Filosofia spiccia applicata ai videogiochi

Mar 08, 2010 15:03




Il post dell'altro giorno su Prince on Persia mi ha dato modo di ripensare al mondo dei videogiochi. Mondo che, lo ammetto, non frequento più da anni, tranne che per i giochi di calcio manageriale, che continuo a utilizzare.
Non frequento più questo mondo soprattutto per mancanza di tempo. Ma, lo ammetto, anche perché i videogiochi, sempre più esteticamente raffinati, hanno perso quella capacità di distrarmi e al contempo di farmi sognare.
Il mio genere preferito, calcio manageriale a parte, è sempre stato quello degli sparatutto in prima persona. Ne ho giocati parecchi, alcuni davvero molto divertenti. Eppure, ripensandoci a freddo, nessuno mi ha più dato quelle sensazioni sublimi che mi trasmetteva una sana partita a Doom. Nella sua semplicità era perfetto: un marine spaziale contro i mostri tecno-demoniaci vomitati da un mondo infernale. Ambienti ricreati ad hoc, musiche terrorizzanti, scontri all'ultimo sangue, nemici tanto orripilanti quanto carismatici.

Visto che di Doom ho già parlato tante volte, permettetevi di citare un altro titolo che fa parte della mia giovinezza: Double Dragon. Trama lineare (salvare la fidanzata rubata dal bruto di turno), giocabilità massima, atmosfere che miscelano I guerrieri della notte, Kenshiro e Mad Max, difficoltà in crescendo, incitando il gioco di squadra.

Cambiando decisamente genere, ecco un altro gioco che ha segnato il sottoscritto: Indiana Jones and the Fate of Atlantis, un videogioco d'avventura pubblicato nel 1992 dalla Lucasarts. Non era basato sulla trama di uno dei film, bensì su una storia originale appositamente creata per esso. Pur essendo un prodotto assai datato, aveva una complessità ben calibrata e poteva essere giocato in tre modalità diverse, preferendo, di volta in volta, l'azione, il ragionamento o il gioco di squadra. La grafica, per quei tempi, era molto buona, e così anche il sonoro.




Dei giochi venuti negli anni successivi ne ho apprezzati molti, ma la mia passione è andata via via scemando. L'ultime vere e proprie ondate di entusiasmo le ho avute coi primi due Resident Evil, già da considerarsi di un altro pianeta rispetto ai vecchissimi arcade con cui sono cresciuto. Poi, pian piano, la giocabilità ha lasciato il posto all'estetica. I giochi sono diventati dei veri e propri film di peso specifico immane, con effetti speciali sempre più strabilianti e una giocabilità sempre più spesso riservata ai professionisti del joypad. Per finire alcuni titoli occorre un vero e proprio allenamento specifico, nonché lo studio di manuali e la consultazione di forum su Internet.
Senza contare le nuove funzioni di gioco online, che non credo di aver mai provato.

So che molti di voi ora inizieranno a elencare una sequela di titoli affermando che mi sbaglio, e che i videogiochi sono oramai elevati a livello di arte. Magari in certi casi è anche vero, non dico di no. Eppure a me pare che la ricerca dell'estetica imperante, del dettaglio grafico perfetto, sia andata ad ammazzare lentamente il principio secondo cui il gioco dovrebbe divertire e aguzzare l'ingegno, senza però elevarlo a livello di attività semiprofessionale.
Oltre a questo mi pare un po' persa la spontanea ingenuità di certi videogames elencati in questo post, e di moltissimi altri altrettanto belli (Shinobi, Altered Beast, Golden Axe, Street Fighter, Myst, The Dig, etc etc).
Che poi, in un certo senso, è anche ciò che sta accadendo al cinema: effetti speciali, botti, inseguimenti, 3D, CGI e altri orpelli stanno sostituendo il gusto di una buona storia, magari fatta di mostri di cartongesso e di vampiri dalle zanne posticce.
Non solo, volendo fare a ogni costo il filosofo, direi che è anche ciò che accade nella società: apparire conta sempre più che non essere.
L'estetica fine a se stessa ci ammazzerà tutti.

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L'introduzione di The Dig - prodotto da LucasArts nel 1995


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