Titolo:
La fisica delle anime stancheAutore:
WarHamsterFandom: originale romantico
Rating: giallo
Parole: 711 (contatore word)
Avvertimenti: slash, angst, tematiche delicate, vagamente nonsense
Prompt: #469. Eco di un legame
Riassunto: Marco pensa di vedere tutti i colori, di provare tutte le emozioni, pensa di essere puramente se stesso, unico e inimitabile.
Figlio di una cultura pop da catena di montaggio, da stampa ripetitiva e produzione di massa con solo l’illusione dell’autenticità, incontra Roberto.
Due gocce che si scontrano e si fondono, due animi erranti, affini e distanti.
Due moti scomposti che nemmeno Heisenberg può spiegare.
Note: Non so esattamente dove mi porterà questa storia, cos’ho in serbo io per lei e cosa lei per me, ciò che so è che seguirà il fluire dei miei pensieri, perciò la trama non è ancora scritta e il suo destino può cambiare da un momento all’altro.
I capitoli non seguono l’ordine cronologico della vicenda (trama e intreccio sono sfalsati) che è invece indicato dal numero della parte (che saranno in totale 6, credo).
Questa storia gravita attorno alla fisica tentando di spingersi anche nella filosofia, campo che resterà però per lo più inesplorato.
Non specificherò dov’è ambientata questa storia, almeno non credo (ma può darsi che poi lo faccia), vi basti sapere che ci troviamo nel Piemonte occidentale (Chivasso è una piccola città vicino Torino).
Emiren non è un cognome di fantasia, esiste davvero, così come esistono persone che non sanno dire la “r” (e sono spassosissime).
La canzone citata all’inizio è Night Drive dei Gotye.
Mi auguro che vi possa piacere, buona lettura.
La fisica delle anime stanche Parte V » R Let the dashboard underscore
Everything we've seen
While the world plays for our pleasure
Il professor De Castro non insegna più in quella classe, e nemmeno in quella scuola, probabilmente non insegna più e basta; l’ha detto la vicepreside quella mattina, come se non lo sapessero già tutti.
Presenta il nuovo professore dopo tanti supplenti, anche se manca solo un mese all’estate, e in 4°D un banco è vuoto. Marco non va a scuola da due settimane - Marco se n’è andato e non ritorna più canticchia divertita una delle sue compagne - e nessuno si preoccupa, essere strambi è la regola, o almeno tentare di esserlo.
Marco sta mangiando svogliato una caramella sul treno per Aosta. Gusto cola, dolce e un po’ acida, la felicità in 10 centesimi, in 10 secondi. E già gli basta.
Marco ha gli occhi scuri e le scarpe larghe - Si portano così, mamma! - e una volta pensava di essere diverso da tutti gli altri, alternativo; ora mastica goleador su un treno per pendolari e non ha una grande opinione di sé.
La verità è che fino all’anno scorso era tutto diverso, era uno studente modello - modello degenere, alternativo modello - uno di quelli che la presidenza etichettava come “normale amministrazione”, ce n’erano tanti come lui al liceo artistico. Fatti con lo stampino, finti artisti, maschere pretenziose alla ricerca di una ben lontana individualità, troppo presi dall’essere alternativi per rendersi conto di come il loro diverso fosse in realtà tutto uguale.
Ma Marco non disegnava più, e non si improvvisava giocoliere fuori da scuola, non si fingeva più un circense di periferia. Da mesi ormai leggeva in ogni momento del giorno, e quando non leggeva tamburellava sul banco con una matita, scandiva il ritmo dei suoi pensieri, come se potessero sfuggirgli da un momento all’altro.
Marco non fumava più, diceva di non averne più bisogno, da quando leggeva Hemingway. Marco non dipingeva più, diceva di non averne più voglia, da quando leggeva Kerouac. Marco stava sempre a fissare il mondo, diceva che era diverso, da quando leggeva Heisenberg.
E aveva smesso di sembrare felice, da quel giorno di aprile, da quando aveva letto se stesso.
Molti pensavano che Marco fosse strambo, altri lo prendevano come un modello da imitare, lui lasciava correre, se ne stava con le testa riccia affondata fra le pagine e chiudeva le orecchie.
Poi si sono dimenticati di lui, come ci si dimentica dei compiti di inglese e delle matite HB. Come una moda passata, un diverso che non urla abbastanza forte la sua diversità; non la ostenta, la nasconde.
Era cominciato tutto a settembre, come cominciano gran parte delle cose, quando c’è ancora il sole ma il vento ti obbliga a restare in casa.
Marco era entrato a scuola - Almeno il primo giorno! aveva detto ridendo ai suoi amici, pronti a svignarsela su un treno per Torino - i capelli neri aggrovigliati come un nido di merli. E c’era quell’uomo - omino aveva pensato all’inizio, quando ancora non vedeva quanto fosse grandioso - sottile come un giunco, le mani magre, nodose, che sfarfallavano febbrilmente in aria. Roberto De Castro, si chiamava, Marco schioccò la lingua scocciato.
«Qualcosa non va, Emiren?» aveva pronunciato correttamente il suo cognome, ma questo non l’avrebbe reso meno ostile.
Marco non sapeva fare tante cose, non sapeva cucinare un uovo in camicia, non mandava a memoria il 5 maggio, non riusciva mai a finire i cruciverba, e non sapeva dire la r.
Lo sapevano tutti a scuola, Marco Emiren non sapeva dire la r, Ma’co Emi’en.
Era stato così che ‘obe’to De Cast’o, l’uomo con il nome a lui più ostico, cominciò a pretendere di insegnargli la fisica.
Era stato così che Marco si era ritrovato fermo su un treno alla stazione di Chivasso una mattina di giugno. La voce metallica degli altoparlanti snocciolava numeri e destinazioni, Marco masticava svogliato, quasi per inerzia, mentre pensava alla patente che non avrebbe preso, alla pagella che non avrebbe ritirato, alle candeline che non avrebbe spento. Compiva diciotto anni quel giorno, e aveva preso quel treno per dirsi che, sì, ora poteva farlo; sì, era grande abbastanza, per cosa, questo nemmeno lui lo sapeva.
Era stato così che ‘obe’to si era fermato e Marco era partito, fra una pomeriggio di aprile e una mattina di giugno, fra i banchi di un’aula troppo stretta e leggi del moto tutte da riscrivere.