Titolo: La strega del bosco
Fandom: Harry Potter
Personaggi: Merope Gaunt, Tom Riddle senior, Orfin Gaunt, Orvoloson Gaunt - Tom/Merope
Parte: 1/2
Rating: 18+
Genere: drammatico, introspettivo
Conteggio Parole: 12.044
Riassunto: Una storia spero un po’ diversa dal solito; di diversi amori malati, di fragilità umana, di inganni e sotterfugi. Di chi resta vittima delle proprie trappole.
Note: violenza, non-con, incest, contenuti forti.
SONO COSTRETTA A DIVIDERE IL RACCONTO PERCHE' TROPPO LUNGO (D:)
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Titolo della storia: La strega del bosco
Pacchetto scelto/coppia: 6°: La coppia da me scelta è Tom Riddle Sr./Merope Gaunt.
Dato che la coppia non è tra le più usate, vi lascio scegliere tra l'Incantesimo del Voto Infrangibile e l'Incanto Patronus.
Come caratteristiche vorrei che Tom fosse estremamente insinuante, il genere di persona meschina che nasconde bene la propria indole, e che Merope fosse fragile, molto delicata sul piano emotivo e psicologico.
Note: Vi ricordo che Merope è brutta. Lo so, pure a me dispiace, però la triste verità è questa. Sono sicura comunque che riuscirete a trovarle dei pregi!
Raiting: rosso
Contesto: Beh, durante la vita di Merope XD
Genere: introspettivo, drammatico
Note/avvertimenti: violenza, incest, non con, tematiche delicate, chi più ne ha più ne metta.
Introduzione: Una storia spero un po’ diversa dal solito; di diversi amori malati, di fragilità umana, di inganni e sotterfugi. Di chi resta vittima delle proprie trappole.
***
Dal testo:
“Merope si fermò, raddrizzando la schiena e fissando spaventata il sentiero. Vide un cavallo all’orizzonte, poi due: due esemplari maestosi, dal manto lucido.
Erano due ragazzi a cavalcarli e Merope rimase incantata ad osservare il primo di loro, che fermò il destriero con sorprendente agilità.
[…]
Non sapeva cosa fosse successo, si sentiva strana, come confusa ma felice. Un sorriso nacque spontaneo sul suo volto e Merope scoprì che le sue mani tremavano, mentre finiva di raccogliere le bacche.
Tornerò, si disse, ignorando per la prima volta un suggerimento della mamma.
[…]
Tom pensò alla sua vita, a quella che era stata la sua visione del mondo e a quello che gli si prospettava in futuro. Pensò e meditò, e la ragazza - gli pareva di ricordare che si chiamasse Merope; un nome decisamente altisonante che faceva enorme contrasto con il suo corpo e la sua condizione - continuava a comparire nella sua mente, e lui ne analizzava ogni sfaccettatura, come se fosse stato un altro dei suoi argomenti di studi.
[…]
La vedeva e la vedeva, e più vedeva e più capiva, e più capiva più un sorriso, sadico, si disegnava sul suo volto.”
Note dell'Autore: Credo che questa storia abbia bisogno di così tante note da doverle mettere alla fine, anche solo per non rovinarti la sorpresa, giudiciA =..= ci si vede dopo! u.u
La strega del bosco
Merope aveva pochi ricordi della mamma, ma li custodiva gelosamente, perché erano anche gli unici ricordi felici che avesse.
Ricordava vagamente i lineamenti del suo viso - sempre abbruttiti da qualche livido, perché Orvoloson la picchiava un giorno sì e l’altro pure -, ma la sua voce dolce e calda era impressa nella sua mente. La mamma le cantava la ninna nanna tutte le sere, le aveva insegnato a leggere e a scrivere, la portava con sé nel bosco a raccogliere le erbe. I rudimenti della magia li aveva imparati tutti grazie a lei, e lei in un certo senso aveva anche contribuito a proteggerla dalla paura che regnava sovrana in casa Gaunt.
Perché, da quando era morta, e Merope aveva appena nove anni, il mondo aveva iniziato a girare diversamente, e Orvoloson aveva preso a picchiarla come in precedenza faceva con la mamma - e la chiamava stupida, puttana, Magonò ed incapace; tutti epiteti che rivolgeva anche alla mamma, prima, tanto che Merope non sapeva neppure quale fosse stato il suo vero nome.
