[Axis Power Hetalia] Caleidoscopio - Hispaňa (10/?) - Parte Due

Dec 03, 2013 19:04





I Carriedo, gli Hellsing e i Marauder ritennero opportuno che i tre bambini destinati a divenire le successive guide dei rispettivi popoli stringessero amicizia fin dalla più tenera età. Nessuno aveva però previsto una simile sintonia tra i tre, specie dopo il loro disastroso incontro iniziale.
Avevano dei poteri enormi, ma, essendo ancora infanti, non erano per nulla in grado di controllarli; quella fu la causa principale dei disordini di quel giorno.
Antonio si stupì enormemente degli occhi rossi e dei capelli d’argento di Gilbert, e gli chiese se fossero diventati così per il sortilegio di un demone. Al solo udire la parola “demone”, il piccolo Hellsing richiamò istintivamente Gilbird; un enorme pennuto cominciò così a scorrazzare per il giardino dei Carriedo, con un bambino attaccato alle piume che gli intimava di fermarsi e tornare nella spilla. In risposta, Francis evocò Jeanne, il suo spirito guida che, vedendolo così atterrito, richiamò a sua volta un nugolo di spettri protettori, e al volatile mastodontico si aggiunse uno sciame di spiriti che saettarono da una parte all’altra alla ricerca del nemico. Aizzato da quella confusione, Antonio usò i suoi poteri; sfortunatamente, focalizzò l’albero di mele come sua arma e non il bastone di legno ai suoi piedi: l’albero si ingigantì improvvisamente, tramortendo Gilbird, che stava trotterellando in quella direzione. Privo di sensi, il famiglio dell’Hellsing diventò nuovamente una spilla, facendo precipitare il bambino al suolo. Mentre Gilbert si massaggiava il coccige dolente, Francis riuscì a imporre la calma sul gregge di spiriti, dissolvendoli. Ad Antonio occorse qualche secondo ancora per far tornare l’albero di mele a dimensioni normali.
Gli adulti presenti temettero che quell’incidente potesse compromettere per sempre i buoni rapporti tra i tre popoli, ma tutto si risolse con la semplicità innocente dell’infanzia: Antonio recuperò le mele cadute per l’impatto con Gilbird, e le offrì ai due bambini che lo osservavano.
«Sono Antonio Fernandez Carriedo» si presentò il piccolo. «E voi?»
«Francis Bonnefoy» il Fiammingo si rialzò, prima di afferrare la mela che gli veniva tesa.
«Gilbert Beilschmidt» contraccambiò l’Hellsing, senza alzarsi per ricevere il frutto: il fondoschiena gli faceva ancora un male tremendo.
«Beescmit?» storpiò Francis; la sua dizione fu compromessa ulteriormente dal boccone di mela che stava masticando.
«Beilschmidt» sillabò Gilbert.
«Che cognome strano» commentò il Fiammingo.
«Ma se tu ti chiami Bunefà!» protestò l’Hellsing.
«Bonnefoy» lo riprese con eleganza Francis.
«Il mio cognome riuscite a pronunciarlo?» si intromise Antonio.
Entrambi si sforzarono di scandirlo correttamente; in bocca all’Hellsing la “c” assumeva un suono assai più duro, e la “d” veniva inquinata da una punta di “t”. Il Fiammingo, invece, lo pronunciava come se il suo cognome fosse una grossa caramella rotonda, ammorbidendo tutte le lettere. Antonio non speculò su quelle differenze.
«Come hai fatto?» chiese Francis, additando con la mela l’albero.
Antonio si strinse nelle spalle.
«Tutti ci riescono, nella mia famiglia. Anche se di solito lo facciamo con le armi.»
Francis era ancora troppo piccolo per insinuare quale particolare spada avrebbe potuto ingrandire - cosa che fece profusamente negli anni a venire, quando la malizia divenne la sua caratteristica distintiva. Si limitò ad accogliere con sincera ammirazione quella verità.
