Fic: Gellert Grindelwald e il Prigioniero di Nurmengard (Regenbogen Challenge)

Jan 01, 2011 03:37


BUON ANNO A TUTTI!

Sì, lo so, vi starete chiedendo che cavolo ci faccio la notte di capodanno a postare una fic.
No, non sono ubriaca.
Dovevo folleggiare tutta la notte in giro con un'amica; ma l'amica si è ammalata e dunque ho fatto capodanno con i miei genitori e la mia stupenda nonna ultraottantenne. Esatto, sono al computer da ore. XD
Ma non tutto il male viene per nuocere. Infatti, domani la mia giornata è pienissima; ma siccome si dice che chi fa una cosa il primo dell'anno la fa tutto l'anno, non posso lasciar passare la giornata rischiando di non postare. Quindi mi porto avanti con il lavoro.

Ok, premessa a parte, qualche post fa avevo spiegato una certa recente latitanza con la mia permanenza su una nuvoletta Grindeldore.
Diciamo che questa è la prima parte di quella nuvoletta, ecco.
Regenbogen, ma non solo, perché questa è la prima fic di una serie molto random ambientata in AU.
E notate quella bella, kinkosissima e grindeldorosa iconcina? E' un dono di un meraviglioso elfo domestico di Babbo Natale, anonimo, in teoria, ma meraviglioso. E verrà sfoggiata ufficialmente oggi per la prima volta per questa fic.
Quindi!
Come prompt del Regenbogen in uso, abbiamo:
Bondage (al posto di Accio, riga arancione)
Imperio (riga arancione)
Marzo 1934 (riga gialla)
What if (riga blu)
AU (riga blu)
Due mesi di follia (riga violetta)

E le note...

Fandom: HP
Rating: Nc-17
Personaggi: Albus/Gellert, Altri
Avvisi: Slash, AU, What if, Bondage, Lemon
Disclaimer: Prendere i personaggi di JKR, unire un po' di pazzia personale, un pizzico di tatuaggi e una generosa dose di p0rn. Mescolare bene e servire caldo.
Note: Prima parte della serie "Trilogia dell'amore (im)possibile e altre storie"
Riassunto: Quando è destino, è destino.

Un Assaggio: "Bathilda Bagshot non era lontana dalla casa dei Dumbledore, di ritorno da una delle sue passeggiate, quando sentì gridare. Riconobbe la voce di Kendra, e si precipitò nella casetta con tutta la velocità che le sue vecchie ossa le consentivano. Grazie a Godric che proteggeva il villaggio e si diceva esaudisse le richieste dei suoi abitanti, arrivò appena in tempo."


Gellert Grindelwald e il Prigioniero di Nurmengard
Prompt: What if, AU, Imperius, Marzo 1934, Bondage, Due mesi di follia

Prologo (What If)

Mentre Albus Dumbledore stava ricevendo il diploma della prestigiosa Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts, inchinandosi al Preside nel ricevere il massimo degli onori accademici, sua madre Kendra rimpiangeva di non essere con lui in quel giorno, mentre sbrigava le sue faccende domestiche. Non le piaceva la necessità di stare lontana dai suoi figli anche nei momenti così importanti, ma la sua ultimogenita aveva bisogno di attenzioni costanti, e i ragazzi venivano sempre, in qualche modo, al secondo posto.
Le dispiaceva mancare a quell'appuntamento importante nella vita del suo Albus, così in gamba e promettente; ma ecco, anche solo nel distrarsi qualche secondo a pensare a suo figlio, non si era accorta che Ariana era scesa dalla sua stanza e stava giocando in cucina, un posto incredibilmente pericoloso, per lei.
Richiamata ai suoi doveri, Kendra si precipitò in casa, cogliendo già sulla soglia l'odore acre di un qualche incantesimo; Merlino, un giorno quella ragazzina l'avrebbe uccisa in uno dei suoi episodi, doveva stare attenta...

Bathilda Bagshot non era lontana dalla casa dei Dumbledore, di ritorno da una delle sue passeggiate, quando sentì gridare. Riconobbe la voce di Kendra, e si precipitò nella casetta con tutta la velocità che le sue vecchie ossa le consentivano. Grazie a Godric che proteggeva il villaggio e si diceva esaudisse le richieste dei suoi abitanti, arrivò appena in tempo.

Parte prima (AU, Marzo 1934, Due mesi di follia)

Trentacinque anni dopo

Gellert Grindelwald si fermò come ogni mattina davanti alla cella che non mancava mai di ispezionare, da due mesi a quella parte.
Due mesi di follia. Due mesi da quando aveva catturato, finalmente, il suo più acerrimo avversario, quella costante distrazione che era stata per anni l'unico rallentamento al compimento dei suoi piani. L'uomo tra lui e la conquista dell'Europa; il ribelle. Due mesi da quando lo aveva catturato, e due mesi dall'ultima volta che era riuscito a stare lontano da lui.

Lo chiamavano Fenice.
All'inizio, i suoi alleati politici in Inghilterra gliene avevano parlato come di un fastidio, un uomo potente ed intelligente a capo di una piccola, sconclusionata banda di ribelli, abbastanza abile da non farsi catturare dagli auror, ormai completamente sotto il loro controllo, e da impicciarsi talvolta di quello che non doveva, rovinando alcuni dei piani e degli interessi di Grindelwald.
Gellert aveva apprezzato l'alone romantico che la figura di quell'uomo si era creata attorno: nessuno conosceva il suo vero nome, né quello dei suoi compagni, si nascondeva nel folto delle foreste e sembrava apparire sempre quando c'era bisogno di lui, ovunque, nel paese; ma aveva riconosciuto il pericolo che rappresentava quell'aura mitica che stava diventando un punto di riferimento per i suoi oppositori, quindi non aveva mancato di tenere d'occhio la situazione.
E aveva fatto bene. Fenice aveva successo in quasi tutte le imprese che tentava: liberava prigionieri scomodi, intercettava messaggi, confondeva le truppe incaricate di sorvegliare le città con trucchetti da fiera, per muoversi indisturbato e sfuggire alle reti del potere.
Ad un certo punto, all'inizio degli anni venti, la situazione si era aggravata al punto che l'Inghilterra era stata ad un passo dallo sfuggire dalla presa di Gellert.
Così, a malincuore, lui aveva spostato il suo fronte attivo in quell'isola brulla, e vi si era trasferito per tenere sotto controllo la situazione. Era già stato una volta in Inghilterra, quando l'avevano espulso da scuola, per una vacanza a casa di sua zia che ricordava come l'estate più noiosa della sua vita. Non appena vi rimise piede, accolto con tutti gli onori, ed ebbe esaminato la situazione, si rese conto di essere stato ottimista: la ribellione era già in atto in quelle terre, e molto più estesa di quanto gli avessero fatto credere i suoi fantocci del Ministero.
Quel Fenice aveva fatto esattamente quello che Gellert temeva: era diventato un eroe popolare e aveva incoraggiato altri a seguire il suo esempio; a quel punto Gellert non avrebbe nemmeno più potuto ucciderlo e farla finita: i bifolchi che avevano fiducia in lui avrebbero pensato che dormisse ad Avalon come Artù e che sarebbe risorto per aiutarli come suggeriva il suo nome.

