotolato su se stesso che produce dolore e acido.
Quando il ritmo si fa più rapido, John non ce la fa più. Stringe forte le spalle di Sebastian, attirandolo a sé, e ormai non è più capace di trattenere i gemiti; fa quasi impressione, sentire la sua voce incrinata in quel modo, è la prima volta che la sente, e spera di non doverla sentire mai più.
Viene che il mondo s’è fatto bianco.
È il tempo di riprendersi, di collezionare i cocci dei suoi pensieri, di quello sprazzo di sanità mentale che pensava di avere fino a poche ore prima. Non respira, quando Sebastian si svuota dentro di lui, semplicemente per allontanare l’odore di quell’uomo il più possibile - non gli basteranno mille docce per levarselo di dosso, non gli basteranno mille giorni di monotonia per dimenticare l’angoscia che ha addosso e che preme contro lo stomaco e preme preme preme. Il tempo di ritornare in sé, e spinge il colonnello lontano dal suo corpo, facendolo uscire con uno strattone, il dolore che lo fa sussultare. Preme le mani contro la bocca e corre in cucina, piegandosi sul lavello, preoccupandosi solo di rimettere l’acido, e non dello sperma che cola sulle sue cosce.
Sente lo sguardo di Sebastian contro la nuca.
Qui.

Sussulta su un letto che non è il suo.
Fuori, non c’è più nessuna nuvola. Il sole entra con prepotenza nella camera, bagnando la stanza di una luce pulita, bianca, fastidiosa. Si guarda attorno, la gola che brucia. Se l’accarezza e sussulta appena, premendo nell’incavo della spalla, dove sente il dolore pulsare. Il cervello comincia a rimettersi in modo, e John riesce a mettere lentamente a posto i pezzi della giornata appena trascorsa. Si frega una mano sulla fronte, rimettendosi in piedi, barcollando quando sente una fitta di dolore irradiarsi dai lombi a tutto il resto del corpo.
Non c’è nessun rumore, in casa. Si sente solo il rombo di qualche auto che passa di rado sulla strada. Quando entra nella cucina, la prima cosa che gli salta all’occhio sono i suoi vestiti poggiati su una sedia e un foglio azzurro che spicca contro il tavolo.
Chiama un taxi e torna a casa, una grafia pendente, stretta stretta, senza fronzoli.
L’unica cosa che può fare è darsi dignità e obbedire, e fare finta che non sia successo niente.

Sono passati altri venti giorni, e ormai il silenzio non gli pesa più.
Passa le sue giornate come una persona qualunque, quando tiene gli occhi aperti e può avere un contatto col mondo. Il problema è chiudergli, gli occhi.
Rovista sul giornale per trovare qualcosa che gli stimoli la mente, poco importa se un sudoku o un caso di omicidi seriali che per Sherlock sarebbe stata un’epifania; gli basta qualunque cosa, purché non si ritrovi a pensare.
Vorrebbe che il suo cervello fosse ancora più piccolo.
Quasi salta sul divano, quando sente bussare alla porta. Non fa nemmeno in tempo ad alzarsi, che davanti si trova Sebastian, cicatrice che va dalla spalla al petto, ventisette agosto duemila e sei.
“Ho bisogno di parlarti.” gli dice soltanto, sollevando gli angoli della bocca.
John sa che non se ne libererà mai.

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