«A cosa vi serve?» insistette Francis, curioso.
«In battaglia è piuttosto utile» spiegò Antonio.
Il Fiammingo annuì, accondiscendente.
«La mia famiglia scende in campo in modo diverso» considerò, pulendosi con la mano un rivolo di succo di mela sul mento paffuto. «Noi siamo medium. Le lotte con gli spiriti sono un po’ diverse da quelle con gli umani» si voltò verso Gilbert, lo sguardo scintillante: «E tu?»
«Ammazzo demoni» telegrafò lui.
«Sembra interessante» gorgheggiò Francis.
«Non lo è. Fa una paura del diavolo.»
«Quindi hai paura quando combatti?»
«Non ho detto che ho paura. Ho detto che fa paura.»
«Quanti demoni hai ammazzato, finora?»
«Che t’importa?» si ribellò Gilbert, che non era bravo a sostenere interrogatori serrati.
Antonio ricordava gli anni a seguire come tra i più divertenti della sua vita: imparava a diventare un combattente capace sotto la guida dei genitori, e giocava spesso con Gilbert e Francis.
I tre ragazzi si raccontavano i loro progressi e si mostravano le nuove magie apprese. Era una rivalità scherzosa a chi riusciva a stupire di più gli altri. Ma, per la sua indole teatrale, era sempre Francis a emozionarli più di tutti, con i suoi numeri sui fantasmi e sugli spiriti.
Un giorno, suo padre lo prese sulle ginocchia e commentò:
«Voi tre sembrate proprio tre sparvieri.»
«Perché?» domandò Antonio, senza capire.
«Perché gli sparvieri, anche se sono più piccoli degli altri rapaci, non sono secondi a nessuno per le abilità di caccia. Inoltre, sono in grado di cambiare direzione di volo in maniera imprevedibile e repentina. Voi siete proprio così: anche se siete dei bambini, siete potenti quasi quanto i vostri vecchi genitori» Antonio aveva brontolato che il padre non era affatto vecchio, e il genitore proseguì, compiaciuto dell’affetto del figlio: «E riuscite a cambiare direzione in maniera inaspettata. Come al vostro primo incontro: tutti credevano che vi sareste odiati, invece siete diventati amici come poche persone che conosco.»
Antonio aveva riferito quel pensiero paterno ai suoi compari e, da quel momento, avevano adottato quell’epiteto: i Tre Sparvieri. O il Trio Malefico, come correggeva ogni tanto Francis, con una vena canzonatoria.
Era stato proprio un bel periodo: il giardino della sua casa era animato continuamente dai suoi allenamenti o dai giochi con i suoi amici.
Anche l’inferno era partito dal giardino.
Stava aiutando sua madre ad apparecchiare la tavola, mentre il padre controllava che il pranzo non bruciasse. Non si resero subito conto di cosa stava accadendo: all’inizio, fu solo una piccola scossa del terreno, e tutti pensarono che fosse un lieve terremoto di assestamento. Ma al primo tremito se ne succedette un secondo: tutte le ceramiche della casa vibrarono, e tutti e tre alzarono il volto come i segugi che fiutano un pericolo.
Per qualche secondo, nulla si mosse. Erano quasi tornati alle loro mansioni - mancavano ancora le forchette e un pizzico di sale nella zuppa - quando tutto il mondo ballò.
Antonio ricordava solo un vorticare frenetico in cui pavimento e soffitto continuavano a susseguirsi, la danza selvaggia dei mobili e la nevicata di piatti e bicchieri, che sparsero un delirio di schegge appuntite tutto intorno. Strisciò a quattro zampe fino ad aggrapparsi allo stipite della porta, e, così arpionato, portò uno sguardo febbricitante sul mondo impazzito.