L'unico modo in cui Gellert riteneva fosse saggio trattare quel genere di situazioni era la guerra aperta. I ribelli vivevano di guerriglia; lui li avrebbe sfidati, marciando per le campagne con i suoi eserciti e stanandoli con la minaccia di saccheggiare i villaggi. Se non l'avessero affrontato in campo aperto, poco male; Fenice avrebbe perso la fiducia della gente e non sarebbe più stato un problema.
Tuttavia, nonostante le forze di Gellert, nonché il suo potere personale, fossero enormi, la guerra era durata dieci anni.
Gellert aveva continuato a vedere Fenice e i suoi alleati all'altro lato del campo di battaglia, ad affrontarli e a non riuscire a prevalere su di loro.

Fino a due mesi prima.

L'ultima battaglia era iniziata nella piana di Salisbury, un luogo sacro per i maghi come per i babbani, che persino Gellert aveva esitato a profanare fino a quel momento; eppure quella era stata la scelta vincente, il bluff perfetto.
Fenice era un uomo rispettoso, e pur di non combattere e contaminare quella terra, aveva usato se stesso e i suoi fedelissimi come esca per attirare Gellert lontano; lui, che aveva previsto quella strategia, non si era lasciato imbrogliare. Era stata una breve battaglia sanguinosa, ma Gellert aveva vinto. I suoi uomini avevano catturato Fenice, l'altro uomo che era la sua ombra e che tutti chiamavano Segugio, e un'altra manciata dei suoi alleati. Senza pretendere ulteriori vittorie da quel giorno (e dunque, senza far scattare la trappola che di sicuro lo attendeva), Gellert aveva fatto trasportare i suoi prigionieri a Nurmengard.
Lui li aveva raggiunti il giorno dopo, lasciandosi alle spalle un'Inghilterra priva dell'anima della sua resistenza, e dunque molto più tranquilla di quando lui vi era giunto, dieci anni prima.

Era pieno inverno; nel nord della Germania molto più che nelle valli inglesi.
Gellert si era concesso l'agio di un lungo bagno e di una notte di riposo, prima di recarsi personalmente a Nurmengard per fare finalmente la conoscenza del suo nemico.

I prigionieri erano quattro uomini ed una donna. Erano stati spogliati e privati di ogni possedimento personale che potesse essere magico, e lo attendevano in una cella comune, in attesa di conoscere il loro destino.
Probabilmente si aspettavano di morire, o di essere torturati: Gellert sapeva bene cosa dicesse il mondo di lui, e di quel che faceva ai suoi prigionieri. Ma quello che Gellert aveva in mente per loro era molto diverso: erano uomini intelligenti e potenti, sarebbe stato veramente un peccato sprecarli.

Appena entrato nella cella, scartò subito l'idea che la donna fosse importante: le avevano dato un lenzuolo per coprirsi e preservare un poco di dignità, ma anche così era chiaro che non aveva ancora vent'anni, ed era con loro solo perché era l'amante di qualcuno, probabilmente dell'uomo con i capelli rossi che le si parò davanti all'ingresso di Gellert. Anche lui era giovane, poco più che ventenne, e aveva un'aria minacciosa che quasi fece ridere Gellert. L'uomo si accorse dell'ironia con cui Gellert lo considerava, e portò la mano al fianco nudo, come a cercare una bacchetta che non aveva più.
-Septimius- lo richiamò seccamente un altro uomo, il più anziano del gruppo.
L'uomo che aveva parlato aveva ormai i capelli bianchi, e doveva avere più di sessant'anni, a giudicare dall'aspetto. Era chinato poco distante sul quarto dei suoi prigionieri, l'unico ferito al di là di qualche graffio superficiale. Con un'occhiata Gellert valutò che sarebbe sopravvissuto, anche se doveva soffrire molto: la pelle delle sue gambe era ustionata e l'uomo si contorceva sotto il tocco delicato dell'amico che lo stava visitando. Il ferito doveva avere all'incirca l'età di Gellert, e dai suoi capelli castani, corti e disordinati, Gellert riconobbe in lui quel Segugio che aveva visto da lontano e che sapeva essere il braccio destro del capo di quella marmaglia.
Fenice, dunque, era l'ultimo uomo, inginocchiato di fronte a Gellert, che sosteneva amorevolmente il capo del Segugio. Finalmente Gellert poteva vederlo a suo piacimento.
Ed era davvero una vista da non perdersi.
In piedi doveva essere molto alto; aveva lunghi capelli rossi, annodati malamente dietro la testa per lasciare libero il viso, la corta barba, appena più scura dei capelli, e un paio di incredibili occhi azzurri che non lasciavano quelli dell'amico ferito. Era un viso incredibilmente bello.
-Chi di voi è Fenice?- aveva chiesto Gellert, come se non sapesse la risposta a quella domanda.
Allora l'uomo aveva alzato la testa di scatto e l'aveva fissato in volto. In quel momento era iniziata la follia di Gellert. Era qualcosa in quegli occhi: non era più riuscito a distogliere lo sguardo.
L'uomo che chiamavano Fenice non aveva avuto lo stesso problema. Dopo un istante aveva di nuovo chinato la testa e si era piegato a sussurrare qualcosa al prigioniero ferito. Quello aveva annuito, con gli occhi stretti per il dolore, e Fenice si era mosso lentamente, lasciando scivolare con cautela il capo del suo amico dalle ginocchia. Si era chinato ancora una volta a sfiorare la fronte del Segugio con un bacio, in un gesto così intimo che Gellert era avvampato di gelosia istintiva. Quei due erano amanti, ne era certo e l'idea gli faceva ribollire il sangue.
Infine, l'uomo che avrebbe tormentato i suoi sogni nei successivi due mesi e oltre, si alzò e gli si avvicinò tranquillamente, con il sorriso educato di uno che sta conducendo una conversazione mondana in abiti eleganti, assurdamente fuori posto sul viso di un prigioniero nudo davanti al suo aguzzino.
-Io sono Albus- si presentò cortesemente l'uomo, -ma sono quello che chiamano Fenice-.
Gellert soppresse l'istinto di stringergli la mano, e maledisse quegli occhi azzurri e quella sicurezza tranquilla che gli stavano facendo perdere terreno, in quella conversazione.
-Per quale motivo ti chiamano così, Albus?- domandò freddamente, prendendo tempo per ricomporsi.
Per tutta risposta l'uomo si girò lentamente su se stesso, fino a rivolgere a Gellert la schiena nuda.
Ma la sua schiena non era affatto nuda.
Il tatuaggio era splendido. La Fenice era grande come tutto il dorso di Albus, disegnata magistralmente. Scendeva in picchiata, con il lungo collo che seguiva morbidamente la linea del gluteo dell'uomo e il becco sul retro della sua coscia destra. Il disegno decorava solo metà del suo corpo, e solo qualche piuma rossa, blu e oro sfuggiva dalla linea sinuosa per spingersi verso la spalla sinistra, attraverso la schiena magra di Albus. La coda, con le grandi piume da pavone e gli arabeschi che le decoravano, saliva sulla spalla ed arrivava fino alla clavicola, dove Gellert non l'aveva notata prima solo perché era dell'esatto rosso dei suoi capelli. Gli occhi del disegno sembravano vivi, ed erano dello stesso stupefacente azzurro di quelli del suo proprietario.
Quando Albus si girò di nuovo verso di lui, con aria di paziente divertimento, Gellert notò per la prima volta l'altro tatuaggio, piccolo e insignificante a confronto con la meraviglia sulla schiena, che l'uomo portava a sinistra sul petto, proprio all'altezza del cuore.
Semplice inchiostro nero. Un triangolo, diviso a metà verticalmente da una linea e con inscritto un cerchio.
-Noi due dobbiamo parlare. Da soli- disse Gellert.
Albus sorrise.
-Volentieri. Potresti però farmi riavere i miei occhiali? Mi piacerebbe poterti osservare come tu hai osservato me, Gellert Grindelwald-.
Anche Gellert sorrise.

