Ci siamo, ragazzi! La Notte Bianca Referendaria parte adesso, e si concluderà fra una trentina di ore, alle 15.00 precise di lunedì. E... ricordate che vi abbiamo promesso qualcosa di particolare dedicato al voto? Ebbene, se andrete a votare (se? Andate a votare!) e riuscirete a scansionare la vostra tessera elettorale/farle una foto/screencapparla
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ACCUMMOGLIA' (dial. coprire, arrabbattare)
È indecentemente presto, persino per gli standard di una persona normale - c’è a malapena il sole nel cielo, per dire, e magari Guè non è proprio un esperto di come è organizzato il bioritmo della maggior parte della gente, ma è piuttosto sicuro che quando è ancora tutto sommariamente buio siano decisamente pochi e poco raccomandabili quelli che s’arrischiano a mettere il naso fuori di casa, - quand Guè si costringe a trascinarsi fuori dalla camera da letto e ciabattare stancamente fino in cucina, perché ha sentito un rumore di posate e pentole precipitate al suolo che non gli è per nulla piaciuto.
Regolare, gli capita spesso di ospitare festini che si risolvono con una o più persone in coma etilico a sonnecchiargli sul divano, che poi puntualmente la mattina successiva gli distruggono mezza casa nel tentativo un po’ maldestro di prepararsi la colazione, ma ieri è andato in giro per locali, non ha fatto casino qui dentro, perciò non c’è nessunissima ragione al mondo per cui dovrebbe esserci qualcuno nella sua cucina, a meno che non si tratti di ladri, ecco, nel qual caso non sarebbe un gran bella notizia.
Guè si affaccia sulla porta e, quando vede un paio di pantaloni di una tuta che è piuttosto certo siano i propri stretti attorno alle gambe muscolose - le gambe, Guè, gli stai guardando le gambe, non il culo, convincitene, - di un ragazzo dalla pelle ridicolmente dorata, di punto in bianco si ricorda esattamente cos’è che ha fatto ieri sera, o meglio, chi è che ha incontrato, o, meglio ancora, chi è che si è portato a casa.
Cristo.
Guè deve aver bestemmiato a voce alta, senza neppure accorgersene, troppo preso dalla contemplazione del cul - della propria stupidità, cioè, ed è una stupidità davvero monumentale, Cristo santo, altrimenti come avrebbe potuto permettere ad uno così di infilarglisi a letto?, perché Marco si volta verso di lui con un’espressione vagamente sorpresa, che si scioglie velocissima in un sorriso a metà strada tra il seducente, l’affettuoso e l’irrecuperabilmente stronzo.
«Ma sei già in piedi?» domanda, nudo fino alla cintola, e non ha addosso neanche le mutande, Cristo benedetto, s’è infilato i pantaloni di Guè sulla pelle nuda, ed è disgustoso, giusto? È disgustso e maleducato, per cui, Guè, non c’è assolutamente bisogno che ti venga voglia di mordergli l’osso sporgente del fianco, magari sarebbe megli tirargli giù i pantaloni, ma solo perché, Dio santo, non sono neppure i suoi e li ha messi senza mutande, non per altre ragioni. Proprio no.
«Mi hai svegliato col casino che hai fatto.»
«Scusami, ma ’sta cucina è ’na tal ammuin’ ca bast’ ca m’ mov’ e facc’ carè coccos’, (*)» ridacchia Marco, e Guè non ha capito praticamente un accidente di quello che ha detto, perciò gli si avvicina, gli si avvicina, gli si avvicina e si ferma accanto a lui davanti al lavello, gli appoggia una mano sulla base della schiena, proprio dove il suo corpo fa una curva meravigliosa e quasi femminile per definirgli le natiche, e Marco è impensabilmente caldo sotto le sue dita, e morbido. Guè ricorda vagamente sulla lingua il sapore della sua pelle in quel punto, dove ha premuto le labbra almeno un milione di volte stanotte, e rabbrividisce appena. Marco se ne accorge, sorride, gli si avvicina tanto da mozzargli il fiato e non lo bacia.
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«Parla potabile, stronzetto,» bisbiglia Guè, forte appena da farsi sentire e morto dalla voglia di aggredire la bocca di Marco, che sarà pure la creatura più disgustosamente petulante di questa terra ma, Cristo, ha in sé qualcosa che fa impazzire Guè da capo a piedi. Non è giusto e non ha senso, ma Marco ha quella faccia lì e Guè non può fare altro che guardarlo da così vicino e sentirsi un po’ male. «Non capisco una sega quando parli terrone.»
«Prima del caffè, el milanés proprio non mi viene,» lo prende in giro Marco, che alla fine è milanese quanto lui, Guè l’ha imparato sentendolo gemere a voce alta una vocale più chiusa dell’altra e urlare parolacce che sotto Roma non riconoscerebbero neanche; però ci tiene, Marco, a tirare su barriere, e mentre finalmente lo bacia e gli spinge l’elastico dei pantaloni in giù oltre i fianchi e sulle cosce, Guè pensa distrattamente che finché gli si spoglia morbido e rotondo sotto le dita, può insultarlo nel dialetto napoletano più stretto che conosce. Finché schiude le labbra contro le sue in quel modo, strusciandoglisi addosso come se non stesse aspettando di fare altro, Marco può parlargli in tutte le lingue che gli pare e fargli a pezzi la cucina, non gl’interessa davvero.
(*): Scusami, ma questa cucina è talmente disordinata che basta che io mi muova per far cadere qualcosa.
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