Titolo: Coinquilino VI
Fandom: Axis Powers Hetalia
Pairing: Alfred/Arthur
Raiting: Verde
Note: Non ci speravo più nemmeno io...
Wordcount: 4479
Capitolo VI
Sì, davvero, incredibile no?
Quella immagine era incisa a fuoco nei miei occhi. Nemmeno chiudendoli o premendo le mani sulle palpebre potevo scacciarle via. Erano indelebili, era come se qualcuno le avesse incise sopra le mie pupille. Forse, avrei dovuto afferrare gli occhi e strapparmeli, forse così tutto sarebbe sparito e ci sarebbe stato solo un buio, un nero consolatorio.
Qualcosa che ti inghiotte e ti toglie il respiro, qualcosa che nonostante la sua atrocità di fa pensare, “Ehi, poteva andare peggio”.
Ma probabilmente, nemmeno calpestandoli quelle immagini si sarebbero dileguate. Erano nella mia mente, fisse.
Le labbra di Alfred, le labbra che erano state mie e solo mie ora erano di qualcun altro - e chissà quante volte, in passato, erano appartenute ad altri. Chissà quante volte erano state di Braginski, chissà quante altre cose avevano fatto. Cose che non potevo e non volevo immaginare.
Tutto era vago, come in un sogno - o meglio, come in un incubo. - c'erano solo suoni e colori confusi a cui non riuscivo dare un senso. Sentivo solo le piante dei miei piedi bruciarmi, come se avessi ricevuto degli schiaffi, e solo quando realizzai il dolore e dunque qualcosa che non provenisse dalla mia mente, mi resi conto di star correndo.
Il rumore dei miei passi veloci, delle suole lisce in cuoio delle mie eleganti scarpe di pelle, che sbattevano contro i pavimenti degli uffici del luogo in cui per mesi avevo lavorato, in cui per mesi avevo coltivato sentimenti e sensazioni sconosciute prima, era come un lento orologio che, bastardo, vuole ricordarti quanto sia vicina la fine, la morte.
E quasi l'avevo incontrata, in quell'euforia accecante da cui ero stato travolto. Avrei potuto posizionare male i piedi davanti a me, mentre velocemente scendevo le rampe di scale senza una meta precisa, avrei potuto cadere in avanti, sbattere la testa e spegnermi.
Arthur Kirkland sarebbe morto in un modo ridicolo, in lacrime e con il cuore infranto, sfracellato contro un angolo della scalinata sul posto di lavoro.
Già immaginavo l'articolo sul giornale e l'amarezza nell'espressione di mia madre rendendosi conto di che fine misera e indecorosa avesse fatto suo figlio.
Ma non morii, e immagino fu un bene. Non sapevo cosa avesse in serbo per me il futuro, né quello prossimo, né quello più remoto, più lontano. Ero stato davvero molto stupido ad illudermi di avere tutto sotto controllo, quando era chiaro che non fosse così.
Come avevo potuto immaginarmi con un uomo che non mi apparteneva? Era dire a tutti che ci si sposava prima della proposta ufficiale.
Non conoscevo le intenzioni di Alfred, eppure pensavo saremmo stati sempre assieme. Non potevo serbargli rancore o odiarlo, lui non mi aveva dato nessuna illusione. Piuttosto, mi ero fatto soltanto del male da solo.
Corsi, corsi senza meta per i corridoi finché non mi mancò il fiato e la richiesta dei miei polmoni non fu così forte da stroncare la mia corsa. Ora poggiavo una mano al muro e annaspavo, respiravo così velocemente da temere un infarto. La gola bruciava come non aveva bruciato mai, il cuore si ribellava nel mio petto come se volesse fuggire. Se fosse scoppiato, non me ne sarei stupito.
Quando il mio cervello ricevette l'ossigeno necessario per riabilitare - almeno in parte - i miei sensi frastornati e indolenziti per via della corsa senza senso, mi resi conto di quanto mi facevano male le cosce e i polpacci e di quanto avevo inquietato quelli che mi avevano visto correre come un disperato.