Parte seconda (AU, Marzo 1934, Due mesi di Follia, Imperius, Bondage)

Davanti alla cella, alla fine di quell'inverno pazzesco, Gellert esitò un attimo, come sempre.
Albus amava dormire fino a tardi, ed infatti tra le sbarre della porta Gellert poteva vedere la sua schiena coperta a metà dal lenzuolo, che si alzava e si abbassava al ritmo tranquillo del suo respiro.
Dentro Nurmengard la temperatura era calda, e gli agi non mancavano ai prigionieri. Gellert non credeva che le privazioni costanti piegassero gli uomini al suo volere; per quello faceva affidamento sulla ragione, e gli uomini che rinchiudeva in quella sua fortezza erano quelli che sarebbero stati utili, debitamente convinti, dalla sua parte.
E poi il caldo aveva altre attrattive. Albus lo sopportava male e preferiva dormire nudo, cosa che a Gellert non dispiaceva affatto.

-Albus- chiamò piano, dalla porta. L'uomo nel letto si mosse appena. -Albus!- ripeté più forte, e quella seconda volta la bella testa rossa del prigioniero si alzò di scatto.
In un istante l'uomo fu in piedi, sulla difensiva, esattamente come uno che per vent'anni abbia vissuto braccato e pronto a scattare ad ogni minimo rumore. Poi, guardandosi freneticamente attorno, Albus intravide quella che probabilmente per lui era solo una sfocata sagoma familiare al di là delle sbarre, e si rilassò. Pigramente alzò le braccia verso il soffitto, stirandosi come un gatto e girandosi verso il tavolino per afferrare gli occhiali, regalando a Gellert una splendida visione della fenice sulla sua schiena, luminosa e splendente nella luce del mattino.
Con gli occhiali appoggiati sul naso, Albus si avvicinò alla porta per salutarlo.
-Buongiorno, Gellert Grindelwald- gli disse, con la voce carica di ironia, ma con un bel sorriso caldo sulle labbra.
-Buongiorno, Albus che non vuole dirmi il suo cognome- gli rispose Gellert a tono.
-Perché tu possa braccare la mia famiglia? Mi dispiace, Gellert, non mi fido-.
Gellert fece il gesto teatrale di portarsi una mano sul cuore. -Mi ferisci- rispose.
Il sorriso di Albus si aprì ancora di più. -Ci feriamo sempre, no?-

Anche Gellert sorrise. La verità poteva essere veleno, o potevano semplicemente accettarla e godersi tutto il resto.
Albus si avvicinò ancora alle sbarre e protese il viso verso di lui. Si baciarono per un lungo momento, da un lato all'altro della porta della cella. Gellert fece scivolare un braccio tra le sbarre per poter posare la mano sulla nuca di Albus e cercare di avvicinarselo di più.