I mobili della cucina erano completamente stravolti: il tavolo si era rovesciato, le sedie assomigliavano a dei reduci di guerra con le gambe spezzate e la pesante credenza era franata a terra. Ad Antonio occorse qualche istante per identificare la ciocca di capelli scuri che spuntava sotto l’angolo del mobile di faggio. Suo padre lo raggiunse e gli coprì gli occhi prima che il piccolo potesse vedere la pozza di sangue e liquido cerebrale che si allargava sul pavimento.
«Dobbiamo uscire» gridò, sentendo il figlio tremare tra le sue braccia come se tutte le sue ossa avessero deciso di uscire dal corpo. Non era stato abbastanza veloce: aveva riconosciuto quella chioma. Era il castano fondente che aveva ereditato da sua madre. Erano i capelli di sua madre quelli che si stavano raggrumando in un miscuglio di sangue e cervella.
In seguito, le sue memorie si limitavano al buio del palmo di suo padre e agli scossoni dovuti alla frenetica conquista del tetto. E il caldo, quel caldo infernale.
Quando suo padre gli tolse la mano dagli occhi, Antonio si rifugiò con la testa sul suo petto: era troppo piccolo per sopportare quello spettacolo. Il suo mondo non esisteva più: le strade erano diventate lunghissimi serpenti di lava ruggente, le case delle pire di fuoco e le persone delle lingue di fiamma che guizzavano per un attimo, con un urlo tremendo, prima di sprofondare in quell’abisso di calore letale.
Antonio si rintanò contro il padre, terrorizzato. Sentiva i mattoni della loro casa cedere sotto la presa della lava, e il caldo micidiale avvicinarsi sempre di più. Ben presto la morte avrebbe toccato anche loro con la sua falce ardente.
«Una cosa del genere non è normale…» balbettò suo padre. Lo strinse a sé, pur sapendo di non essere una protezione efficace contro quel marasma. «Questo è un incantesimo che solo un mago esperto potrebbe fare… solo il Mago dell’Ovest… ma perché… siamo alleati…»
«Stiamo per morire qui?»
Il miagolio del bambino risalì il collo e bussò spaventato all’orecchio del genitore.
Sentì quelle braccia tanto più grandi delle sue stringersi sulla sua schiena.
«Non so come salvarti, piccolo mio. Le Aeronavi sono andate distrutte. E, anche se non lo fossero, non c’è modo di raggiungerle da qui. Mi dispiace.»
Antonio protese le sue braccia minute verso l’alto, cingendo il collo del papà. Non avendo il coraggio di alzare gli occhi sull’inferno intorno a loro, mormorò la sua preghiera contro la clavicola del genitore:
«Andiamo dalla mamma, papà.»
Fu in quel momento che lo udirono: un frullio d’ali gigantesco, e delle urla accorate.
«Antonio! Cos’è successo?»
La voce di Gilbert superò il ruggito delle fiamme, e il piccolo Carriedo sollevò il viso annerito dal fumo sui suoi amici. Erano venuti per giocare con lui, come sempre; non si aspettavano di trovare un tale rogo di distruzione, al loro arrivo.
Gilbird compì svariati giri su di loro, cercando il modo per avvicinarsi senza essere trascinato in quello che sembrava il ventre squarciato di un vulcano.
I polsi del padre fremettero su di lui. Antonio pensò che fosse per disperazione, perché avevano la salvezza a un passo e non potevano aggrapparvisi: Gilbird non riusciva a trovare modo di avvicinarsi senza compromettere l’incolumità di Gilbert e Francis. Non fu disperazione. O meglio, non era la disperazione di un padre che sta per morire con il figlio.
«Antonio» annaspò sui suoi capelli, accarezzandoli con un bacio ruvido. «Tu sei forte, più forte di tutti noi. Ce la farai. So che ce la farai.»
«Papà?» lo aveva chiamato, senza capire.
Le lacrime del padre caddero sul suo viso sollevato, più bollenti della lava che rombava intorno a loro. Non lo aveva mai visto piangere, prima di allora.
