Brand New Day
Il principe Arthur Pendragon era di pessimo umore, non si premurò di nasconderlo quando il suo servitore scostò il pesante tendaggio che schermava i raggi del sole.
“Buongiorno, mio signore, la Primavera è arrivata.” esordì Merlino, il tono tutt'altro che vivace e la voce era abbastanza alta perché il nobile udito potesse trarne beneficio.
“Ho sentito!” rispose Artù, non aprì gli occhi e si limitò a scalciare le coperte oltre il bordo del letto: “Hai la voce di un cappone, sei peggio di quella cornacchia...” sbottò rigirandosi fra i guanciali.
“Quale cornacchia, signore?” si incuriosì Merlino, si sentì in colpa per aver accantonato la preoccupazione nei confronti di Ismene ma non era tormentandosi che l'avrebbe aiutata, ammesso che la ragazza ne avesse bisogno.
“Fai uscire questa storia dalla porta e resterai alla gogna sino alla morte; si tratta anche di una dama e quindi... Ci sarebbe una scandalo, tenta di essere meno idiota del solito.” disse Pendragon, mentre assonnato si concentrava sul paesaggio offerto dalla finestra: “Scostati, rovini il panorama.” lo rimbeccò.
Merlino tacque e si accostò al portavivande, avrebbe posto nuovamente il quesito ma Artù ricominciò a parlare: “Ho approfondito la conoscenza che la figlia di un cavaliere; era da tempo che non... Mi dilettavo nelle conversazioni serali, poi è accaduto di rivederla. Ci siamo apparti per conversare, alle ragazze piace moltissimo essere ascoltate: fai loro capire che sei attento, non che tu debba esserlo sul serio e le avrai in pugno. Capisci?” il principe incrociò lo sguardo del servitore: “No.” dedusse l'erede al trono con magnanima compassione.
Merlino aveva annuito senza risultare convincente, non si era certo sforzato e non sentiva il bisogno di arringare il prossimo sulle esperienze più intime, Artù poteva crederlo ciò che voleva ma non avrebbe saputo la verità: non dalle sue labbra, non sino quando si fosse dilungato nelle descrizioni delle virili imprese col gentil sesso in maniera tronfia e becera.
“Ieri, il dialogo era giunto alla svolta decisiva” spiegò il principe: “La mortalità pesa su di noi, solo l'ardore può farci scordare il nostro destino e fra l'altro, era un'avida lettrice delle poesie di Cartulo.”
“Catullo, sire” lo corresse prontamente Merlino.
Arthur levò a sedere spazientito: “Quello lì.” il ragazzo fece una pausa, quasi dovesse annunciare una tragedia paragonabile alla morte del padre, guardò Merlino con solennità poi si coprì con il lenzuolo per dare maggiore serietà a quanto stava per asserire: “Le parole snervano: tu mi uccidi lentamente con tutte quelle frasi senza senso, lo fai apposta e perciò la colpa è anche tua perché mi hai stremato, con le parole mi hai tolto parte della linfa vitale.”
“Mio signore, perdonate ma...” iniziò confuso Merlino, incredulo d'essere già nell'occhio del ciclone senza aver compreso cosa fosse successo.
“Sei perdonato.” lo zittì Artù: “Bene, la dama ed io svoltammo sin qui e bevemmo del vino, lei parlò di quel tizio che hai detto e di altri, poi della famiglia, dell'amore e poi la feci tacere.” un inaspettato silenzio i secondi divennero minuti ed il viso del principe assunse un'espressione pensosa.
“Signore, sarei assai lieto di raccogliere le vostre confidenze e colmare le mie lacune” azzardò ironico Merlino: “Ma non potrò, se non concluderete tale brillante resoconto entro questo inverno”.
“Mi sono addormentato.” il figlio di Uther Pendragon ringhiò, sputò quelle parole quasi fossero del veleno, parve rabbrividire di rabbia e di sdegno.
“Ora?”
“Pezzo di idiota!” lo riprese furibondo il regale padrone: “Davanti a lei. Mi sono sdraiato e lei mi ha scosso, rideva con la sua voce da gallina. Stupida cornacchia: se avesse fatto meno storie, se non avesse passato la serata a parlare, come fai tu, altro che ridere e di me, poi !”
Merlino si passò la mano sinistra sulla fronte, dovette mordersi la lingua ma non scoppiò a ridere: era giovane per morire e per una motivazione così sciocca, pensò.
“Preparami il bagno e non voglio sentire una parola: è un ordine.” Artù si portò il calice alle labbra.
“Sì, mio signore, ma gli allenamenti sono...” replicò Merlino.
“Ti ho detto di tacere!” urlò il principe prima di scagliare il vassoio sul pavimento.
