ci ho messo una vita, ma, finalmente, ce l'ho fatta!!!!!!
Fandom: Prince of Tennis
Titolo: Non ammessi
Autore:
levyrasputin Beta Reader: //
Rating: PG per linguaggio scurrile
Genere: romantico, ironico
Avvertimenti: shonen-ai
Personaggi: Masaharu Niou, Hiroshi Yagyuu, Bunta Marui
Pairing: Niou/Yagyuu, implied Bunta/Kirihara
Riassunto: è possibile metterci più di un anno e mezzo a finire una fic?? è vergognoso, ma è successo. E il racconto ne ha sofferto in coesione, si sente che c'è tanto di non detto, comunque, ormai ve lo tenete così com'è ^^;
Mi sarebbe piaciuto parlare in modo più diretto di Bunta e Kirihara, ma non riuscivo a incastrarci la cosa in nessun modo, suonava sempre forzata. Quindi prendete la loro relazione come un dato di fatto di sottofondo, e così sia. Potrebbe anche voler dire che dovrò approfondire l'argomento ^____^;;
Sull'epilogo, ho aggiunto una nota a piè pagina.
Quando entro nello spogliatoio, è rimasto solo Marui, nel sole calante del pomeriggio. Ha i capelli perfettamente asciutti, ma temporeggia, e sta ancora rimettendo a posto le sue cose. Lo guardo vagamente irritato, perché non ho granché voglia di fare conversazione, e speravo di aver guadagnato, con una corsa extra, la solitudine assoluta dello spogliatoio. Oggi so di avere tempo da perdere. Bunta è, come è logico e naturale aspettarsi con i presupposti del caso, corrucciato e pensieroso; spesso, quando lo guardo ho la sensazione che i suoi colori eccessivi, squillanti, si modifichino sensibilmente a seconda dell’umore. Non che creda molto a tutte queste puttanate New Age sul colore dell’aura che al buchou e a Jackal piacciono tanto, ma in questo momento lo vedo scolorito, come impallidito.
“Renji mi ha detto che non hai superato il test di ammissione” attacco diretto, nella speranza di togliermelo di torno alla svelta. Bunta infila le scarpe nella borsa da tennis, nessuna reazione evidente. Insisto “che fai, non vuoi tornare a casa?”
“non proprio” sospira lui. Sono costretto ad arrendermi, non mi da’ corda.
“e tu che ci fai ancora qui?” mi chiede, senza nessun sottinteso
“Alle sette vado a prendere Yagyuu alla stazione” butto lì quasi per caso, ma con la coda dell’occhio vedo la tensione di Bunta stemperarsi in un gesto minimo del capo, verso di me.
Per un attimo sento la comprensione, palpabile.
“ ti ha detto nulla dell’esame?” mi chiede, e la sua vocetta è ritornata morbida come le caramelle gommose. Sbuffo un’innegabile piccola nuvola di malumore.
“ tsk figurati, lo prendono di sicuro…”
Hiroshi ci sa fare, in tutto. Ha il dono di essere sempre all’altezza della situazione. Chiudo l’armadietto senza rabbia.
“ ..Io non ci vado all’università. I miei non possono pagarmela.”
Bunta è tornato alla sua sfumatura rosso fragola, attento, focalizzato, il turbamento personale accantonato temporaneamente.
“ e come farai tu, allora?” mi chiede con un’ingenuità affettuosa, che mi basta come conferma che il suo inspiegabile fallimento al test di ammissione rientrasse effettivamente in una intenzionale, per quanto sofferta, strategia. Mi stringo nelle spalle, mentre mi dirigo verso la doccia.
“che devo fare? Lo vado a prendere alla stazione.”
“Hi” lo saluto con un falso molleggio penosamente mascherato. Hiroshi mi risponde con un cenno del capo. Un’affettuosa distanza, la sua, che ho imparato ad amare oltre ogni apparenza. Tiro un respiro profondo.
“ allora, come è andata?”
“ bene, suppongo” risponde tirando su la borsa, mentre il debole reticolo di illusioni che mi ero involontariamente costruito si sfalda sotto il suo asciutto, impeccabile realismo. Sempre così esatto, pragmatico, il mio Hiroshi, metodico, puntuale, attento ma incompatibile con qualunque ipotesi di colpo di testa. Mi sento un idiota ad averci anche solo potuto pensare.
“ah, bene…” rispondo con un singulto impercettibile che certamente non passerà inosservato alla sua scrupolosissima e più che rodata analisi di me.
“dai.. non è così lontano” dice abbassando la voce in una carezza che solo io posso comprendere. Scaccio la sua premura con un gesto brusco della tesa, le carezze della sua voce mi fanno male.