Oltre a ciò, suo fratello Orfin la prendeva in giro e la guardava in un modo che le metteva i brividi, e così la già poca magia di Merope era andata scemando, sommersa dal terrore che vivere con quei due uomini le incuteva. Non poteva scappare, era appena una bambina, e non poteva neppure sottrarsi alle punizioni che riceveva giornalmente. Doveva solo sopportare.
La sua mamma, prima di morire, le aveva dato un solo consiglio: “Se vuoi andartene da qui, un giorno, e riscattare la tua posizione, impara bene la magia. Studia sempre, piccola stella, e allora potrai partire e non tornare mai più.”
Nonostante il terrore soffocante che le attanagliava le viscere, quindi, e nonostante la magia scemasse sempre, in presenza di Orvoloson o di Orfin, Merope si era messa d’impegno e, con la scusa di raccogliere erbe, usciva di casa con alcuni dei pochi libri di testo magici che possedeva. Nella foresta, in mezzo alla natura rilassante, Merope si concentrava sul pensiero della mamma per ripassare il poco che sapeva, e si sforzava di leggere nonostante gli occhi strabici per apprendere cose nuove. La sua magia rifioriva, il terrore si allentava, e Merope si riscopriva strega, anche discretamente capace.
Era il suo segreto e l’avrebbe portato sempre con sé, nel cuore, fino a che non se ne sarebbe potuta andare. Si immaginava un futuro in una piccola casa di pietra in mezzo alla foresta, come la sua, ma senza Orvoloson né Orfin. Allora lei sarebbe stata padrona dei suoi incantesimi e la casetta sarebbe stata sempre pulita e profumata, e il cibo avrebbe avuto un sapore migliore e lei sarebbe stata bella, molto più bella di ogni altra ragazza, e tutti l’avrebbero amata e rispettata.
Era il suo sogno, e le dava la forza di andare avanti, giorno per giorno.
*
Orfin aveva iniziato a trasformare gli sguardi in altro dopo che lei aveva compiuto dodici anni.
Merope non era bella: aveva i capelli scuri e disordinati, stopposi; gli occhi strabici che spiccavano sopra gli zigomi accentuati in maniera esagerata; la pelle grigia, che sembrava malata, tirata in più punti; i fianchi larghi e le braccia leggermente più lunghe del normale. Merope non era bella, ma stava crescendo, e Orfin aveva qualche anno più di lei ed era un ragazzo disturbato, che si divertiva a parlare con i serpenti e a torturarli. Sua sorella era l’unica ragazza nel raggio di miglia che non fosse disgustata completamente da lui, e, cosa più importante, che fosse Purosangue.
Così inizio a toccarla, quasi per caso, ridendo fra i denti come ad una battuta che solo lui era in grado di capire. Merope era sempre paralizzata dal terrore, in quei momenti; non capiva cosa passasse nella testa del fratello, ma tutto il suo corpo urlava “Sbagliato!” quando le sue mani indugiavano sui seni appena accennati e sul fondoschiena.
La prime volta che ebbe le mestruazioni era convinta di morire, non sapeva che fare. Orfin la trovò a piangere disperata e si fece raccontare tutto, per poi spiegarle che era assolutamente normale per una ragazza e che era una cosa che sarebbe capitata tutti i mesi. Rise poi fra i denti, come suo solito, e gli occhi divennero avidi e indugiarono sul corpo della sorella tanto a lungo che lei sentì quasi il suo cuore fermarsi dal terrore. Ma anche Orfin lo sapeva: toccare il corpo di una donna mentre aveva la luna* era sbagliato, malsano. Solo, adesso che Merope era diventata donna, non avrebbe più avuto alcun motivo per tenersi a freno.
Così, una volta che Merope finì il suo primo ciclo, lui le saltò addosso.
Lei non capiva cosa stesse succedendo, e rimase paralizzata dal terrore mentre le mani di suo fratello le strappavano i vestiti ed indugiavano sul suo corpo, cercando di ignorare i versi strani che gutturali che faceva e che le facevano accapponare la pelle.