I loro sguardi erano mi erano addosso, non erano stupiti, più che altro sembravano infastiditi. Non me ne preoccupai: lavoravo lì da tempo e non riuscivo ad associare i nomi ai loro volti, non mi importava assolutamente nulla di loro.
Mi portai una mano al colletto della camicia, per allentare il nodo della cravatta. Non fui sorpreso di sentire il collo bollente e imperlato di sudore.
Avevo bisogno di un bicchiere d'acqua, alla svelta. Anzi, avevo bisogno di una doccia fresca, dei vestiti puliti e un biglietto di sola andata per Londra.
Mi appoggiai con la schiena contro la parete candida di quel corridoio, inclinai indietro la testa finché non sentii i miei capelli premersi in modo disordinato contro la superficie liscia, spalancai le labbra e risucchiai velocemente l'aria, per ributtarla fuori con la stessa frenesia finché il respiro non si calmò e il mio corpo non tornò di una temperatura normale.
Ovviamente, ero ancora sudato. Mi infastidiva sentirmi così - bagnato e appiccicoso. Mi sentivo volgare, mi sentivo americano. E al mondo, sia terreno che ultraterreno, non c'era piaga peggiore per un inglese che sentirsi americano.
Mi posai il dorso della mano sulla fronte, mi staccai poi dalla parete e ripresi a camminare, questa volta in modo più calmo e composto. Camminai finché non trovai un bagno, mi ci rifugiai dentro e riluttante mi guardai nello specchio.
Non vidi Arthur Kirkland, vidi un uomo sconvolto.
Aprii l'acqua e mi bagnai le mani - era gelida ed era fantastico che lo fosse, per la prima volta qualcosa di freddo e bagnato non mi dispiaceva. - mi sciacquai il volto e cercai di dare una forma decente ai miei capelli.
Feci appello a tutte le forze che avevo in corpo per far sorridere il mio gemello nello specchio, ma il vederlo sorridere non migliorò il mio umore. Chiusi l'acqua e sospirai pesantemente.
Ora che mi ero dato un - seppur minimo - contegno, potevo ragionare in modo serio.
Prima di tutto, partire per Londra non sarebbe stata una soluzione. Quella che si stava aprendo davanti a me era una di quelle opportunità che, durante il master all'università, si sognano così tante volte e le si vede così distanti da prender forma nella nostra mente come una lontana utopia; e per molti dei miei compagni, probabilmente, lo era stata.
Io invece ora ero in America, lavoravo per una delle riviste più importanti del paese, forse del mondo, e crescere in un ambiente simile e imparare dai migliori di quell'ambiente significava, una volta fuori, avere tutte le porte aperte.
Se fossi tornato in Inghilterra non avrei lasciato a New York solo il mio cuore, ma anche la mia carriera. Avrei dovuto affrontare la realtà, probabilmente avrei dovuto chiarire con Alfred e, molto probabilmente, avremmo dovuto rompere.
Non ero mai stato seriamente fidanzato prima di allora, e quella parvenza di relazione che avevo avuto, che avevo vissuto, oltre a non aver avuto una particolare importanza era stata chiusa da me. Non avevo sofferto il distacco, la nostalgia. Anzi, l'avevo affrontata in modo piuttosto bastardo e spavaldo.
Pregai che Alfred non facesse lo stesso: mi avrebbe ucciso più di quanto non mi aveva distrutto vederlo con un altro uomo.
La cosa terribile è che sapevo e non sapevo. Un'ottimista non può comprendere di cosa parlo, ma un pessimista si ritroverà certamente nelle mie parole leggendole: ogni cosa che pensavo mi sembrava certa solo finché non trovavo un'alternativa peggiore. Mi ritrovavo a desiderare alternamente la prima, per quanto dolorosa e folle fosse, ma mi convincevo sempre di più della seconda.