“ lo so, lo so, stai tranquillo”
Non è tranquillo. Glielo leggo nella sua microscopica mimica facciale
“ davvero, sto bene..” mi sforzo di simulare la mia solita calma menefreghista, ma il calibro esattissimo della segreta dolcezza di Hiroshi mi è già irrevocabilmente appuntato sulla pelle
“ sarà, ma hai una faccia…” sussurra mentre prende le misure del mio innegabile sconforto.
Quando Yagyuu ti mette gli artigli addosso non ti molla fino a che non ha raggiunto la sorgente ultima del problema. Oggi la sua preda sono io. Deviazione strategica su argomento doloroso. Così, per giocare un po’ in attesa dell’inevitabile.
“ Bunta ha steccato l’esame, sai?”
“accidenti…” mormora, sinceramente sorpreso. Siamo fuori dal bersaglio, Yagyuu the Gentlemen. Se tu fossi più lucido capiresti, e invece…forse l’obbiettivo non è così evidente, facciamoti avvicinare un altro po’…
“….lo ha fatto apposta” lascio cadere così, a volo di colombo cittadino “ per non lasciare Akaya”
“ah…” Hiroshi abbassa lo sguardo, nel silenzio clinico che si è creato tra di noi, una parentesi di attesa nel caos della stazione. Le sue misure vacillano, ma dietro le sue lenti scure ha già un’idea abbastanza precisa del mio infantile, innegabile disappunto. Contro ogni pregiudizio, il mio Hiroshi capisce tutto. Sembrava un bambino tonto, da piccolo, in realtà è solo molto attento, scrupoloso. Forse ‘esatto’ è la parola giusta, la prima che mi viene in mente quando penso a lui.
Hiroshi è estremamente lontano dal lirismo passionale chi si immagina quando ci si focalizza sul concetto di amore. È qualcosa che da sempre sono abituato a vedere, immaginare altrove, addosso agli altri, Bunta e Kiri, per esempio. Una passione folle, cieca, egoista, pericolosa, che morde e ferisce, una passione bambina e demonio, fragile e tenace come le erbacce del giardino, una logorante, estatica successione di colpi di testa.
Il mio Hiroshi non è tipo da colpi di testa.
“mi sento un idiota ad averci anche solo pensato”
È uno sbuffo di risa amare quello che mi esce dalla bocca. Hiroshi attende che la mia autocommiserazione prenda la forma che sicuramente sospetta e tacitamente teme…dopotutto, perché negarglielo?
La stazione è diventata tanto piccola da entrare tutta nello spazio di un sospiro strategico, deglutire l’aria per darsi un tono almeno apparentemente disteso. Stiracchio i muscoli del collo, le spalle, lascio uscire l’aria piano piano e il peso scivola in basso, oltre la gola oltre lo stomaco, fino a che l’unico fardello che mi resta addosso è la borsa da tennis, piena di cose che appartengono a entrambi.
“ per tutta la strada, mentre venivo qui in autobus, ho sperato con tutte le mie forze che tu mi dicessi che ti era passata per la testa una cosa del genere. Ma tu non sei il tipo da sbandate.” Mi scivola via dalle labbra un sorriso, anche lui a volo di colombo metropolitano. Hiroshi abbassa gli occhi e i suoi piedi indugiano un attimo sul marciapiede davanti alla stazione.
“mi dispiace” sillaba con la sua composta distanza, con tutto il calore che solo io riesco a leggere nella sua microscopica mimica facciale. E aggiunge, in una rassicurazione non richiesta che finisce comunque per tranquillizzarmi “..sono solo meno emotivo di te…”
“Lo so, lo so”
Lo so, lo so, Hiroshi, mio, io so come sei dietro quelle lenti scure, so quanto ti sforzi di nascondere questa amarezza invincibile, e so che sarai comunque molto più solo di me d’ora in poi. E soffri più di me di quella pelle condivisa da un tempo immemorabile e che adesso, gemelli siamesi separati dal pragmatismo dell’esistenza, siamo costretti a lacerare
“Ti ricordi…” dico, mentre i piccioni fin troppo menzionati si scansano starnazzando al mio passaggio. Il piccolo parco antistante la stazione è coperto di polvere suburbana “ te lo ricordi ancora?”
“ ..cosa?” mi chiede Hiroshi passando la valigetta dalla mano destra alla sinistra. Non ci sono più valigette tra di noi, adesso. Se fossimo fatti in un altro modo, gli prenderei la mano, adesso, ma il contatto tra me e Hiroshi è più profondo di queste banali urgenze. Non ricordo nessun momento della mia vita in cui, per una ragione o per un’altra, questo contatto sia stato interrotto.