Sentì dolore, tanto dolore, e non riuscì a trattenere le lacrime e i singhiozzi si fecero sempre più forti, ma Orfin la ignorò e continuò a fare i suoi porci comodi, per poi, una volta finito, darle uno schiaffo, alzarsi e gridarle “Puttana!” nelle orecchie.
Il suono della parola, sibilino perché Orfin l’aveva pronunciata in Serpentese, rimase impresso nella mente di Merope e lei lo sentiva ovunque, di notte, e si svegliava spesso urlando e in preda agli incubi. Suo fratello si svegliava con lei e rideva, rideva con quel suo ghigno storto e gli occhi strabici, rideva mentre Orvoloson la riempiva di botte - perché aveva osato svegliarlo con le sue urla - e le strappava i capelli, rideva così tanto che Merope iniziò a sentire le risate in sottofondo anche mentre quella parola continuava a ripetersi, nella sua mente, durante i suoi incubi.
Aveva paura, Merope, ma non poteva ancora scappare, perché non aveva imparato abbastanza.
Come ogni volta, il ricordo di sua madre fu il suo talismano e lei non smise mai di fuggire nel bosco assieme ai suoi libri, per cercare di imparare il più in fretta possibile, nonostante la paura e nonostante il dolore.
*
Merope pensò che ci fosse qualcosa di profondamente sbagliato in quello che le aveva detto Orfin tempo prima, perché le mestruazioni non le erano più venute, dopo qualche mese in cui andava tutto bene. Non riusciva a tenere il conto dei giorni, perché sapeva contare solo fino a dodici; non possedeva un calendario, perché era già tanto se possedevano pentole, un pezzo di pane e qualche libro, oltre ai gioielli tramandati dalla famiglia e le bacchette; però si regolava con la luna. Le mestruazioni avevano iniziato a venirle quando la luna era a tre quarti, puntuali ogni mese, mentre ora aveva già saltato due lune, e si sentiva un po’ più fiacca del solito e aveva spesso la nausea.
Non sapeva se parlarne con Orfin - non intendeva disturbare Orvoloson per nessun motivo al mondo -, ma il problema si risolse prima del previsto.
Merope stava cucinando quando Orvoloson rientrò a casa, arrabbiato e visibilmente ubriaco - da sempre rubava con la magia i liquori del bar del paese; non avrebbe potuto procurarsi l’alcool in nessun altro modo. Come al solito se la prese con lei, perché non era riuscita a far lievitare il piatto di zuppa fino al tavolo, e iniziò a picchiarla selvaggiamente.
Merope adottò la sua ormai consueta strategia: si estraniò dal suo corpo, per quanto possibile, cercando di non sentire il dolore, e pensò alla mamma, vedendola mentre le sorrideva, serena.
Sopporta, pensava, cercando di non farsi ferire le orecchie dalle parole velenose di Orvoloson.
“Maganò, sudicia, inutile, Babbana!”
Sopporta, si ripeté, quando un colpo più violento allo stomaco la fece piegare in due e rannicchiarsi su se stessa, mentre le lacrime avevano iniziato a scorrere sul suo viso. Non aveva emesso alcun fiato.
“Vergogna della mia carne, bocca capace solo di sfamarsi, indegna di essere un’erede di Salazar Serpeverde!”
Orfin rientrò in quel momento e si mise ad osservare la scena, rubando la zuppa al padre e mangiando avidamente. Rideva, e il suo sguardo era sempre avido, e Merope lo fissò negli occhi e sentì di nuovo quella parola, “Puttana!”, e poi ancora, “Puttana!”, e il dolore allo stomaco si fece più forte e le sembrò di precipitare in un vortice di sangue.
Orvoloson si stancò presto di picchiarla e andò a prendersi direttamente la pentola dove aveva cotto la zuppa, portandola fuori casa. Dei rumori disgustosi le fecero capire che stava mangiando.
Merope tremava, come ogni volta, e le lacrime le confondevano la vista, colando storte sul suo viso. Rimase immobile per parecchio tempo, tanto che si accorse solo dopo che del sangue aveva iniziato ad uscirle dal ventre, mentre cercava di rimettersi a sedere. Era confusa: quello non sembrava sangue mestruale, era molto più del solito e lei stava iniziando a sentirsi debole; le girava la testa.