Non avevo conoscenza del futuro, né immaginavo realmente cosa sarebbe accaduto nella nostra casa quella sera - sempre se fosse mai accaduto qualcosa, perché Alfred avrebbe potuto non tornare, come già altre notti aveva dimostrato di poter fare - ma avevo il sentore che qualsiasi cosa sarebbe successa, sarebbe stata rivoluzionaria.
Quella sera le cose tra noi due sarebbero cambiate completamente, forse in bene, forse in male, forse in un modo che non avevo immaginato.
Mi ritrovai a pensare, contemplando ancora una volta la mia immagine riflessa nello specchio, che io non avevo alcun diritto di giudicare cos'era il bene e cos'era il male, perché ciò che era bene per me, per altri poteva essere il contrario.
Scossi la testa. Era meglio non mi perdessi in discorsi più grandi di me.
Il cellulare squillò, la suoneria rimbombò nel bagno e fu amplificata dai vani presenti in esso, aveva qualcosa di magico, era adrenalinico. Per quanto possa sembrarvi patetico sperai fino all'ultimo secondo, fino a ché i miei occhi non si posarono sul display, che fosse Alfred a chiamarmi.
Mi stupii incredibilmente vedendo che era così.
Rimasi immobile, interdetto e stupido. Il nome “Alfred” seguito dalle prime cinque cifre del suo numero di telefono lampeggiava sul display, mentre l'apparecchio suonava e vibrava freneticamente.
Il panico mi invase. Era come essere davanti a un cadavere mentre la polizia si muove freneticamente. Il sangue ti si gela nella vene e non riesci a elaborare pensieri che non siano cristo, cazzo, oddio, perché è successo, perché sono qui? Che era più o meno quello che stavo davvero pensando.
Dovevo rispondere, ma le mie braccia erano solide come se fossero state scolpite nel candido marmo in cui erano stati scolpiti, secoli prima, gli adoni greci. Era assurdo, non ero assolutamente un adone, al massimo un codardo, un coniglio.
Quando il pollice si decise a muoversi sul tasto verde, il telefono aveva smesso di squillare. Tremai così forte - non era rabbia, era l'adrenalina che si disperdeva e spariva lasciando solo un senso di vuoto, di nausea e di paura crescente - che temetti di cadere a terra. Forse lanciare e far schiantare al suolo il cellulare avrebbe aiutato a farmi sentire meglio, ma tutto quello che feci, in modo molto debole e patetico, fu farmi scuotere da una serie di singhiozzi violenti.
Non uscivano lacrime dai miei occhi, ma stavo ugualmente piangendo.
Basta. Avrei chiesto un permesso a Francis per uscire prima: avrebbe capito, e se non avrebbe capito non mi sarebbe importato. Che mi detraesse la giornata intera dallo stipendio, che mi maledicesse e mi facesse tornare a fare tirocinio, che andasse al diavolo e crepasse!
Sbattei la porta del bagno, questo mi fece davvero rendere conto di essere uscito. Camminai in modo vago a lungo: avere una meta o meno non mi importava. Mi ritrovai sulla terrazza a fissare New York aprirsi e distendersi davanti ai miei occhi.
Fissavo l'orizzonte come se avessi potuto trovarvici le risposte alle mie disgrazie, ma non c'era nulla se non grattacieli, strette vie e una distesa di mare infinita. Tutto si tinteggiava di rosa e arancio, gli uccelli si innalzavano in cielo gracchiando e il sole, che lentamente spariva dietro le increspature colorate dell'oceano, sembrava star agonizzando con me e affogando nel mare e nella disperazione.
In modo molto banale, mi faceva sentire meno solo.
Una brezza leggera mi soffio in volto, spettinando i miei capelli biondi e asciugando i miei occhi lucidi; era dunque quello il crepuscolo della giornata? Finiva in modo così triste quel giorno, che mai nel corso dei secoli si sarebbe ripetuto?