Quella era la follia. Albus era il suo nemico, il suo prigioniero, e Gellert lo amava disperatamente. E Albus lo ricambiava, con la stessa intensità. L'ironia della situazione trascendeva il ridicolo.
Fin dal primo istante in cui avevano parlato, Gellert si era reso conto di trovarsi, per la prima volta nella sua vita, davanti ad un uomo alla sua altezza, ad una mente e ad un potere che potevano eguagliare e forse superare i suoi. Altri uomini si sarebbero spaventati, davanti ad una simile consapevolezza. Lui si era sentito completo per la prima volta nella sua vita.
Quella loro prima conversazione, l'ironia del fatto che entrambi cercassero i Doni, l'affinità immediata delle loro menti, li aveva trascinati entrambi in un'attrazione inevitabile. E quella discussione non era stata conclusa a parole, ma sul pavimento di pietra, con i loro respiri pesanti dopo l'amplesso e il seme che si seccava tra i loro corpi.
Da quel momento le cose non avevano fatto che peggiorare.
Gellert non era più riuscito a restare lontano un solo giorno da Nurmengard e dall'uomo che rinchiudeva. L'Europa aveva tirato il fiato mentre colui che la dominava era schiavo della follia di quella passione.
Anche in quel momento, l'assurdità di tutto quello che stava succedendo colse Gellert come un pungno. Smise di baciare Albus e sospirò forte, perso nel dilemma di quell'equilibrio precario che non voleva abbandonare, ma che non poteva durare a lungo.
Albus, sempre percettivo per i suoi stati d'animo, allungò una mano tra le sbarre per accarezzargli piano una guancia. Si guardarono in silenzio per un lungo istante.
-Vieni dentro- gli disse Albus, e Gellert annuì.
Era il loro rituale quotidiano.
Albus fece un passo indietro e spalancò le braccia, immobile, in attesa.
Gellert puntò la bacchetta tra le sbarre. -Imperius- sussurrò, mirando al suo amante.
L'incantesimo colpì il bersaglio e gli occhi di Albus si fecero vacui. Solo allora Gellert disincantò il complesso lucchetto e aprì la porta. Albus, privo di volontà, rimase immobile. Gellert assicurò la bacchetta subito fuori dalla soglia della cella, in uno speciale stipo che aveva installato lì proprio a quello scopo, e che si sarebbe aperto solo con la pressione della sua mano: non avrebbe mai portato quella bacchetta nella stessa cella di Albus; la precauzione era più che necessaria.
Poi entrò nella stanza e si richiuse la porta alle spalle. Passò dall'esterno una mano sul lucchetto, richiudendolo, fiero come era sempre stato che la sua più grande qualità, come mago, fosse la sua capacità di fare a meno della bacchetta, quasi completamente. Ironico, per l'uomo che possedeva la Stecca della Morte, ma anche incredibilmente utile in quella situazione.
Quando fu certo che tutto fosse a posto -la porta chiusa, la bacchetta al sicuro- si girò verso Albus che era ancora immobile al centro della stanza, in attesa di ordini.
-Finite- pronunciò chiaramente, e l'altro si riscosse dal suo torpore.
-Ormai mi sono quasi abituato- commentò.
-Bugiardo- gli rispose Gellert. La Maledizione Imperius era particolarmente sgradevole da subire per le persone dotate di una forte volontà, come Albus e Gellert.
-L'hai messa al sicuro?- chiese Albus, avvicinandosi. -Un giorno mi piacerebbe poterla tenere in mano-.
Gellert rise. Sul suo corpo morto, forse.
-A me piacerebbe vedere il mantello, un giorno- rispose. Quella conversazione si era ormai ripetuta diverse volte. Albus scosse la testa.
-L'aveva mio fratello quando mi hai catturato. Se l'avessi avuto io, se Elphias non fosse stato ferito, non ci avresti mai presi-.
-Credi?- chiese Gellert. -Sai, Albus, se un giorno questa guerra tra noi finisse, mi piacerebbe mettermi con te in cerca della pietra-.
Albus scosse di nuovo la testa. -Se questa guerra finisse uno di noi due sarebbe morto- rispose.
Gellert gli sorrise. -Lo so,- disse, tendendo una mano e prendendo la sua, -lasciami sognare-.
Albus gli strinse la mano e poi la lasciò andare, allontanandosi da lui di un passo.
Un'altra parte del loro rituale quotidiano. Albus era pur sempre un capo tra i prigionieri, e non gli era concesso vedere spesso i suoi amici (Gellert non teneva particolarmente all'idea di avere una rivolta all'interno della sua prigione), quindi dipendeva da lui per avere notizie.
-I miei uomini?- chiese.
Gellert finse un'aria annoiata. -Ancora tutti vivi. Justus si sta riprendendo dal suo raffreddore, ti manda i suoi saluti. E' un uomo simpatico con cui parlare. Septimius e Cedrella continuano a cercare di strangolarmi con la sola volontà ogni volta che passo davanti ad una delle loro celle, ma finora non ci sono riusciti, a quanto pare-.
Gellert tacque. Se Albus voleva altre notizie, avrebbe dovuto chiederle, e lo sapeva. A metà, ogni mattina, Gellert sperava che si dimenticasse di quella domanda che lo faceva impazzire di gelosia. Ma, come aveva detto Albus, era inevitabile che loro due si ferissero sempre.
L'espressione di Gellert doveva essere eloquente, perché Albus si sentì in dovere di canzonarlo.
-E come sta il mio caro Elphias? Gli hai portato tutto il mio amore, come ti avevo chiesto?-
Gellert strinse i pugni.

Non odiava Elphias, e questo non faceva che irritarlo ancora di più. Era un uomo cortese e mite, smidollato, forse, ma non insopportabile. Ed era chiaro che Albus provava per lui un affetto che trascendeva quello per gli altri suoi compagni di prigionia.
Comunque annuì. Aveva fatto qualcosa del genere. Si era accertato che il Segugio stesse bene, che le sue ferite ormai in via di guarigione fossero trattate al meglio possibile, e che sapesse che Albus pensava a lui con affetto e che non lo aveva dimenticato. Se aveva tralasciato la parola amore, era solo un dettaglio.
-Ti manda a dire di non preoccuparti per lui- gli rispose. Omise il resto della conversazione che aveva avuto con l'altro prigioniero, la parte in cui lui gli aveva lasciato capire come e con chi passasse Albus le sue giornate, solo per vedere gli occhi dell'uomo farsi tristi per un istante, e poi sorridergli mentre lo ringraziava per aver trattato bene il suo amico.
Forse Albus non era innamorato di Elphias, ma sicuramente Elphias era innamorato di Albus, e lo sarebbe stato anche oltre il tempo che quello strano equilibrio poteva permettere a Gellert.
E quella piccola cattiveria non aveva affatto alterato quella situazione.
Irritato, Gellert si sedette sul letto di Albus.
Il suo malumore in genere faceva tremare gli uomini che avevano la sfortuna di imbattercisi, ma non Albus.
Lui si sedette dietro la sua schiena e cominciò a massaggiargli lentamente le spalle, come se volesse sciogliere la tensione che quella conversazione aveva accumulato in Gellert con il calore delle sue mani. Dopo un paio di minuti, quando già Gellert si stava rilassando, Albus si chinò verso il suo orecchio e sussurrò piano.
-Amo più te, lo sai-.
E Gellert esplose.
Albus non avrebbe dovuto amare qualcun altro, seppure di meno.