Orfin la osservò ancora e ancora rise, prima di alzarsi e di prendere uno dei pochi libri presenti nella sala e tirarglielo addosso. Uscì, canticchiando una canzoncina in Serpentese.
Merope prese in mano il libro e si alzò a fatica. Riuscì a trascinarsi fuori, mentre il sangue ancora grondava, ringraziando Salazar che suo padre fosse troppo occupato a mangiare per accorgersi di lei.
Si diresse verso la foresta.
*
La mamma le aveva insegnato alcuni incantesimi di guarigione come prima cosa, perché vivere con Orvoloson rappresentava sempre un pericolo e lei voleva che Merope fosse pronta ad ogni evenienza.
Così, mentre la sua magia rifioriva lontana da casa, nonostante lei si sentisse sempre più debole e con la testa sempre più leggera, Merope riuscì a mormorare un semplice incantesimo che arrestò l’emorragia. Poi posò il capo su alcune felci e chiuse gli occhi, risvegliandosi solo qualche ora più tardi, affamata come non mai ma non più così debole. I lividi delle botte avevano iniziato ad essere evidenti e a far male, ma quello era normale, e lei ci era abituata.
Merope prese il libro che Orfin le aveva lanciato contro e iniziò a sfogliarlo. Non l’aveva mai letto prima perché parlava della natura di alcune cose e suggeriva qualche pozione semplice per le casalinghe; roba che non le interessava, perché lei voleva imparare quanti più incantesimi possibili e fuggire presto, molto presto.
Tuttavia, si era sbagliata. Il libro parlava anche della luna delle donne, del suo significato e dei suoi effetti, e, soprattutto, di come si concepiva un figlio.
Scoprì quindi che era rimasta incinta e che aveva perso il bambino. “Aborto” era una parola troppo difficile da comprendere, ma il resto del testo l’aiutò. Confrontò tutti i sintomi di una gravidanza con quello che aveva passato negli ultimi due mesi, da quando cioè le era sparito il ciclo, e si ritrovò in molti di essi, soprattutto fiacchezza e nausee.
Lesse molto, avida, nonostante il male agli occhi, finché non scoprì che c’era un modo per impedire il verificarsi di una gravidanza non desiderata. Era una pozione semplice, gli ingredienti erano facilmente reperibili nel bosco e lei li conosceva già, grazie alla mamma e alle sue lezioni.
Non voleva avere un figlio da Orfin, di questo era certa. Quello che lui le faceva non le era mai piaciuto, la disgustava, e, sebbene nessuno gliel’avesse mai detto, era sicura che ci fosse qualcosa di tremendamente sbagliato, se non altro per il fatto che erano fratello e sorella.
Certo, i suoi genitori erano stati cugini, prima di essere sposi, ma lei aveva visto il suo riflesso nel piccolo fiume da cui attingeva l’acqua ogni giorno; aveva visto la deformazione di su padre e la pazzia di suo fratello; aveva visto tutto e poi aveva visto anche qualche abitante Babbano del villaggio, e sapeva che erano loro tre quelli sbagliati. La mamma, poi, le aveva sempre detto che se ne sarebbe dovuta andare lontano, via da Orvoloson e Orfin, e quindi non poteva essere giusto ciò che loro facevano.
No, Merope non voleva avere un figlio, e assolutamente non da Orfin, di questo ne era certa. Fu grata al fratello per averle lanciato proprio quel libro - probabilmente lui sapeva, aveva capito, e c’era un briciolo di sanità mentale dietro la pazzia.
Affamata, pensando di recuperare qualche bacca mentre si avventurava nel bosco, Merope si alzò con il libro sottomano e andò alla ricerca degli ingredienti per la pozione.
*
Merope scoprì di essere abbastanza brava con le pozioni, tanto da riuscire a prepararle addirittura in casa. Non era poi così diverso dal fare da magiare, cosa di cui si occupava sempre. La mamma le aveva insegnato a distinguere tutte le erbe e gli ingredienti utili presenti nel bosco, elencando anche le varie proprietà, e lei se li rammentò tutti poco alla volta, mentre oltre alla pozione per non rimanere incinta provava a farne anche altre.