Era così per tutti? O ero l'unico a soffrire, l'unico a interrogarsi su ciò che gli era più prossimo? - minuti, ore, giorni, che importanza aveva? Non conoscevo il mio futuro, avrei potuto aspettarmi di tutto -.
Il tempo era passato veloce. Era già sera e tra poco il cielo sarebbe stato inghiottito dalle tenebre e illuminato solo dalla luce dei lampioni... (Sarebbe stato bello affermare che la luce che baciava le nostre pelli al ritorno da lavoro era quella soave e candida della luna, accompagnata da quella delle stelle, ma non era così da parecchi secoli ormai.)
Il telefono squillò di nuovo. Non esitai a tirarlo fuori dalla tasca e rispondere: se era Alfred l'avrei affrontato, se non lo era tanto meglio. Cosa poteva dire di così terribile, dopo tutto? Era davvero possibile soffrire più di quanto non stessi già soffrendo?
Ovviamente lo era, ma non me ne rendevo conto in quel momento. La morte di una persona a me cara o il semplice non vederlo più e saperlo morto, in qualche parte nel terriccio umido a decomporsi sarebbe stato sicuramente peggio, ma davvero non ci pensavo. Non c'era niente se non il dolore per una semplice delusione amorosa, che mi sembrava una cosa terribile. Come se Alfred mi avesse pugnalato le spalle, senza nemmeno darmi l'opportunità di difendermi, di dirgli qualcosa, di convincerlo e non farlo.
«Pronto-» dissi. La mia voce era calma, normale, come se nulla fosse accaduto e niente mi turbasse. Ovviamente era solo la maschera del terrore e dello sgomento che regnavano nel mio cuore. Alfred non se ne sarebbe accorto. Non era abbastanza perspicace per farlo.
«Arthur,» Alfred, era Alfred. Lo avevo immaginato, lo sapevo anche prima, ma ora era vero, era reale. Era Alfred, e aveva detto il mio nome, lo aveva pronunciato con le stesse labbra che qualche ora prima erano premute contro quelle di Ivan.
Lo stomaco si strinse nel mio addome, facendomi emettere un gemito che soffocai piuttosto abilmente. Volevo vomitare e odiavo farlo.
Non sembrava un prologo di un discorso, né un richiamo alla sua attenzione. Lo aveva detto con urgenza, come se avesse solo bisogno di dire “Arthur”, come se il chiamarmi cambiasse qualcosa, anzi, era come se chiamarmi avesse avuto un'importanza incredibile, lo aveva detto con la stessa voce con cui si rivela un segreto. È difficile da spiegare, me ne rendo conto: in quel momento era stato complicato per me anche concepire una tale follia.
Probabilmente, stavo impazzendo.
«Dimmi.» Dissi. La mia voce era più rilassata, era così tesa da sembrare seria, ma non era seria, e questo era piuttosto evidente. Parlavo muovendo poco le labbra, perché pensavo che aprirle di più avrebbe fatto fuggire un singhiozzo che si era bloccato in gola, un singhiozzo che mi avrebbe fatto ricominciare a piangere. Ed è terribile sforzarsi di non piangere quando si vuole piangere, perché ci viene voglia di piangere ancora di più.
Sospirai, le mie corde vocali tremarono appena, senza emettere alcun suono.
«Dimmi?» Alfred rise, era una risata isterica, ma finì subito. «Vieni qui, ora, muoviti.»
«Sei un folle-» Dissi. La mia mente ragionava sulle sue parole velocemente e la mia bocca le pronunciava senza nemmeno il mio consenso. Il mio cuore aveva ripreso a battere, o meglio, aveva sempre pompato sangue nella mia cassa toracica, ma ora riuscivo a sentirlo di nuovo. «Vieni qui... non so nemmeno dove sei-»
«Ha importanza saperlo, ora? Vieni qui e basta.» Era pazzo, totalmente pazzo. Qui poteva essere ovunque, al primo, al sesto piano, a New York, a Miami, al Cairo. Qui non era niente ma al contempo era tutto, dappertutto. Non potevo andare “qui” senza sapere cosa celasse il “qui”.