Artù non era arrabbiato con quel ragazzo magro, imbranato quanto un bambino e più logorroico di una comare, anzi lo considerava una persona onesta e degna di stare al suo servizio; non aveva ragione di mandarlo alla gogna o di allontanarlo: Merlino era divertente, spesso fastidioso, a volte petulante come una bambina ad un banchetto, ma buono e questo contava più di qualsiasi idiozia potesse uscire dalla bocca dello scudiero.
Merlino non aveva colpa, di questo Artù ne era consapevole e non era la prima volta che lo copriva di insulti e rimproveri senza motivo, era probabilmente ingiusto ma il ruolo di un servo era aiutare il suo padrone ed indirettamente, Merlino, compiva il suo dovere.
L'umore del principe non migliorò sino all'ora di pranzo, l'umiliazione era una ferita sanguinante in un animo orgoglioso come il suo e la dama aveva lasciato che la sua serva recasse la novella dal castello al mercato.
“Perché non ti levi di torno?” disse Arthur a bocca piena, sollevò in aria un osso di pollo ad indicare la porta.
Merlino non emise un fiato, sorreggeva una bacinella d'acqua in cui il suo padrone era solito lavarsi le mani, rimase immobile alla sua destra. Conosceva il carattere impulsivo del giovane erede e sapeva che una volta rimasto solo, o meglio senza la sua compagnia, avrebbe svuotato la caraffa di vino immerso in speculazioni inutili sulle chiacchiere di paese.
Il viso di Ismene gli apparve innanzi talmente nitido da somigliare ad una visione, i suoi occhi verdi ardevano di febbre ed i graffi rossastri segnavano la sua pelle pallida e fragile; se avesse lasciato la stanza le sarebbe rimasto accanto mentre Gaius la curava, l'avrebbe rassicurata per quanto fosse possibile, sempre che Ismene si sentisse intimorita. L'aveva vista terrorizzata una volta, quando un toro fuggito dal recinto l'aveva rincorsa, lei si era data alla fuga per poi arrampicarsi sopra un faggio e lì era rimasta anche dopo la cattura della bestia. Il padre di Ismene, Ban, s'era inerpicato fra i rami visto che la figlia neppure gli rispondeva; la madre di Merlino le aveva preparato del brodo ed Ismene l'aveva trangugiato fra le braccia di Ban sporcando entrambi.
Era stata abbastanza razionale nella paura, perché lo stesso Merlino non avrebbe avuto la presenza di spirito di dirigere la propria fuga, l'autocontrollo l'aveva imparato aiutando Artù mentre per Ismene era naturale o forse aveva avuto fortuna. Merlino non s'era posto troppe domande sulla figlia di Ban: era nata da uno strano matrimonio, in cui la sposa, dama Olwen, aveva sette anni più del consorte, perciò non c'era da stupirsi se al terzo parto la madre di Ismene era morta con il suo bambino; Ban era stato imprudente a prendersi in casa qualcuna rifiutata da altri, vi aveva ricavato una femmina e nessuna dote per accasarla, in paese si biasimava l'egoismo di Ban e la cattiva influenza che un uomo poteva avere su di una bambina.
“Vedi, Merlino” gli aveva spiegato sua madre: “I padri non sono fatti per accudire, per essere affettuosi, premurosi ed attenti con i figli; hanno il dovere di proteggerli, educarli, punirli. Una figlia femmina ha bisogno di una madre, perché un padre non saprà mai insegnarle le cose importanti per una donna”.
Dopo la partenza di Merlino, Ismene aveva lasciato la casa di Ban per Ascolat: la terra in cui era cresciuta Olwen con il cugino Bernard padre di Elaine, una giovinetta introversa a cui sarebbe piaciuto avere un'amica; Ban l'aveva consegnata al parente nella speranza che le si trovasse un marito.
Il mago non sapeva altro, non gli mai arrivato un messaggio da Ascolat e lui non ne aveva inviati.
Posò lo sguardo su Arthur Pendragon che mangiava incurvato sul piatto, il vino era appena mescolato con l'acqua. Lui desiderava andarsene, doveva rimanere, forse non gli spiaceva risparmiare alla corte il triste spettacolo di Artù ubriaco, di certo sarebbe stato un sollievo per Gwen non trovarsi il principe biascicante per i corridoi.
“Dormi in piedi?” lo riscosse Artù.
Merlino fece un cenno di diniego: “Chiedo il permesso di restare” disse rassegnato, non sorrise e cercò di non apparire più cupo di quanto non fosse: “È mio preciso compito essere presente ai vostri pasti privati: porgervi il panno per asciugarvi, spostare le stoviglie vuote e misurarvi il vino. A questo compito intendo adempire”.
Il principe si voltò, smise di masticare e nei suoi occhi per un attimo, il tempo di un respiro, Merlino intravide una sincera, affettuosa gratitudine per quella scelta, scorse un amico ringraziarlo di essere lì a badare che non combinasse altri guai; fu uno sguardo tanto repentino che il servo pensò di averlo immaginato.
“Fai come ti pare” liquidò la faccenda Artù e riprese a spolpare la carne.