Aveva trovato un libro interessante dove ve ne erano diverse, e aveva iniziato con le più semplici. Studiava e si esercitava ancora con gli incantesimi, lontano da casa, ma ogni giorno faceva anche lunghe passeggiate nel bosco per raccogliere gli ingredienti più disparati, pensando che le sarebbero tornati utili per qualche pozione.
Orfin continuava a toccarla e a baciarla e a farle quelle cose orribili e, sebbene lei fosse sempre terrorizzata e piangente, almeno poteva mettersi il cuore in pace su una cosa: nessun mostro sarebbe mai uscito dal suo ventre.
Finché continuava a prendere la pozione tutti i mesi, andava tutto bene.
*
C’era un incantesimo che Merope avrebbe tanto voluto saper fare, che si chiamava Incanto Patronus. Era classificato come ‘incantesimo avanzato’, perciò pensò che la sua magia non fosse abbastanza, ma non smise comunque di provare.
L’affascinava perché aveva letto che serviva a tenere lontani i Dissennatori, creature che portavano solo paura e disperazione e che si nutrivano dell’anima delle persone. Lei non era tanto sicura di avercela, un anima - non sapeva nemmeno cosa fosse -, ma conosceva bene paura e terrore e pensò che, a prescindere dai Dissennatori, sarebbe stato utile conoscere un incantesimo contro quelle sensazioni.
Ci aveva provato diverse volte, davvero.
Aveva pensato alla mamma e alla sua voce gentile che la proteggeva dalle botte di Orvoloson ma non era servito a niente.
Aveva pensato al suo sogno di avere una casetta pulita e profumata in mezzo al bosco, ma non era riuscito uguale.
I gesti erano giusti, le parole anche, ma l’incantesimo non voleva compiersi.
Frustrata, ma senza demordere, Merope concluse che non era abbastanza felice per riuscire nell’impresa. Avrebbe dovuto lavorarci.
*
Aveva da poco compiuto quattordici anni e, questa volta, si era spinta molto più in là nella ricerca delle bacche che le servivano per la pozione.
Riusciva a vedere il sentiero.
La mamma le aveva sempre detto di stare molto attenta e di non uscire dai confini della foresta. Loro, per i Babbani, erano i “mostri”, quelli strambi. Mendicanti indegni di vivere, a loro parere; pezzenti senza alcun futuro. La mamma le aveva anche detto che non era colpa loro se erano poveri, e che lei doveva sempre sentirsi orgogliosa delle proprie origini, perché il sangue di Salzar Serpeverde scorreva nelle sue vene, e Salazar Serpeverde era stato un grande mago. Da grande, avrebbe dovuto cercare di sposare un altro Purosangue e tramandare il dono, come lo chiamava lei, che comprendeva il saper parlare con i serpenti e la magia stessa, e il ciondolo, che era la prova della sua appartenenza a quella nobile casata.
Ma le bacche erano un ingrediente fondamentale della sua pozione e lei non le aveva trovate da altre parti, se non lì, così stava cercando di arraffarne velocemente quante più possibili.
Poi, un rumore di zoccoli.
Merope si fermò, raddrizzando la schiena e fissando spaventata il sentiero. Vide un cavallo all’orizzonte, poi due: due esemplari maestosi, dal manto lucido.
Erano due ragazzi a cavalcarli e Merope rimase incantata ad osservare il primo di loro, che fermò il destriero con sorprendente agilità.
Aveva qualche anno più di lei; era vestito elegantemente, e aveva il viso sottile, gli occhi azzurri come il cielo e i capelli neri come ali di corvo. La pelle era chiara, ma non di un pallore malato, bensì splendente. Sedeva a schiena dritta, aveva un portamento fiero ed elegante e le labbra piene, in quel momento, erano piegate in un espressione di disgusto.
“Tom, chi è?” chiese l’altro ragazzo, affiancandolo e osservando anche lui disgustato la ragazza.
Merope, da qualche parte in quella sensazione di meraviglia che stava provando, riuscì a registrare Tom, il nome del ragazzo.
Tom.
Il cuore iniziò a batterle fortissimo nel petto, ed era peggio di quando era terrorizzata mentre Orvoloson la picchiava o Orfin le faceva quelle cose orribili, ma lei si sentiva bene.
Sorprendentemente bene. Meravigliosamente bene.
“Uhm… Credo che sia la figlia di quel selvaggio che vive nel bosco… Non l’avevo mai vista prima.”