«Alfred, stai delirando-» Dissi, mi sentii improvvisamente agitato, felice e agitato. Non avevo motivo per essere felice, il fatto che volesse vedermi poteva anche voler dire che volesse lasciarmi, o uccidermi. Eppure ero felice, il vederlo mi avrebbe reso felice. Forse l'avrei picchiato, ma facendolo sarei stato... beh, sì. Felice. «Quello che dici non ha senso. Sei proprio un bambino-» respirai velocemente, mi sentivo la bocca impastata, come se mi fossi risvegliato dopo dodici, tredici ore di sonno. «Dimmi dove sei, geograficamente-»
«Se ti dicessi che sono su un aereo in partenza per il vecchio continente, ti importerebbe? Ti interesserebbe ancora, o dopo ciò che è successo oggi semplicemente ignoreresti la cosa e- Cristo, Arthur, rispondi!»
Folle, folle, folle, pazzo! Non ci stetti nemmeno a ragionare, come potevo ragionare? Mi stava bombardando di informazioni, di domande, e mi spronava a rispondere a cose che non capiva nemmeno lui! Respirai e tentati di calmarmi e di parlargli più seriamente possibile, volevo mi capisse, volevo compresse. Richiamai a me la ragione e risposi.
«Non sei su un aereo, se lo fossi saresti un idiota a chiedermi “vieni qui”. E sugli aeri i cellulari devono essere spenti. Non sei su un aereo, non dire idiozie!»
«Idiota!» Alfred sembrò improvvisamente furioso «Sei davvero idiota! È ovvio che non sono su un aereo, ma rispondimi cazzo! Ti importerebbe ancora, nel caso? Se partissi, ti importerebbe?»
Stetti zitto. «Certo, sì. Ma se tu dav-» La sua voce mi interruppe.
«Allora, se ti importa ancora, vieni qui. Sai dove trovarmi, dannazione. Dove potrei essere se non qui?»
Non capivo nulla, un accidente. Ero confuso, totalmente spiazzato. Se mi prendeva in giro, era un pessimo scherzo. Eppure, nella sua follia, avevo avvertito serietà. Il telefono ora sussurrava nelle mie orecchie un “tu, tu, tu” che mi comunicava che dall'altra parte non c'era più nessuno. Spinsi il telefono in tasca.
Non mi veniva in mente nessun posto dove potesse essere, eppure a lui era sembrato tanto ovvio... Che io avessi dimenticato, rimosso un posto particolare, importante per noi? Fui tentato a richiamarlo, ma tutto ciò che feci fu rientrare nell'edificio e scendere le scale velocemente. Qui... Qui... Continuavo a pensarci, e più ci pensavo più in me balenavano mille possibili “qui”.
Poteva essere il suo ufficio, il mio ufficio, l'ufficio di Ivan, il bar dell'ufficio, la segreteria, l'ascensore. Qui poteva essere tutto. Eppure doveva essere qualcosa in particolare. E più ci pensavo più diventava ovvio il posto, ma non riuscivo a figurarmelo nella mente.
Era come fare un discorso in pubblico e scordarsi le parole, assaporarle sulla propria lingua senza afferrarle. Non lo capivo, non ci arrivavo, o forse era troppo ovvio e i miei ragionamenti mi stavano depistando.
Diversi piani dopo ero a nella hall. La gente si salutava, abbracciandosi e baciandosi le guance, alcuni bevevano l'ultimo caffè caldo prima di avventurarsi verso le strade trafficate di New York, dove sicuramente sarebbero stati bloccati per qualche mezz'ora prima di arrivare a casa.
L'illuminazione rimase in bilico per qualche secondo sulle labbra scarlatte della donna che beveva il liquido dal bicchiere di plastica prima che Arthur l'afferrasse.
Casa.
