Titolo: Una notte come tante
Fandom: RPF Green Day
Rating: Rosso
Genere: Erotico, introspettivo
Note: Slash, lemon, one-shot
Personaggi: Billie Joe Armstrong, Mike Dirnt
Note: Il
p0rnfest m’ha pigliato anche quest’anno, dannazione!XD
Questa shottina misera e impunita è tutta dedicata all’Eli che me l’ha chiesta, così adesso è contenta (spero), io ho fatto la mia parte!XD
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IT;mso-fareast-language:EN-US;mso-bidi-language:AR-SA">Enjoy it!
Una notte come tante
La sensazione che provai era un po’ quella di quando si è sull’orlo di un baratro, su un muretto che dà su una caduta libera di cui non si intravede la fine, un salto nella nebbia. È quando la mente non fa nemmeno in tempo ad analizzare la situazione che il respiro rimane inglobato nei polmoni, reso gassoso e denso, che trasmette la gradevole impressione di avere la mente vuota, davvero vuota.
È esattamente ciò che mi successe quando guardai negli occhi di Billie Joe. Niente chiacchiere, niente parole, quasi nessun sorriso; ci eravamo ritrovati a una festa studentesca a casa di un tizio di cui non avevo mai saputo il nome. Il soggiorno traboccava di gente sbronza, ragazze che improvvisavano un’imbarazzante karaoke di fronte alla televisione dove passava Mtv a tutto volume, ragazzi traballanti che si tenevano in piedi grazie alle pareti, puzzo di alcol, sudore e profumo, un retrogusto di deodorante sportivo che aleggiava nella stanza come una nuvola in un giorno di primavera.
E lui. Basso, moro, riccio, trasandato, magnetico.
Due iridi verde miele, viscose, lucide forse per la birra, ciglia nere, non troppo lunghe. Non so perché notai un particolare del genere, non so neanche perché improvvisamente avessi smesso di guardare la brunetta che avrei voluto portarmi a letto quella sera per focalizzarmi su di lui.
Indossava una t-shirt arancione e un paio di jeans normali, l’avevo già visto nei corridoi della scuola nonostante non ci avessi mai parlato, probabilmente neppure l’avevo mai guardato con attenzione.
Fu una specie di attrazione fatale, il momento giusto, con la persona giusta. Non ho mai creduto a certe stronzate, non ci credo neanche adesso. Eppure.
Eppure provai la medesima sensazione che deve provare un bunjee-jumper prima del salto, con gli elastici dell’imbragatura che ancora non tirano ma i muscoli sono pronti a tendersi per contrastare il dolore della trazione.
Ficcai il bicchiere di carta che avevo in mano tra quelle della ragazza - che era brilla e mi lanciò qualche insulto privo di fantasia - e mi avviai tra la folla, diretto verso di lui.
Non si scompose, non notai nessun movimento nelle sue spalle, nelle sue mani, solo la bocca che assumeva una posizione diversa, sollevata da una parte. Un sorrisino abbozzato, un segno di biasimo, d’attesa, sarcastico, irridente, non lo capii, né francamente m’interessava.
Spinsi di lato uno smilzo giocatore di baseball e, nei pochi attimi che mi ci vollero per raggiungere Billie, fu davvero come se mi stessi librando nell’aria, un sordo fischio nelle orecchie, l’ossigeno frizzante intorno a me, suoni confusi, colori che si mescolavano, e un fresco strisciante che mi sbocciava lungo una linea continua che partiva dal ventre e giungeva fino alla gola.
E baciarlo fu il momento di tensione massima, il tendersi della corda, il leggero dolore delocalizzato e l’imprescindibile sollievo di essere ancora in vita, per un secondo, per un’insignificante eternità cristallizzata.
Billie aveva le labbra screpolate ma morbide, sapevano stranamente di zucchero a velo, di pasta frolla, io non amavo i dolci, ma quel sapore mi si stampò sulla lingua come un marchio di fuoco, facendomelo adorare.