Con un gesto della mano allontanò Albus dalla propria schiena, sollevandolo da terra con un incantesimo improvvisato e spingendolo contro il muro, dall'altra parte della stanza.
Albus sembrò sorpreso dal gesto brusco, ma qualche secondo dopo già sorrideva.
Gellert, che stava controllando il suo corpo come se fosse un burattino, gli fece alzare le braccia sopra la testa, come se fosse incatenato alla parete, e Albus rise.
Gellert prese dalla tasca un sottile braccialetto di metallo e si avvicinò ad Albus per infilarglielo al polso; non appena il bracciale fu al suo posto, prese vita, cominciò ad allungarsi, stringendo anche l'altro polso e saldandosi magicamente al muro. Allora la concentrazione di Gellert poté spostarsi dal controllo del suo incantesimo della marionetta, e Gellert sorrise.
-Bastava chiedere- lo prese in giro Albus. I suoi piedi posavano sul pavimento, la sua schiena era appoggiata al muro e, nonostante la costrizione, Gellert era sicuro che quella posizione non fosse scomoda per lui. Eppure in quel momento erano paradossalmente più simili ai loro ruoli: Albus il prigioniero immobilizzato, Gellert il carceriere pronto a torturarlo. Più o meno.
-Mmm, non so se bastasse- gli disse, avvicinandosi, -non sei molto bravo a stare fermo-.
Albus lo dimostrò ampiamente, sussultando quando Gellert gli afferrò il membro già duro. -Vedi?-
-Mi distrai- replicò Albus.
Gellert ghignò. -Cerca di concentrarti- gli sussurrò, avvicinandosi al suo orecchio al punto di essere quasi completamente premuto contro di lui. Anche Gellert era eccitato, e fece in modo che Albus se ne accorgesse chiaramente.
-Non sono sicuro, ah...- Albus perse il filo del discorso mentre Gellert leccava il tatuaggio sulla sua clavicola, -non sono sicuro di riuscire a concentrarmi, se fai così-.
Gellert rise, con la bocca ancora premuta contro la pelle di Albus. -Dovresti provarci. Se continui così finiremo ancor prima di cominciare-.
-Ora, Gellert, so che sei molto fiero delle tue capacità, ma non hai ancora fatto niente di così... ah...-
Gellert si era lasciato cadere sulle ginocchia (non gli sfuggì l'ironia simbolica di quel gesto, ma scelse di ignorarla) e aveva preso in bocca la punta del membro di Albus. Da quella posizione guardò gli occhi di Albus che si chiudevano contro la sua volontà, i muscoli della sua gola contrarsi mentre deglutiva, cercando di mantenere il controllo.
Era assurdo che a Gellert piacesse tanto farglielo perdere in quel modo. Per non agevolargli il compito, prese a muoversi avanti e indietro con la testa, lentamente, ogni volta lasciando scivolare tra le proprie labbra una parte più grande del membro di Albus.
Lui tremava e, una volta tanto, sembrava non avere nulla da dire.
In quel momento Gellert lo apprezzava. Continuò a succhiare, concentrandosi sui gemiti di Albus e sui piccoli movimenti del suo bacino, fino al momento in cui si accorse che lo stava portando troppo vicino all'orgasmo. Allora lo lasciò andare e gli abbracciò i fianchi, baciandogli piano una coscia, mentre entrambi riprendevano fiato.
-Liberami le mani, Gellert- chiese Albus con voce roca, -voglio toccarti-.
Gellert scosse la testa. Aveva altri piani.
Si rialzò e si spogliò rapidamente. Albus lo fissava, di nuovo silenzioso, e Gellert si chiese brevemente quale fosse il passo successivo che voleva fare. Si avvicinò per baciarlo, e Albus gli allacciò le gambe intorno alla vita, non senza un certo sforzo, togliendogli ogni dubbio su cosa volesse.
-Ti farai male- lo rimproverò Gellert. Distogliendo un attimo l'attenzione dalla sua bocca, pronunciò un semplice incantesimo di levitazione, in modo da sostenergli i reni e rendergli più agevole la posizione. Poi sfiorò le sue natiche con le dita, e con un altro incantesimo le lubrificò, prima di penetrare leggermente il suo amante con l'indice.
Albus gli cercò la bocca di nuovo, e per un lungo momento entrambi dimenticarono la loro abituale fretta di congiungersi, godendosi la vicinanza e quel bacio. Lentamente Gellert fece scivolare un secondo dito dentro Albus, che sibilò e ricominciò a muovere il bacino, per quel poco che gli era possibile, spingendosi contro la mano di Gellert. Per qualche momento lui lo assecondò, muovendo le dita dentro Albus, godendosi i suoi gemiti e i suoi baci.
Poi si staccò decisamente da lui e fece un passo indietro, ignorando le sue proteste accennate. Quella posizione sarebbe stata impossibile anche se avessero avuto vent'anni, ed entrambi li avevano passati da un pezzo. Avevano un comodo letto a disposizione, e Gellert non aveva nessuna intenzione di massacrarli entrambi tentando qualcosa di acrobatico, per quanto gli piacesse avere Albus bloccato e completamente sotto il suo controllo, una volta ogni tanto.
Quindi rimosse con un gesto secco gli incantesimi che tenevano legato Albus alla parete e se lo trascinò dietro sul letto, e ripresero da dove si erano interrotti.

Il corpo di Albus era splendido. Gellert faticava a smettere di tracciare con le dita i contorni della fenice sulla sua schiena, seguendo le linee rosse, blu e indaco dalla base del collo fino alla metà della coscia, mentre Albus, rilassato e completamente abbandonato sul letto, si lasciava contemplare pazientemente con un mezzo sorriso.
Gellert si stese completamente sopra di lui, aderendo con tutto il corpo alla sua schiena, e gli sembrò, non per la prima volta, di percepire un vago calore che proveniva dal tatuaggio.
O forse da tutta la pelle di Albus.
Mentre entrava lentamente dentro di lui, muovendo solo i fianchi per non spezzare il contatto tra di loro, continuava a pensare a quanto gli sarebbe piaciuto poter chiamare suo quell'uomo che lo faceva impazzire. Il suo amante, il suo amore.
Ma Albus non lo era. Forse in quel momento si muoveva sotto di lui per andargli incontro, appena sollevato sui gomiti, inarcando indietro la testa quando le spinte di Gellert si facevano più intense e voltando leggermente il viso per farsi baciare. Forse in quel letto quell'amore bastava.
Però Albus non apparteneva a lui, né in quella cella, né in quel letto, nemmeno mentre Gellert, con foga disperata, ormai, possedeva il suo corpo. Apparteneva solo a sé stesso e alla sua causa, e la sua causa era distruggere Gellert.
Come faceva un pensiero così semplice a provocargli tanto dolore?
Albus gemette più forte e l'angoscia di Gellert fu sommersa un istante dal piacere, sempre più intenso, sempre più prossimo al suo apice.
-Ti piace?- chiese ansimando contro la sua nuca. La domanda era ironica, ma la richiesta era sincera.
Albus non rispose. -Più forte, per favore, Gellert- lo implorò, e Gellert sorrise fra sé mentre lo accontentava, spingendo sempre più velocemente e a fondo nella carne di Albus, perdendo la pazienza e il ritmo e anche la percezione della realtà, completamente sepolto dentro quell'uomo tanto caldo e tanto amato.
Con un grido spezzato Albus venne per primo, sporcando le coperte di seme e lasciandosi andare di botto sul materasso, imprigionando sotto il suo corpo la mano di Gellert che ancora era stretta attorno al suo membro. Gellert, ormai oltre ogni pretesa di controllo, affondò i denti nella sua spalla sinistra per soffocare il gemito che gli saliva dalla gola mentre veniva dentro di lui.