“Mi chiamo Merope.” disse, sorprendendo persino se stessa. Era strano, poi, come le sue parole risuonassero: era abituata a parlare Serpentese e, sebbene conoscesse l’altra lingua, la usava di rado.
Tom sbatté le ciglia un paio di volte, sorpreso.
“Oh, beh. Almeno sa parlare.” disse, prima di voltare il cavallo e fare cenno al suo amico. Entrambi ripresero a cavalcare, mentre lei continuava a seguire la figura di Tom con lo sguardo.
Non sapeva cosa fosse successo, si sentiva strana, come confusa ma felice. Un sorriso nacque spontaneo sul suo volto e Merope scoprì che le sue mani tremavano, mentre finiva di raccogliere le bacche.
Tornerò, si disse, ignorando per la prima volta un suggerimento della mamma.
*
Aveva visto passare Tom altre volte, a volte da solo, più spesso in compagnia di qualche amico. Sempre a cavallo, non si era più fermato, ma se la notava lungo il ciglio del sentiero si limitava a mandarle occhiate disgustate e a spronare il cavallo per andare più veloce.
Merope aveva scoperto anche che c’era un punto, a casa, in cui la siepe che la divideva dalla strada era più rada, così che se lei stava alla finestra della cucina poteva sperare di sbirciare fuori. Nel corso degli anni aveva sentito molte altre volte il rumore degli zoccoli, ma solo dopo aver visto Tom aveva iniziato ad alzare lo sguardo ogni volta, sperando di vederlo.
Orfin, se era in casa, la osservava e rideva, e a volte la strattonava con violenza e la possedeva, così, sul pavimento sudicio della cucina. Merope, ormai, ci era abituata, anche se non riusciva mai a trattenere le lacrime e la paura.
Fa che finisca presto, pregava, in silenzio, mentre Orfin le faceva male, male, male.
Fa che domani possa vedere Tom, continuava a pregare, cercando di cancellare la risata del fratello dalla mente, cercando di non sentirsi sporca e di scordare il suono sibilante della parola “Puttana”.
*
Tom Riddle era cresciuto fra gli agi e la ricchezza, sentendosi padrone del mondo, o, almeno, di quel piccolo villaggio che corrispondeva al nome di Little Hangleton.
Tutto il terreno era di proprietà della famiglia; tutto, meno che una piccola porzione di bosco. Aveva sentito diverse volte suo padre lamentarsi degli straccioni che, secondo lui, vivevano ingiustamente a sbafo in quella che sarebbe dovuta essere una sua terra, e delle volte aveva persino scorto il proprietario ubriacone o il figlio matto, che parlava emettendo strani sibili.
Quando aveva incontrato le ragazza per la prima volta era rimasto stupito nel constatare che le dicerie erano vere, ovvero che c’era anche una femmina in mezzo a quei due lerci.
Non che ci dovesse avere a che fare, ma aveva anche notato che - caso strano - lei aveva iniziato a comparire lungo il sentiero, proprio da quella prima volta, e proprio come quella prima volta guardava sempre verso di lui. Era seccato, doveva ammetterlo, e i parenti di lei gli facevano anche un po’ di paura, nonostante tutto, perché nel villaggio si mormorava che fossero maledetti e che avessero fatto un patto con il diavolo.
Per avere poteri magici, diceva la gente.
Il figlio matto parla con i serpenti, insistevano ancora i paesani.
Lui non voleva averci nulla a che fare, ma non sapeva come scrollarsi di dosso la presenza fastidiosa della ragazza. Non poteva andare a cacciarla, perché le avrebbe attribuito troppa importanza; allo stesso modo, continuava ad essere presente ai margini del suo campo visivo, come un qualcosa di estremamente fastidioso… Come le zanzare d’estate.
Le punture prudevano da morire e lui non si poteva grattare, altrimenti sarebbero rimasti i segni.
*
Tom era costretto a passare da quel sentiero ogniqualvolta si voleva recare al villaggio, il che era una bella seccatura.