Proprio la mia lingua si permise di cercare la sua, che non si sottrasse. La sua bocca mi accolse con calore, era umida, accogliente ma non si scoprì, mi permise di esplorarlo e invogliarlo, mi permise di prendergli il viso tra le mani per farci più vicini, avvertendo sotto i polpastrelli la morbidezza dei suoi capelli e il bollore delle sue guance. Il nostri respiri si seguirono, si congiunsero, si fusero e si separarono, poco a poco sentii il suo petto più o meno contro il mio - non era proprio una pertica, misuravo già una decina di centimetri più di lui - sentii il battito del suo cuore, scoprendolo quasi calmo, rintocchi ritmici ed equilibrati che un po’ mi offesero e un po’ mi eccitarono.
Ero io che non ero abbastanza per elettrizzare il suo sangue o era lui ad avere così tanta padronanza di sé?
Volevo scoprirlo, o forse volevo semplicemente vedere dove mi avrebbe condotto quel contatto inaspettato, incredibile, fuorviante.
Continuammo a baciarci senza pause, con una lentezza forzata ma appagante, più tremavo per i brividi che mi procurava con la punta della lingua sul palato e più mi rendevo conto che si trattava di un preludio, di un’anteprima, un piccolo frammento di un mosaico più ampio, più potente, più imponente di quanto potessi immaginare.
Non ero sicuro di voler davvero aprire quel vaso di Pandora, ma quando Billie mi posò una mano sul petto, sulla clavicola, il tepore del suo palmo mi penetrò nelle ossa, nella carne, mi attraversò come una scarica facendomi sudare, una di quelle ondate roventi e secche che poteva dare solo il deserto prima del tramonto.
E seppi che lo volevo. Dio, se lo volevo.
Un’ultima lappata, l’ultimo strusciare delle nostre labbra intumiditesi, e chiusi la bocca, tenendola premuta contro la sua come se mi ci stessi aggrappando, come per sigillare un patto misterioso e silenzioso che avevamo stipulato di comune accordo, una promessa che ci vedeva già legati in qualcosa di maledettamente intimo e senza nome.
Le sue dita mi scivolarono addosso, provai una fitta al bassoventre che si concentrò in qualcosa di duro, di solido. E seppi anche di cosa si trattava.
Si staccò. Lentamente, percepì il suo odore su di me, sotto le narici, un promemoria nel caso ci fosse stato il rischio di scordarmi qualcosa in quegli inutili istanti che ci vollero per riaprire gli occhi.
I suoi erano brillanti, intensi, mi guardavano come se mi stessero leggendo, si infilavano in me accarezzando tutto quanto, toccando, invadendo spazi della mia anima che non avevo mai aperto a nessuno, e adesso ero lì, nudo e remissivo di fronte a un tappo che baciava alla perfezione.
Mi spinse. Una spinta leggera, non forzata, mi costrinse docilmente a indietreggiare, finii contro persone ancora miracolosamente in piedi, inciampai nei piedi di chi stava seduto, riuscii persino a scavalcare un ragazzo disteso sul tappeto in stato di incoscienza. Billie condusse fino alla cucina, era una stanza spaziosa, la luce era spenta e l’unico bagliore proveniva da fuori, dalla veranda dei vicini che emanava un fascio bianchissimo e nitido, asettico, che si infrangeva sulle mensole, sulle pareti intonacate di bianco e su di noi, all’altezza del torace.
Vedevo il suo sguardo brillare nella penombra, sentivo la sua presenza, materiale, distinta, anche senza avvicinarmi potevo rendermi conto di quanto fosse carico, di quanto fosse potente, e allo stesso tempo di quanto io lo volessi, lo desiderassi, era uno di quei bisogno essenziali che colgono alla sprovvista tanto sono improvvisi, irragionevoli, improbabili, qualcosa da voler possedere a tutti i costi.