Qui era Casa.
Ero idiota, lo ammisi, uscendo dal palazzo. Forse incrociai Antonio che, con il suo sorriso dolce, mi salutò: ma lo ignorai. C'era altro ora nella mia mente, c'era la realizzazione, la felicità, l'ira e la paura, e c'era Alfred che invadeva le mie membra stringendole finché il sangue non scorreva più. Non potevo pensare ad altro, non ora che ero quasi certo di sapere dove si trovava, non ora che la curiosità mi aveva invaso, non ora che tutto ciò che volevo sapere era ciò che Alfred voleva dirmi, qualunque cosa fosse. Il dolore non mi spaventava, niente lo faceva.
Non era ancora giunto il nostro crepuscolo, non potevo ancora vedere tramontare i miei sogni le mie speranze. Avevo ancora qualche ora per sognare, per perdermi nelle mie illusioni e nelle mie fantasie.
La metropolitana era rapida. Come un verme che striscia veloce tra il fango, saettava nelle gallerie buie. C'era molta gente, era affollata. Stavo premuto tra un uomo elegante e dal bello aspetto e un barbone. Avrei voluto abbracciare l'uomo con la cravatta e affondare il naso nel suo petto, odorando il suo profumo, piuttosto che stare ancora qualche secondo col il naso rivolto verso l'uomo che emanava un lezzo di carogna.
Non feci nulla, comunque, se non aspettare che giungesse la mia fermata. Era incredibilmente lenta in quella serata. Non sapevo se a rendere così estenuante la corsa della carrozza fosse il puzzo dell'uomo o la curiosità di sapere cosa Alfred volesse dirmi, o entrambe. Fatto sta che mi stavo spazientendo e che quelle quattro fermate all'arrivo mi sembravano insopportabili.
Attesi, comunque.
Quando la voce computerizzata chiamò il mio isolato sentii il cuore saltare nel mio petto. Ma “Lincoln Center” era apparso alle mie orecchie più melodioso e più gradito. Scesi velocemente, e per tutto il tragitto verso l'uscita e poi verso casa rimasi in una sorta di coma cosciente. Il mio corpo viveva, si muoveva tra la gente e percorreva la strada a memoria, ma la mia mente era altrove, in mezzo a una nube chiara che avvolgeva tutto - il mio udito, la mia vista, la mia ragione.
Se stavo impazzendo, il mio cervello aveva scelto male il momento per farlo. Scossi la testa e aprii il portone di casa.
Mi tremavano le gambe e non mi vergogno troppo ad ammetterlo.
Presi l'ascensore solo perché ero certo di non riuscire a farmi i piani a piedi. Più mi avvicinavo ad Alfred, più il pranzo mi si bloccava in gola e spingeva verso la trachea per fuori uscire.
Era disgustoso.
Le porte dell'ascensore si aprirono, scorrendo verso i lati e io fui fuori. Rimasi davanti alla porta per qualche istante e desiderai ardentemente che l'altro avesse qualche sorta di potere paranormale e avvertisse la mia presenza. Ovviamente non era possibile accadesse.
Alfred era in casa e ne ero certo. La luce gialla filtrava da sotto la porta. Tentai di infilare le chiavi nella serratura e non fu una sorpresa trovare le gemelle inserite dall'altra parte della porta. Sentii i passi pesanti di Alfred avvicinarsi la porta e la tensione farsi densa nell'aria.
Faceva quasi male da respirare.
La porta si aprì, forse sarei svenuto, forse il mio corpo avrebbe retto abbastanza per guardarlo in faccia.
Mi chiedo se vi interessi davvero sentire il racconto di questa mia storia, mi chiedo soprattutto perché io la stia raccontando. Forse, pecco di presunzione a pensare che a qualcuno davvero interessi la situazione amorosa di un giovane inglese omosessuale. Probabilmente, leggete controvoglia aspettando l'inizio del vostro programma preferito in televisione, o forse guardando nostalgicamente la copertina del libro che sta rubando ore del vostro tempo. Forse, vorreste fare altro ma non lo fate spinti da una piccola percentuale di curiosità che vi induce a continuare a leggere anche ora che non sto dicendo nulla.