Quella ragazza diventava un fastidio sempre più grosso, e fu con sollievo che si accorse che quella volta non era presente. Stava per proseguire, tranquillo, quando il suo cavallo imbizzarrì. Cercò di tirare le redini e di fermarlo, ma non ci fu nulla da fare: venne disarcionato e cadde su un tronco di legno spoglio e appuntito, ferendosi la coscia. Il cavallo era già lontano e Tom era molto seccato, oltre che umiliato e dolorante, quando la vide.
Una vipera. Una vipera enorme.
Sicuramente era stata quella a far imbizzarrire il cavallo, e adesso… E adesso lo stava fissando.
Tom deglutì. Sapeva che la vipera era velenosa, così cercò di alzarsi per scappare, ma il dolore alla coscia lo fece gemere e ricadere indietro. Guardandosi, scoprì che la pelle era squarciata e che perdeva sangue dalla ferita.
Per la prima volta, ebbe paura. Il morso di una vipera poteva non essere fatale, se curato in tempo, ma lui era solo in mezzo al bosco, senza avere la possibilità di spostarsi.
Il serpente, intanto, aveva alzato il muso e avanzava verso di lui, rapido.
Tom chiuse gli occhi, ma sentì solo un fruscio e dei passi, poi uno strano sibilo.
“No.”
Socchiuse le palpebre e vide quella strana ragazza davanti a sé, in piedi, che le dava le spalle e che aveva allargato le braccia, come a proteggerlo dal serpente.
Non lo guardava, bensì fissava la vipera, che si era immobilizzata con la testa alzata. Tom riuscì a spostarsi un po’ di lato, trascinando la gamba ferita, per osservare meglio la scena.
La ragazza non sembrava avere paura, non tremava, ma si limitava a fissare, decisa, la vipera.
Il figlio matto parla con i serpenti, si ricordò in quel momento, ma non era possibile…
“Non morderlo. Non fargli del male. Torna a casa, e avverti tutti gli altri serpenti: questo è un ordine. State alla larga da lui.”
Tom strabuzzò gli occhi, mentre il cuore iniziò a battergli forte nel petto e dentro di lui sentiva paura, confusione e meraviglia, tutto in una sola volta.
Non aveva capito ciò che lei aveva detto, perché le parole erano uscite dalla sua bocca come strani sibili secchi.
La vipera, che era stata immobile fino a quel momento, sembrò fare un movimento strano - si stava inchinando?! - e, poi, tornò da dov’era venuta, nelle profondità del bosco.
Merope, a quel punto, si girò verso di lui e gli si accucciò vicino, osservando le sua ferita con preoccupazione. Aveva stretto le labbra e tremava, piano, come se non sapesse cosa fare.
“Tu… Parli davvero con i serpenti?” sussurrò Tom, non riuscendo a trattenersi. L’orrore e la meraviglia si alternavano in lui in rapida successione, e non si stava minimamente curando del fatto che ci fosse proprio lei, la figlia dello straccione, davanti a lui.
L’aveva appena salvato.
L’aveva appena salvato da una vipera, semplicemente parlandole.
Non era possibile.
Merope sussultò e alzò lo sguardo, sbattendo le ciglia. Un vago rossore le invase le guance, mentre realizzava che Tom le stava parlando - Tom le stava parlando!
“Non dirlo a nessuno.” sussurrò, incerta, mentre il pensiero di Orfin che scopriva cosa aveva fatto era in grado di riportare il terrore a galla. Ma non c’era tempo, Tom era ferito e perdeva sangue, e lei…
… E lei era una strega. Come aveva potuto dimenticarsene?
Tirò fuori la bacchetta dalla veste, sempre tremando, e l’avvicinò alla gamba del ragazzo.
Lui spalancò di più gli occhi, vedendo quel bastoncino di legno, e non ci mise molto a collegarlo alle dicerie degli abitanti del villaggio.
“Sei una strega?!” esclamò, terrorizzato.
Lei lo ignorò e cercò di concentrarsi. Andava tutto bene, né Orfin né Orvoloson erano lì, non l’avrebbero mai scoperta. Era ancora nell’area della casa, nella loro proprietà, poteva permettersi di fare qualche piccolo incantesimo, anche se era minorenne. Non voleva far male a nessuno, anzi, e il Ministero non sarebbe mai intervenuto. Sapeva quelle cose perché sia Orvoloson che Orfin si lamentavano sempre di non poter “dare una lezione” ai Babbani del villaggio, e lei ne aveva appreso i motivi con il tempo.