Dopo l'amore Albus di solito sonnecchiava. Anche Gellert chiudeva gli occhi e si godeva il tepore delle coperte e del corpo di Albus, ma non dormiva mai.
Dopo l'amore veniva l'angoscia.
A volte si ritrovava a pensare che avrebbe dovuto far uccidere Fenice appena l'aveva catturato, ma quel pensiero lo riempiva di un tale orrore che era costretto ad aprire gli occhi per verificare che l'uomo al suo fianco respirasse ancora. A volte si rendeva conto che in quel momento c'erano due prigionieri, in quella cella, e che se Albus era condannato a restare tra quelle mura a vita, vi sarebbe rimasto anche Gellert.
A volte, semplicemente, gli sembrava impossibile essersi perso in un sogno così simile ad un incubo; cominciava a fantasticare che tutta quella seduzione e quell'amore facessero parte di un qualche piano di Albus per privarlo del suo potere, e per avere l'occasione di ucciderlo, non appena avesse abbassato la guardia. Quell'idea gli faceva ancora più orrore delle altre, perché era quella che più di tutte poteva essere la verità. Quando quel pensiero lo ossessionava, si trovava ad abbracciare Albus che dormiva, baciandogli disperatamente le guance che gli aveva fatto rasare e le labbra appena dischiuse, senza svegliarlo.
Gellert era terrorizzato all'idea che, se le cose fossero state realmente così, non avrebbe comunque avuto la forza di star lontano da Albus.

Quel giorno, mentre i suoi pensieri imboccavano quella via di disperazione abituale, Albus dovette accorgersene, perché lottò contro il sonno e se lo tirò addosso, avvolgendolo nelle sue braccia e nelle coperte.
-Cos'hai?- gli chiese, con la voce appena un po' impastata.
-Nulla- rispose Gellert, che si sarebbe sentito ridicolo a spiegarsi.
-Sei sempre così triste, dopo- gli sussurrò Albus, chiudendo gli occhi e strofinando la bocca contro la sua spalla. -Dimmi a cosa pensi-.
-Che avrei dovuto ucciderti prima di conoscerti-.
Albus si sollevò su un gomito, osservando il suo viso con concentrazione. Gellert sostenne il suo sguardo, sfidandolo ad accusarlo di mentire.
Ma Albus sorrise di nuovo, per l'ennesima volta, con quel sorriso assurdo che riservava ai discorsi più terribili.
-Sì, avresti dovuto- disse, semplicemente.
Irritato dalla scarsa riconoscenza per la sua bontà, Gellert si sollevò a sedere, scrollandosi di dosso le braccia di Albus. -Dici? Chissà perché non l'ho fatto. Devo essermi dimenticato di dare l'ordine. Se vuoi posso rimediare-.
Albus rise di gusto. -Non l'hai fatto perché eri curioso- commentò.
Gellert assentì. All'inizio era stata la curiosità a impedirglielo, sì.
-Lo faresti, ora?-
-Dovrei farlo- rispose Gellert, ancora sinceramente. -Tu sei un pericolo continuo, mi distogli dal mio lavoro, sei una debolezza e una distrazione, sempre. E sei troppo potente perché io possa essere certo di poterti controllare. Inoltre, da vivo, sei un'istigazione continua alla rivolta. Dovrei davvero ucciderti-.
Albus si sedette a sua volta sul letto e lo abbracciò, passandogli le braccia attorno alla vita e tirandoselo contro. -Ti amo- gli sussurrò nell'orecchio, e Gellert represse un piccolo brivido.
Perché era vero, accidenti, e la vita di entrambi sarebbe stata infinitamente più semplice se quelle parole non fossero mai state dette.
-Lo so- rispose, bruscamente. Poi, sapendo che quel tono feriva Albus, anche se lui non lo dava a vedere, si addolcì appena. -Ma è facile dirlo. Fammelo vedere- scherzò.
Albus lo lasciò andare, gettò indietro la testa e rise mentre Gellert si voltava per perdersi di nuovo in quegli occhi azzurri.
Quando la risata di Albus si spense, i due uomini fecero l'amore di nuovo, e Gellert dimenticò gentilmente la realtà delle cose per la seconda volta, quel giorno, mentre Albus si muoveva dentro di lui così lentamente da farlo impazzire.
Poi rimasero nel letto fino all'ora di pranzo, per una volta senza parlare, tenendo ciascuno per sé i propri turbamenti, godendosi quel tempo rubato.

Gli elfi domestici che si occupavano dei bisogni dei prigionieri non facevano domande, per fortuna. Sembrava che per loro non ci fosse nulla di strano nel servire quotidianamente al loro padrone il pranzo in compagnia dell'uomo che era il suo prigioniero. Senza lamentarsi cambiavano le lenzuola del letto di Albus ogni volta che erano sporche e tenevano in ordine la cella che i due maghi mettevano sottosopra, quando discutevano o semplicemente passavano del tempo insieme fuori dal letto.
Se comprendevano quanto accadeva, non lo avrebbero rivelato a nessuno.
Quel giorno, con il pranzo, portarono anche una piccola pila di lettere chiuse, la corrispondenza mattutina di Gellert.
Albus mangiava sempre come se non dovesse toccare mai più cibo, e nonostante la magrezza i suoi pasti erano sempre abbondantissimi, soprattutto in contrasto con quelli di Gellert, che spiluccava qualcosa svogliatamente, da sempre poco interessato al cibo.
Mentre Albus trangugiava il secondo piatto di patate, Gellert, che aveva già finito, cominciò distrattamente a scorrere la sua corrispondenza.
-Qualcosa di interessante?- chiese Albus, pulendosi la bocca nel tovagliolo, mentre adocchiava la porzione di dolce che lo attendeva per concludere i pasto.
-Niente che ti riguardi, notizie dalla Polonia... dal Belgio...- rispose distrattamente Gellert, prendendo la lettera successiva.
-E quella?- chiese Albus, indicando la busta che Gellert aveva in mano. -L'indirizzo è in inglese-.
-E' solo una lettera di mia zia-.
-Perché non sapevo che hai una zia inglese?- chiese Albus, incuriosito. Gellert alzò gli occhi su di lui solo per vederlo ficcarsi in bocca l'ennesimo boccone di torta, e riportò lo sguardo sulla lettera.
-Perché non ti fai gli affari tuoi? E' una cara, noiosissima vecchietta. Vive a Godric's Hollow, un paesino sperduto chissà dove che probabilmente non hai mai sentito nominare. Mi racconta tutto quello che succede, vediamo... sta scrivendo un nuovo libro, il tempo migliora e così la sua artrite, uno dei figli della sua vicina non si fa vivo da un paio di mesi... be', zia Bathilda sospetta che sia scappato con una ragazza... che altro dice...-
Il piatto di Albus si fracassò sul pavimento. Gellert sollevò di scatto la testa. Gli occhi azzurri erano sorridenti come al solito.
-Che sbadato che sono. Ho rovinato il dolce- disse Albus, chinandosi a raccogliere i pezzi di porcellana prima che Gellert potesse chiamare un elfo domestico a pulire.
-Puoi prendere il mio-. Passò ad Albus il piatto intonso con la sua porzione di dessert, ma Albus lo rifiutò.
-No, grazie, credo di aver mangiato fin troppo- rispose. -Da quando sono qui faccio una vita troppo sedentaria per abbuffarmi così, finirò per ingrassare. Che ne dici di venire qui e aiutarmi a fare un po' di moto?-
Sorridendo degli appetiti smisurati dell'amante, Gellert si alzò dalla sedia.
-Sei un po' pallido, Albus,- notò, mentre si chinava verso di lui per baciarlo. -Sicuro di sentirti bene?-
Albus non rispose; gli allacciò le braccia attorno al collo e lo trascinò verso il basso, verso la sua bocca e la sua pelle calda, di nuovo preda di quell'amore impossibile e del piacere che gli regalava.