«Non sarò con te quando diventerai grande, non potrò essere con te se avrai bisogno di me. Ma posso fare qualcosa per te.»
Prima ancora di poter capire il significato delle parole del padre, il mondo di Antonio venne sconvolto di nuovo: d’improvviso non ci furono più le braccia del genitore a stringerlo, ma solo mille dita di vento che lo spingevano verso l’alto. Il genitore lo aveva lanciato in aria, in modo che fosse finalmente alla portata di Gilbird.
Il volatile lo afferrò con le possenti zampe, e batté veloce le ali per allontanarsi da quella lava ribollente.
Antonio si protese in direzione del padre con tutte le sue forze, sfuggendo quasi alla presa del famiglio dell’Hellsing. Urlò così tanto che avvertì quel fuoco assassino carbonizzargli la gola, e non si fermò nemmeno quando alle sua grida si mescolò il sale delle lacrime.
Era la disperazione di un padre che sa di morire lasciando solo il proprio figlio, quella che aleggiò sul volto del genitore per un secondo. Sostituita prontamente con un sorriso e un cenno della mano, come faceva quando tornava a casa la sera. Ma la farsa non gli riuscì completamente: le lacrime che bagnarono copiose quel sorriso finto e che gli contrassero le labbra in spasmi contriti rovinarono la sua messinscena.
Gilbird non volò abbastanza veloce da impedirgli di sentire l’urlo del padre, quando la lava lo trascinò a fondo. E Antonio svuotò i polmoni, come se potesse alleviare il patimento del genitore gridando forte quanto lui.
In seguito, gli avevano detto di essere volati nel pianeta Fiammingo, a casa di Francis. Non aveva memorie precise di quel periodo, solo alcune immagini sconnesse a cui non avrebbe saputo dare un ordine temporale.
Francis lo aveva ospitato per qualche tempo. Ricordava una successione di giorni tutti uguali per colori, sapori, emozioni. Era sprofondato nella più totale apatia, senza parlare e senza mangiare.
Si rendeva conto di far preoccupare enormemente i suoi amici con il suo comportamento - Gilbert passava ogni singolo giorno per sincerarsi che il piccolo Carriedo stesse bene - ma non riusciva a uscire da quel circolo: bastava un granello di cibo, e sentiva l’impulso di vomitare; perfino bere un bicchiere d’acqua era un’agonia. Aveva cercato di aprire le labbra per parlare con i suoi amici, ma ne aveva ricavato solo un singulto secco e l’orrenda sensazione che i suoi polmoni stessero cercando di uscire tramite l’esofago. E non riusciva a liberarsi dall’eco del grido del padre che risuonava macabro nelle sue orecchie.
Non ricordava il giorno, ma ricordava l’attimo: Francis gli aveva appoggiato una mano sulla spalla e aveva detto, fissandolo con il cuore negli occhi blu:
«Le lacrime non sono un disonore, Antonio. Sono il simbolo di un’anima che soffre. E se un’anima soffre, ha dei sentimenti. E avere dei sentimenti è la cosa più nobile che esista.»
Fu come se l’amico avesse girato la chiave della serratura che tratteneva le sue emozioni: all’improvviso, sentì il dolore agguantarlo per la gola, e sgorgare in un torrente di lacrime, che sfogò sulla spalla dell’amico. Avrebbe voluto dire tantissime cose, ma la sua gola espulse solo singhiozzi inarticolati e suoni strozzati. Francis lo trattenne gentilmente contro di sé, mentre Gilbert gli appoggiava una mano in mezzo alle scapole.