Fece qualche passo, di nuovo si esibì in quel sorrisetto a metà tra il sarcastico e il divertito, e mi posò le mani sui fianchi, facendosi vicino, vicinissimo.
Lo baciai stringendolo a me, posandogli la mano sulla collottola per impedirgli di andarsene - come se davvero avesse voluto farlo - mi si stampò addosso con ogni parte del suo corpo, lo sentii duro, sodo ma non spigoloso, i muscoli del petto e il ventre un po’ più gentile, le braccia che passarono sotto, sopra le mie, e le dita intrecciarsi alla mia maglietta. Lo presi quasi di peso - che non era poi molto - e finimmo contro la penisola che divideva la cucina, con la sua lingua che aveva cominciato ad aggredirmi, a farsi lasciva e intraprendente, si fece avanti, indietro, lisciò la mia, la solleticò e la ricalcò in un modo che non avevo mai sperimentato, che mi fece diventare le ginocchia molli, che mi fece ribollire il bacino e spronò con una certa veemenza i miei jeans a levarsi di mezzo.
Non ho idea se fossi stato io a issarlo o lui stesso, ma Billie si ritrovò seduto sulla superficie di marmo venato, appiccicosa e ragionevolmente tiepida, mi passò le gambe intorno alla vita, e provai una considerevole soddisfazione personale quando la mia erezione sfregò contro la sua, entrambe rinchiuse dietro troppa stoffa che al più presto sarebbe dovuta svanire. Non ci dovetti pensare due volte.
La mia mano scese verso il basso mentre lui mi mordicchiava il collo, sotto l’orecchio destro, con un po’ di fatica e una certa dose di fretta riuscii a slacciare il bottone dei miei pantaloni e poi dei suoi, aiutandomi col dito per far scendere le cerniere nel modo più cauto possibile. Biancheria umida, accaldata, madida, col polpastrello ricalcai la linea rigida del suo membro che tendeva la stoffa bianca, trovai il rigonfiamento del glande e gli abbassai l’orlo, col suo respiro che si faceva pesante e tutta via ancora calmo, serafico. Non avevo idea di come ci riuscisse.
I boxer mi scorsero lungo le natiche, l’aria fresca della notte californiana mi investì regalandomi una sorta di sollievo, le labbra di Billie tornarono sulle mie e le sue braccia si riunirono dietro il mio collo, coi muscoli delle cosce sui miei fianchi nudi che mi facevano impazzire.
Uno di noi due emise un gemito, ma non riuscii a capire chi. Entrare fu qualcosa di allucinante. Non ero preparato a tanto, non mi aspettavo che succedesse così in fretta, in modo così naturale, credevo che avrebbe fatto male, a me, a lui, invece l’unica cosa che riuscì a provare fu di nuovo quella sensazione. Adesso stavo risalendo con l’elastico, stava tornando su, verso l’alto, verso il cielo, un caldo incredibile, stretto in universo che mi afferrò senza soluzione di senso, percepivo tutto acuito, elevato fino al parossismo, un pozzo d’estasi che mi si allargò nel ventre e lungo le gambe costringendomi ad aggrapparmi al bancone per resistere, per opporre una qualsiasi pressione, per non cadere in quel vuoto di piacere che mi aprì di fronte come un paradiso pieno di peccato.
Le dita di Billie tornarono a solleticarmi i capezzoli sotto la stoffa della maglietta leggera e allo stesso tempo si strusciava contro di me, potevo sentire il sangue battere lungo le vene, il bollore languido e carico che mi aspettava, il suo cuore rimbalzare da una parte all’altra, o forse semplicemente si trattava del mio che mi stava gridando qualcosa che avrei dovuto afferrare subito.
Gli posai di piatto un palmo sul coccige - beandomi del calore gradevolissimo della sua pelle e le curve del bacino a ogni singolo movimento - spingendolo leggermente contro di me, in una sorta di abbraccio scoordinato, caotico, ma dolce, dolcissimo.