Se rileggessi le mie parole qualcosa, sarei preso dall'istinto di cancellare tutto e mandare tutto al diavolo, per questo non lo farò, e continuerò a raccontare quello che accadde quella sera.
Contrariamente alle mie aspettative, quando quella porta si aprì e Alfred fece capolino non svenni. Rimasi impassibile a fissare il suo volto finché non mi sentii tirato dentro.
Le sue labbra erano scese sulle mie, la mia mente non appena la nostra pelle si sfiorò frenò bruscamente e si spense, e tutto divenne solo sensazione e istinto animale. I suoi denti erano sulle mie labbra, sul mio mento, sentivo il suo respiro addosso e il suo cuore battere sotto le mie mani. I nostri occhi erano incatenati come le nostre labbra, e fu bellissimo e indescrivibile finché non lo spinsi lontano da me e non mi piegai su me stesso.
Mi ritrovai con le ginocchia a terra e con fiatone.
«Stronzo... bastardo!» dissi, ma ciò che avrei voluto urlare era un “ti amo”, avrei voluto urlarlo così forte da rompermi le corde vocali, ma la verità è che non ne avevo il coraggio. Dopotutto, ero sempre Arthur Kirkland, il vigliacco. Non sarebbe stato il terrore di perderlo a cambiare ciò che ero nato.
Confuso e spaesato Alfred vacillò. Sentivo il suo respiro pesante, sentivo le sue gambe muoversi sul pavimento, sentivo il calore del suo corpo vicino a me, e sebbene non potessi vederlo perché avevo chiuso gli occhi, sentivo le sue mani sulla mia schiena, e poi nei miei capelli, e poi sul mio viso.
Non avevo il coraggio di scacciarlo, non sapevo nemmeno se volevo davvero si allontanasse. Ero confuso come non lo ero mai stato. Ero arrabbiato, moltissimo, perché amava me come amava anche altri, con la stessa leggerezza le sue labbra concedevano baci, e non riuscivo a capire se tra noi ci fosse qualcosa di speciale e importante.
Ero arrabbiato perché non ero riuscito ad averlo, averlo mio e basta.
Ero egoista, forse, ma non mi importava.
«Mi dispiace così tanto, Arthur-» Alzai gli occhi per accertarmi di quello che avevo avvertito: stava piangendo. Dio, stava piangendo. Non avevo mai visto nessuno piangere prima di allora se non Peter. Alfred stava piangendo, mi accarezzava e si scusava. Se stavo sognando, quello era il momento perfetto perché la sveglia suonasse e mi destasse dal sogno, o dall'incubo, o da qualsiasi cosa quello fosse.
Ma era la realtà, niente prima era stato così vero, così reale, nemmeno l'aria era mai stata così satura e respirabile come allora, nemmeno la notte che scuriva il cielo era così vera, così scientificamente possibile, nemmeno gli occhi turchesi e umidi del mio amore - lo era, era il mio amore e lo sapevo perfettamente - mi erano mai sembrati più reali, più perfetti, più belli. Ero perso in un oblio di piccole cose mai notate prima. I difetti sparirono, o forse si ingigantirono a tal punto da essere così tanto visibili da poter venire ignorati, non lo sapevo, non sapevo non capivo nulla.
E di nuovo, le mie labbra erano sulle sue e il suo sapore nella mia bocca, giù per la mia gola, in corsa verso il mio cuore. Era quello il paradiso narrato nei testi biblici? Era quella l'assoluta gioia, spensieratezza data in premio da Dio ai più fedeli, ai più puri di cuore? Che fosse rinchiuso in un istante o in un'eternità nessuno l'aveva mai specificato. E in quel bacio, fui certo di aver trovato il mio paradiso.