Riuscì a rilassarsi quel tanto che bastava per mormorare i giusti incantesimi. Il benessere di Tom, adesso, era più importante di tutto il resto, perfino della sua stessa paura.
Tom osservò la ferita ripulirsi dal terriccio e dalle minuscole foglioline secche, poi chiudersi senza nemmeno lasciare una cicatrice. L’unico segno evidente dell’incidente erano i pantaloni strappati e il sangue che li macchiava e che macchiava il terreno circostante.
Appena il dolore sparì, e fu in grado di muoversi, Tom balzò in piedi, confuso e spaventato.
“Non dirlo a nessuno.” ripeté Merope, sempre con la voce bassa, ma in qualche modo implorante “Ti prego.”
Tom la osservò per qualche istante, terrorizzato, prima di voltarle le spalle e scappare via, verso casa.
*
Merope lanciò un grido di sorpresa quando vide la nebbia argentea dell’incantesimo addensarsi e mescolarsi, formando un Patronus corporeo.
Ci era riuscita.
Ci era davvero riuscita!
Si sentì felice, davvero, davvero, felice. Forse era la presenza del Patronus, o forse era la gioia di aver completato l’incantesimo: era così entusiasta!
Ma stavolta sapeva che non avrebbe fallito.
Lo splendido cavallo che le trottava davanti era argenteo, ma lei lo riconobbe dalla chioma, dal portamento e dalla macchia bianca - più chiara - sul muso: era quello di Tom, quello che era imbizzarrito giusto il giorno prima e che le aveva dato modo di avvicinarsi, di parlargli.
Erano due giorni che sorrideva, e neanche la risata di Orfin e le sue mani in posti che sarebbero dovuti rimanere inviolati erano stati in grado di spegnere quell’entusiasmo.
Ho parlato con Tom! L’ho difeso e l’ho guarito!
Quando pensava a quell’incontro, dopo l’entusiasmo iniziale, non poteva fare a meno di preoccuparsi per l’incantesimo che aveva lanciato davanti al giovane. Ma nessuno del Ministero era venuto, e né Orvoloson né Orfin avevano detto niente, quindi era abbastanza sicura del fatto che Tom non avesse rivelato il segreto.
Era felice.
Il Patronus ne era la dimostrazione.
Era finalmente felice!
*
Tom rimase chiuso in casa due giorni, profondamente turbato.
Sua madre, quando era tornato senza cavallo e con i pantaloni strappati e sporchi di sangue, quasi era svenuta. Constatato che non aveva ferite, era riuscita a farsi dire solo che il cavallo era imbizzarrito e l’aveva disarcionato; poi l’aveva spedito a lavarsi e aveva mandato uno degli stallieri in cerca dell’animale.
Lui aveva pensato, pensato, pensato.
Le dicerie erano vere. Quella ragazza sapeva parlare con i serpenti, come probabilmente tutto il resto della famiglia, ed era una strega. Il pensiero che anche gli altri due… Esseri… Sapessero usare la magia gli provocò dei brividi di puro terrore. Almeno si spiegava come quel… Quel coso… Fosse sempre attaccato alla bottiglia, dato che non aveva i soldi per permettersene una.
Eppure, la ragazza non l’aveva aggredito, non gli aveva fatto del male. Tutt’altro.
L’aveva soccorso e guarito, in cambio del segreto.
Tom pensò alla sua vita, a quella che era stata la sua visione del mondo e a quello che gli si prospettava in futuro. Pensò e meditò, e la ragazza - gli pareva di ricordare che si chiamasse Merope; un nome decisamente altisonante che faceva enorme contrasto con il suo corpo e la sua condizione - continuava a comparire nella sua mente, e lui ne analizzava ogni sfaccettatura, come se fosse stato un altro dei suoi argomenti di studi.
La vedeva sul ciglio della strada, ai margini del campo visivo, aspettarlo e seguirlo con lo sguardo.
La vedeva china verso di lui, ansiosa e preoccupata, mentre dal pallido passava al rossore e gli curava la ferita.
La vedeva e la vedeva, e più vedeva e più capiva, e più capiva più un sorriso, sadico, si disegnava sul suo volto.
*
(continua...)