Parte terza (AU, Marzo 1934, Due mesi di Follia)

-Mi manca la luce del sole- disse Albus a Gellert qualche mattina dopo.
-Non ho intenzione di portarti fuori- rispose Gellert. -Ricordati che sei un prigioniero-.
Albus gli sorrise e gli fece cenno di avvicinarglisi, nel punto della cella dove era fermo in piedi, accanto alla piccola finestra. Gellert si mise al suo fianco e Albus gli passò un braccio attorno alla vita. Guardarono insieme i prati verdi davanti a Nurmengard e la foresta che la circondava, anch'essa per una volta illuminata dalla luce splendente del primo sole di primavera.
-Questo posto è bellissimo- commentò, con un filo di malinconia nella voce. -Se solo tu potessi fidarti di me, Gellert...-
Ci mancava solo che Gellert si sentisse in colpa per non aver fiducia nel suo più acerrimo nemico, per rendere tutto più assurdo; eppure era esattamente quello che il mago provava, davanti agli occhi tristi di Albus. Senso di colpa e il dispiacere di non poter esaudire una richiesta così semplice. Albus dovette leggergli in viso che soffriva, perché gli rivolse uno dei suoi sorrisi.
-Fai bene- gli disse, -sai che se potessi scapperei-.
Gellert annuì. -Al tuo posto farei lo stesso- aggiunse, per onestà.
L'amore era bellissimo, ma non bastava a cambiare le cose. Gellert pensava di essere l'unico uomo a poter conquistare, dominare e portare ad un nuovo splendore l'Europa intera. Albus chiamava quel suo sogno dittatura e tirannia, e lo combatteva con tutte le sue forze. Quei punti li avevano già discussi infinite volte, cercando un compromesso accettabile per entrambi che non esisteva, a meno di considerare che lo fosse la prigionia di Albus e la consapevolezza che la sua presenza sottraeva tempo ai piani di guerra di Gellert, rallentandoli.
Non c'era altro da dire. Ma in quella situazione di stallo, tutto sarebbe stato più accettabile se Gellert avesse potuto semplicemente lasciar perdere la cautela e godersi Albus.
Albus gli arruffò giocosamente i capelli, vedendolo di nuovo perso nei suoi pensieri, poi si voltò ancora verso la finestra, come se non potesse fare a meno di cercare l'aria e la luce di fuori. La fenice tatuata sulla sua schiena nuda splendeva anche così in ombra, scomparendo nei pantaloni che il mago indossava e provocando come al solito in Gellert il desiderio di togliergli anche quell'unico indumento, e vedere per intero il magnifico disegno e il corpo che decorava.
Ah, poterlo portare alla luce del sole, avere quella libertà... Gellert non poteva permettersi neanche quel desiderio.
-Però...- disse Albus, come sovrappensiero. Gellert attese che continuasse. -Però quando mi metti sotto Imperius per entrare qui, ricordo quello che mi succede, anche se non posso agire di mia volontà. Così non potrei scappare-.
Gellert sgranò gli occhi. -Sopporteresti la Maledizione per dieci minuti di sole?- chiese, incredulo.
-Dieci minuti là fuori con te?- disse Albus, voltandosi a guardarlo. -Anche se fosse la Maledizione Cruciatus-.
-Tu sei pazzo, Albus- commentò Gellert, scuotendo la testa.
-Facile dirlo, per te. Tu esci di qui, ogni tanto- lo rimbeccò Albus.
-Sei sicuro?- chiese Gellert. Lo desiderava così tanto...
Albus sembrò esitare un istante appena, e rabbuiarsi, ma poi di nuovo gli sorrise. -Sicuro- gli disse.
-E sia- concesse Gellert, e vide Albus aprire le braccia in un gesto familiare, aspettando col viso ridente che l'amore della sua vita lo colpisse con una Maledizione Senza Perdono.

Gellert odiava mettere Albus sotto Imperio. Non aveva nemmeno uno scrupolo a farlo, era troppo importante, ma non significava che gli piacesse. Costringerlo ai suoi voleri, controllarlo in altri modi non era un problema, soprattutto quando facevano l'amore. Quei giochetti divertivano entrambi. Ma l'Imperius annullava la sua volontà, e Gellert amava quella volontà, nonostante tutto.
Probabilmente fu il disgusto per quello che stava facendo a far scattare la trappola, inesorabilmente.