“ ..di quando avevamo quattordici anni” dico pesticciando i sassi schizzati sul marciapiede “no, non di quando ti sbottonavo i pantaloni nel bagno di servizio” ridacchio soddisfatto del suo accennato ma visibile imbarazzo “ parlo di quando volevamo uno studio insieme.”
“Già…” sorride abbassando la testa. Sono belle le sue espressioni casualmente rilassate.
“ non importava di cosa, ma volevamo uno studio insieme”
“…già” continua ad annuire mentre quell’attimo di sollievo si è già trasformato nel dolore che torna, un dolore che invade gli occhi, le labbra, il naso, liquido, la voce mi trema
“ perché tu dovevi montarci il minigolf da ufficio”
Hiroshi ride piano, io piango. Dentro, impercettibilmente. Il marciapiede sembra la banchina della stazione, si avverte nell’aria qualcosa che sta per partire, e qualcosa che sta per arrivare
“ quanto costa un anno di iscrizione alla tua facoltà? ” il suono della mia voce arriva da chilometri di distanza, come un treno diretto che non fa fermate intermedie. Ho le orecchie piene d’acqua.
“ mi farò piacere la giurisprudenza” parlo piano per trattenere il fracasso di singulti che mi scuote dall’interno. Tutto, ma scoppiare a piangere come una bimba in mezzo alla strada proprio no, l’orgoglio non me lo permette “ti giuro che me la farò piacere… la studierò dal primo capitolo all’ultimo… studierò come non ho mai fatto in vita mia…” ma sento che mi si bagnano gli occhi, e non ci posso fare niente, quel minimo di ironia che cerco di recuperare mi si scioglie in lacrime sotto le palpebre. E Hiroshi lo sa. Lo avrebbe saputo comunque.
“ Aspettami” gli dico, e contro le mie intenzioni, ha tutto il tono di una supplica “ dammi un anno di tempo. Lavorerò sodo, stringerò i denti, ma ti raggiungerò. Apriremo uno studio insieme, e io spaccherò il muso a tutti quelli che intenteranno cause civili che non mi piacciono” rido, gli occhi rossi, il naso umido, e ride anche Hiroshi mentre mi accarezza con lo sguardo e scuote la testa
“oh dio, mi rovinerai…”
Lentamente, la sua mano si avvicina alla mia in una carezza brevissima che nella sua composta distanza equivale al più tenero degli abbracci.
“ cazzi tuoi..” mormoro appoggiandomi alla sua spalla, mentre le lacrime scendono dai miei occhi, e io quasi non me ne accorgo….
Quando entro in casa, mio fratello è seduto al tavolo di cucina che finisce i compiti, mia madre piega i calzini, mio padre e mia sorella non sono ancora rientrati. La televisione accesa mi fornisce una copertura ideale per la ritirata strategica in camera mia, dove, dopo aver massacrato un battaglione di kleenex, prendo in mano il cellulare e compongo il numero di Marui
“ ho un piano” dico, a voce bassa, per non fargli sentire che mi cola il naso, quando tira su il ricevitore. La vocina gommosa di Bunta mi chiede, giustamente spiegazioni.
“tu e io… adesso.. ci.. mettiamo di impegno..” esalo le parole lentamente, combattendo contro l’umiliazione imminente che so che comunque arriverà, ma momentaneamente ho più bisogno di questa telefonata che del mio orgoglio. Ho bisogno di pianificarmi una speranza. “.. e in questo anno.. racimoliamo.. più soldi..”
“ma che fai, piangi?!” mi chiede Bunta senza tanti preamboli. Concedo al mio orgoglio la risposta secca e volgare che scatta in automatico - Marui, fatti i cazzi tuoi- e continuo, senza più nascondere quella patetica nota incrinata che la mancanza di Hiroshi mi ha messo nella voce e negli occhi. Troppo lontano dalla mia stanza, sei, adesso, per sentirti ancora sotto la mia stessa pelle, lacerata da questo parto cesario tramite graduatoria che mi separa dall’altra metà, di fatto, di me stesso
“..io e te .. ci.. mettiamo di impegno, Marui. Andiamo a lavoro, mettiamo via più soldi possibili, e poi, entriamo nel giro dei tornei amatoriali…”
“i premi in denaro…” mugugna Bunta, che ormai ha capito.