Nei primi giorni, il ricordo della morte dei genitori era stato costante: qualunque cosa facesse, o non facesse, sentiva una vocina maligna bisbigliare nella sua testa che lui non meritava nulla; era un figlio deprecabile che sopravviveva nonostante sua madre e suo padre fossero morti. Poi, era subentrata una seconda fase di elaborazione del lutto, assai più spaventosa: il distacco. Si era accorto di non ricordare più con chiarezza il volto della madre o del padre, o il suono esatto della loro voce; si era reso conto di non sapere più cosa si provava ad avere una famiglia, ad avere una casa con dei genitori in attesa. Aveva ancora una vaga memoria di quelle cose, ma non riusciva a viverle sulla sua pelle, come se qualcuno gli avesse raccontato una favola: ne era stato deliziato, ma non riusciva a immergersi fino in fondo in quel mondo fantastico. La sua famiglia era diventata lo spettro di un ricordo che non riusciva più a comprendere; e soffriva ogni volta che le sue dita cercavano di afferrare quel vuoto incolmabile. In quel momento aveva davvero capito di essere rimasto orfano: avere una famiglia gli sembrava qualcosa di alieno come un’utopia irrealizzabile.
Non era riuscito ad articolare nemmeno uno di quei pensieri; aveva atteso che le lacrime trovassero un po’ di quiete, e si era staccato piano dai suoi amici.
«Scusa per la camicia» aveva bofonchiato. Francis gli aveva dato uno scappellotto.
«Bentornato» lo avevano accolto gli Sparvieri.

***

Antonio sorrise di un ghigno amato.
Il suo mondo puzzava di polvere da sparo, ed era pregno di sangue. Chissà se era quello che suo padre aveva immaginato per lui, nel suo ultimo istante di vita.
Avrebbe voluto chiederglielo. Tuttavia, non aveva mai domandato a Francis di usare i suoi poteri da medium per parlare con i defunti. Aveva vissuto il lutto in maniera così atroce, da piccolo, che non desiderava passarvi attraverso un’altra volta: temeva che, rivedendo il padre e la madre, si sarebbe legato nuovamente a loro, e non sarebbe più riuscito a lasciarli andare.
Non ricordava più con precisione le loro facce, o i loro modi di dire, ma non aveva importanza. Loro erano comunque con lui. Sua madre gli aveva insegnato a camminare, a mangiare, a vestirsi: era con lui in ogni passo, ogni cucchiaiata, ogni bottone allacciato. E il padre, che gli aveva insegnato a combattere, guerreggiava insieme a lui sul ponte della Reina de la Oscuridad; e gli aveva donato due volte la vita, la prima volta facendolo nascere e la seconda lanciandolo verso la salvezza. Era con lui a ogni respiro e battito di cuore.
Quella conclusione non era sorta spontanea: erano occorsi anni di lotte con se stesso e di sofferenze indicibili per accettare fino in fondo la morte dei genitori ed elaborare un nuovo stile di vita.
E poi, qualche anno dopo, aveva incontrato Lovino: un bambino indesiderato che era stato rifiutato dal suo stesso padre. In quel momento, si era sentito estremamente fortunato: li aveva persi entrambi, ma i suoi erano stati genitori degni della loro carica.
All’inizio, aveva solo intenzione di raccogliere quel mucchio d’ossa per indispettire il Vaticano, l’orco che aveva trangugiato il suo pianeta. Il ghigno si addolcì in un sorriso. Ora non lo avrebbe lasciato andare nemmeno se si fosse scatenata l’Apocalisse.
Accelerò il ritmo della scialuppa, desideroso di tornare sulla sua nave al più presto.
Voleva abbracciare il suo Lovino. Sperava che l’attesa non lo avesse fatto imbestialire troppo.

Anche su: EFP

Capitoli precedenti:
Capitolo Uno: Uno Scettro in mezzo al Cielo
Capitolo Due: Sangue sull’Argento
Capitolo Tre: L’Auspicio
Capitolo Quattro: Il Custode dei Cancelli
Capitolo Cinque: Cuore d’Inverno
Capitolo Sei: Prigione Caina
Capitolo Sette: Hellsing
Capitolo Otto: Belial
Capitolo Nove: Il Confine del Mondo

Successivo:
Capitolo Undici: L'Accordatore

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