Avevo iniziato a imprimere leggere scosse senza neanche accorgermene, il mio corpo aveva deciso in automatico, la sensazione di stare immobile, di stare fermo al suo interno non era possibile, era impensabile, era un impulso viscerale, atavico, animale, muoversi sempre più a fondo come se stessi cercando qualcosa, come se la mia carne anelasse una rivelazione che avrei potuto trovare solo in quegli occhi che si erano fatti di smeraldo e che mi sbirciavano di tanto in tanto, colmi di lacrime asciutte che non seppi tradurre.
Sorrideva. Quel sorriso felino, dispettoso e tenero insieme, tanto ipnotico da desiderare di possedere ogni singola parte di lui, risvegliando in me un senso di potenza che non avrei creduto di avere. Gli piantai le unghie nelle cosce e lo presi, fuori e dentro, dentro e fuori, mi lasciai andare e mi orizzontai soltanto con i suoi sospiri, coi suoi gemiti vellutati che mi accarezzavano le orecchie, e godevo, godevo come se non l’avessi mai fatto prima, con lui che mi afferrava e mi veniva incontro, ci strusciavamo, ci univamo e dividevamo, non mi capacitavo nemmeno di quanta forza stessi usando, ma a quanto pareva per lui non era un problema.
Sentivo il suo piacere, sentivo il suo membro rigido scavarsi un solco tra i miei addominali, sentivo i suoi nervi reagire a qualsiasi movimento facessi. Non so quanto durò, minuti, ore, inutili secondi, ma d’un tratto lo sentì irrigidirsi, sentì Billie sciogliersi intorno a me, sentì il suo respiro farsi d’acciaio, pesante e ansimante, vidi le gocce di sudore che cadevano lungo l’incavo del petto, e capii. Ebbi una piccola illuminazione, o forse si trattava semplicemente d’istinto primordiale che non potevo capire.
Affondai la lingua tra le sue labbra mentre lo inclinavo sulla penisola, in un’angolazione che gli strappò un gemito che non avevo ancora udito, che mi riempì di un certo orgoglio. Continuai a penetrarlo in quella posizione vagamente scomoda ma perfetta, si aggrappò a me con un braccio mentre l’altro faceva da leva per non farsi cadere entrambi, e io colpii quel punto, quello che sapevo essere la sua zona sensibile, un bersaglio che avevo trovato per caso e avevo tutte le intenzioni di torturare fino a che le ginocchia non mi avessero tradito.
Il nostro bacio si fece rude, aggressivo e scomposto, arrapante, che mi ricordava qualcosa di maledettamente sporco, e fu quasi con rabbia che mi accorsi della vista che mi si annebbiava, del mondo che prendeva a vorticare in una maniera stupendamente lasciva, e dell’orgasmo che mi trapassò come una freccia, da parte a parte, gettandomi in una spirale di voluttà che mi tenne sospeso nel nulla più bello.
Mi ci volle qualche minuto per riprendermi, qualcuno in più per rendermi conto che mi ero semi-sdraiato su Billie, e che quella bolla umida che avvertivo era il suo, di orgasmo, che a giudicare dalla sua espressione l’aveva colto alla sprovvista tanto quanto il mio.
Non mi dispiacque.
Lo trovai un po’ imbarazzante, ma presto mi accorsi che non c’era niente di strano. Anzi. Pensai che quella fosse la cosa più normale, più ovvia e naturale che sarebbe dovuta accadere quella sera.
Billie rise. Non l’avevo mai sentito ridere, prima.
Mi guardò passandomi le dita tra i capelli come se avessimo appena terminato una partita a football e fossimo troppo stanchi per alzarci dal campo, cosa che in effetti ci assomigliava parecchio.
«Io mi chiamo Billie Joe.» si presentò con l’aria più carina dell’universo «Che fai di bello domani?»