“E..esatto. Me ne frego se… Sanada ha detto che non… si fa, che è vendersi. Io e te siamo abituati al doppio, se ci mettiamo di impegno apriamo il culo a tutti… e l’anno prossimo..” sospiro per la rincorsa che l’entusiasmo mi ha fatto prendere sui singhiozzi che, ormai mi viene quasi da ridere se ci penso, non smettono più. Bunta mi precede
“Akaya ha detto che vuole andare via, l’anno prossimo….” dice, velatamente incupito. Accarezzo piano la copertina del manuale di diritto che ho comprato alla stazione, quando te ne sei andato, e che ho tentato di leggere senza alcun successo sulla via del ritorno, il naso tappato dall’allergia alla tua assenza.
“E’ diverso, Marui, tutti e tre ce ne andiamo via”.
Epilogo - pratica forense
È mezzogiorno passato da due minuti quando il segretario, un ometto con un’improbabile capigliatura gonfia e un paio di vistosi segni rossi e rotondi sulla fronte ammette la signorina Fujioka nello studio dei titolari della Platinum Legal. La tirocinante ha lo sguardo serio ma non cerca di darsi importanza, e non sembra affatto tesa. Questo è un bene, perché se fosse stata troppo distratta dall’impegnarsi a dare una impeccabile impressione di sé, forse non sarebbe riuscita a schivare la pallina da golf che le sfreccia velocissima pochi centimetri sopra la testa. Uno dei suoi due nuovi principali, la mazza ancora sollevata nella sua impeccabile posa plastica, la guarda senza nessuna particolare espressione del viso regolare, mentre l’altro uomo, i piedi appoggiati sulla pregiata scrivania di legno scuro fa uno schiocco volutamente volgare con la lingua e dice:
- Mancata!
Il primo cala compostamente la mazza da golf e commenta, con una vena di delusione nella voce bassa e pacata
- Già…
La signorina Fujioka è ancora in piedi davanti alla porta. La sua serietà non ha vacillato nemmeno per un istante. Solleva imperturbabile la valigetta e si mette a cercare il curriculum che ha preparato la sera prima, mentre il suo compagno ripassava un allegro di Jadin al pianoforte. L’uomo seduto alla scrivania la guarda di sottecchi, col suo ghigno sospeso a mezz’aria ne valuta il livello di normalità. La ragazza è quanto di più standard ci si potrebbe aspettare da una tirocinante di legge, pulita, ordinata, puntuale, eppure…. Masaharu tira giù i piedi dal tavolino e lancia un’occhiata complice al collega, che, cogliendo quel movimento ha fatto un passo verso di lui. Dietro le lenti fumé degli occhiali, Hiroshi ha lo sguardo divertito. Masaharu solleva la mano verso di lui e si fa scorrere la sua cravatta tra le dita. La signorina Fujioka ha trovato il curriculum e solleva lo sguardo dalla borsa
- Te l’ho detto, stai invecchiando… - dice Masaharu con voce bassa e piena, svergognatamente da camera da letto. Hiroshi aveva già capito tutto prima che cominciasse, e decide di stare al gioco, gli risponde col medesimo tono, meno roco e più autoritario
- Lo sai che non lo sopporto quando dici così...- gli occhiali gli scivolano leggermente sul naso mentre si china su di lui e gli posa un bacio sulle labbra, né troppo profondo, né troppo leggero. Un bacio nella sua definizione più elementare. Masaharu lascia andare la cravatta e gli accarezza, per un attimo, la mascella. È un gioco che fanno sempre con i nuovi tirocinanti e con i gruppetti di donne sole che li guardando con goloso interesse quando vanno a bere fuori, si divertono a vedere le loro facce tese nello sforzo di celare la sorpresa. Non c’è nulla da fare, nonostante stiano insieme da tempo immemorabile, o forse proprio per quello, loro due non sembrano una coppia.
Quando sollevano la testa all’unisono, però, la signorina Fujioka non sembra affatto turbata né sorpresa da quello che ha appena visto. Ordinata e composta come prima, allunga una delle sue piccole mani e porge il curriculum. I due avvocati si scambiano la stessa identica occhiata di sorpresa, intesa e vile soddisfazione. Questa nuova tirocinante rappresenterà certamente un continua, stimolante fonte di divertimento. Forse.
Postscriptum: Non ho resistito alla tentazione di farvi sapere come era andata a finire. L’abuso di fan fiction induce delirio di onnipotenza e gagliardo infischiarsene della continuità e dell’opinabile realtà dei fatti. È troppo dolce la sensazione dell’insindacabile “anche se non ci credete, è andata così”. Cioccolatino virtuale a chi acchiappa il facilissimo crossover. ^_-
[Tracklist: Negrita - In Ogni Atomo; A.Venditti - Notte prima degli esami; System of a Down- Roulette; C.Consoli - L’eccezione]