Gellert puntò la mano verso il petto offerto di Albus e mormorò la Maledizione. Gli occhi bellissimi di Albus si fecero istantaneamente vaghi e fissi.
Ma stavano per uscire di lì, finalmente, dopo due mesi di reclusione che anche Gellert aveva sofferto, se pure meno che Albus.
Il mago aprì la cella e recuperò la bacchetta con il suo solito rituale di quando lo salutava la sera, poi ordinò a quell'Albus privo di volontà di seguirlo nel corridoio, giù per le scale (fu costretto a sostenerlo, perché trascinava i piedi e inciampava nei gradini), e poi fuori dalla prigione, all'aria aperta. Poco lontano c'era un piccolo lago tranquillo, un angolo di paradiso dove spesso Gellert andava a meditare mentre seguiva i lavori di costruzione della sua prigione. Fu lì che condusse Albus, sperando che apprezzasse la vista di quel luogo e ne facesse tesoro, una volta tornato nella sua cella.
Giunto sulla riva sassosa, si sedette sull'erba a godersi il sole. Albus restò in piedi al suo fianco, immobile finché Gellert non ricordò di ordinargli di sedersi vicino a lui.
Sotto il sole, che sembrava accecante dopo la penombra smorzata all'interno della fortezza, i capelli di Albus erano fiamma viva. Gellert restò un lungo momento a contemplare la luce che vi guizzava sopra, abbastanza concentrato per non notare che finché non fu troppo tardi che Albus si muoveva.
-Petrificus Totalus- sentì, prima di ritrovarsi completamente rigido, incapace di spostare anche solo una mano.
Un istante dopo, Albus si inginocchiava davanti a lui, impotente e immobilizzato, e gli scostava con tenerezza una ciocca di capelli dal volto. Era sudato come se avesse corso per mezza giornata, e respirava affannosamente.
-Lo fai sembrare così facile- commentò, ironico. -Avevo dimenticato quanto fosse stancante fare incantesimi senza bacchetta-.
Gentilmente, come se non volesse fargli male, Albus sfilò dalle sue dita rigide la Bacchetta di Sambuco.
-Credo che non sarà più un problema, però- continuò. -Ti ho battuto, Amore, e se non sbaglio questa è mia-. Nella sua mano la bacchetta produsse una cascata di scintille dorate che illuminarono ulteriormente la giornata già luminosa.
Gellert continuava a non potersi muovere. E forse non voleva farlo.
-Gellert...- disse Albus. -Ti prego, credimi-. Era mortalmente serio. -Sono sempre stato sincero. Mi dispiace di averti fatto questo, ma dovevo. Sotto il mio materasso c'è una lettera che ti spiega tutto. Tra poco l'incantesimo finirà, e io sarò già lontano-.
Esitò un attimo appena, poi si chinò verso il volto di pietra di Gellert e gli baciò la bocca, insinuando la lingua tra le sue labbra appena dischiuse, nel primo dei suoi baci che Gellert non ricambiò.
-Ti amo, Gellert Grindelwald- concluse, alzandosi. -Ma evidentemente tu ed io siamo sempre destinati a ferirci-.
Poi scomparve correndo oltre il lago, verso la foresta e i confini del territorio della prigione, oltre i quali avrebbe potuto smaterializzarsi per essere in Inghilterra in pochi istanti.
Lasciò sul prato Gellert seduto, immobilizzato dall'incantesimo e dal suo stupore, che non poté fare altro che seguire con gli occhi la sua Fenice che si allontanava per sempre.

Epilogo

La lettera era esattamente dove Albus aveva detto che l'avrebbe trovata.
Mezz'ora dopo la fuga dell'uomo, Gellert era tornato padrone del proprio corpo ed era andato a cercarla. Inutile, a quel punto, allertare qualcuno della fuga di Albus. Poteva aspettare finché non fossero state chiare le ragioni di quanto era accaduto, e finché la sua mente non avesse ritrovato abbastanza lucidità da decidere il da farsi. Gellert non prendeva mai decisioni quando era ubriaco o sconvolto, e in quel momento si sentiva entrambe le cose.
Nella stanza di Albus si sedette sul letto che quella stessa mattina aveva diviso con lui, e lesse le sue parole.

Mein Liebling Gellert,
lo so, hai sempre detto che non potevi chiamarmi "amore mio". Avevi ragione, come su tante altre cose, perché io non ti appartengo e tu non appartieni a me, oggi ancora meno che l'ultima volta che ne abbiamo parlato.
Ma così io penso a te quando sono solo, Gellert. Il mio amore. E per una volta mi permetterò di chiamarti così.
Perdonami se non ti scrivo questa lettera nel tedesco della tua infanzia, quello che borbotti quando mi credi addormentato e non sai che ti ascolto; la vita del ribelle che combatte nei boschi ha molte virtù, ma non lascia tempo per imparare le lingue.
Farò sfoggio del poco che conosco.
Auf Weidersehen, dunque, perché ci rivedremo, Gellert. Non posso pensare che sia finita così, tra di noi. Ci rivedremo e se è possibile senza ucciderci. Altrimenti, ci rivedremo Oltre.
Non sono fuggito da te, Gellert. Sono fuggito per mettere in salvo la mia famiglia, perché tu non sai quanto sei stato vicino a scoprirli. La colpa è tutta di tua zia e di quella sua maledetta lettera. Lo sai che sono cresciuto a Godric's Hollow? Tua zia Bathilda conosce bene me e i miei fratelli. Ma quando leggerai queste parole, io sarò già con loro a portarli lontano. Non cercarli, amore.
Prenditela con me. Non cercare la mia famiglia e non fare del male ai miei amici. Fuggo fidandomi del tuo onore, che so non permetterà che tu faccia ricadere la mia colpa sui miei cari. Di' loro che non li ho dimenticati, ed ecco, vedi, ci rivedremo quando verrò a riprendermeli. Di' ad Elphias che lo amo, ma sappi che ho amato più te in ogni momento.
E ancora ti amo, liebling. E non ti crucciare, non potevi prevedere la mia fuga, non potevi sapere che già da settimane resistevo alla tua Maledizione Imperius, quando non usavi la Bacchetta, per farla. Non potevi immaginare che non lottassi per poter passare ancora un altro giorno con te.
Ma adesso quel tempo è finito ed è ora che io vada.
Non ti dico abschied, perché ovunque io fugga e ovunque tu sia, sarò sempre il tuo
Albus Dumbledore.

Per ore Gellert rimase immobile, seduto sul letto nella cella vuota, con la lettera in mano, a soppesare le parole vergate con cura, e tutte quelle dette ed udite in quella stessa stanza, nei due folli mesi che aveva diviso con Albus.
Non si curò del sole che calava sulla giornata ancora corta, né del tempo sprecato.
Alla fine giunse alla stessa conclusione a cui era giunto Albus: non era finita, per quanto si sentisse lacerare già dopo poche ore dall'assenza di lui.
Non era finita e lui aveva ancora una guerra da combattere e, se era fortunato, un nemico da incontrare.

Note noiose:
Mein Liebling significa "Amore mio".
Auf Weidersehen significa "arrivederci, mentre abschied significa "addio".
Tutto questo sfoggio di tedesco è solo merito di zia_chu , che è stata splendida e adorabile e si è prestata in più di un'occasione a salvarmi dalla mia conoscenza inesistente di questa ligua. Grazie, sorellina. ^___^

Quindi, buon anno davvero, gente. Il mio augurio è che questo primo gennaio sia splendido, ma comunque meno dell'anno che lo seguirà. ^__^

regenbogen challenge, trilogia e altre storie, rating: nc-17, albus/gellert, my fic

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