Non volevo staccarmi, fosse stato possibile vivere così, ricevere nutrimento in quel modo, non mi sarebbe dispiaciuto. Deliravo, deliravo come un folle, come se la ragione mi avesse abbandonato e tutto quello che regnasse in me fosse istinto e nient'altro che quello.
Le mani di Alfred si strinsero sui miei fianchi, la sua bocca si staccò dalla mia e mi baciò uno zigomo. Avevamo i respiri affannati e i cuori in danze. Probabilmente, nessuno dei due sarebbe riuscito a pronunciare qualcosa di sensato.
Ma Alfred sembrava dover parlare, vedevo negli occhi la stessa urgenza che era appartenuta alla sua voce per telefono, quando mi aveva chiesto che cosa avrei fatto se se ne fosse andato senza dirmi nulla.
Lo avrei ucciso, probabilmente. O meglio, sarei partito per il Vecchio Mondo e l'avrei ucciso lì, macchiando le terre dell'Inghilterra, della Spagna, della Francia, dell'Italia o di qualsiasi continente lo ospitasse del suo sangue. Non poteva lasciarmi senza dire nulla.
Doveva almeno inventarsi qualcosa, una parvenza di motivazione, una scusa implausibile. Qualcosa. Qualunque cosa sarebbe stato meglio di un deprimente silenzio.
«Piantala di pensare. Sei bello quando pensi, ma smettila-» Disse. La sua voce era appena un sussurro, feci fatica ad udirlo.
«Quando non penso non lo sono?» Chiesi tentando di sembrare irritato. Le sue labbra sfiorarono ancora le mie, mentre le su mani mi stringevano.
«Folle. Tu lo sei sempre. Bellissimo, lo sai-» Era romantico, era da teatro, era da libro rosa. Era una cosa che se mia madre avesse saputo avrebbe aborrito così tanto da, probabilmente, arrivare a diseredarmi. Ma ciò non aveva importanza.
Mia madre non lo avrebbe saputo, e se lo avesse saputo, beh, secondo voi me ne sarebbe importato? Avrei vissuto il mio romanticismo finché non fosse esaurito, e se non aveva la fine mi sarei lasciato nauseare da esso, fino a sentirmi completo e totalizzato d'amore.
Questo davvero mi faceva sentire folle, sì, ma follemente felice.
«Sei un ruffiano-» gli morsi un labbro «Ed io ti odio-»
«Menti. Se mi odiassi non saresti qui, non staresti facendo questo-»
I miei occhi si oscurarono per un attimo. Il mio cuore smise di sfarfallare per il petto e ripiombò nel realismo e nel pessimismo che da sempre avevano fatto da radici alla pianta della mia vita. Un nome dipinse di nero la valle rosa in cui mi ero perduto.
«Ivan,» dissi, e quel nero denso sembrò invadere entrambi.
Baciò la mia fronte e mi strinse a sé, sussurrando frasi sconnesse contro la mia pelle.
«Se lo vuoi, ti racconterò tutto.»
Annuii. «Lo voglio esattamente come voglio schiaffeggiarti.»
Alfred sorrise leggermente, con la fronte appoggiata contro la mia.
«Giurami che crederai a tutto e non mi interromperai mai. Non mi farai domande, e soprattutto, non mi giudicherai.»
Non sapevo cosa avesse da dirmi, ma nella sua voce c'era una note di disperazione che non avevo mai conosciuto.
Claire invade le sue fanfiction parte decimnona:
La domanda non è “COSA?” ma sostanzialmente è “CAZZO, PERCHE'?” so che vi sono mancata come la febbre ma, eccomi giunta a sbaciucchiare le vostre fronti *A*.
Sapevate, prima o poi, che sarei tornata.
E quindi eccomi. Non so per quanto sparirò, sto scrivendo molto su Le cronache dei vampiri (le fanfiction le potete trovare lockate sul mio LJ) e sono buh... Così, persa in quel mondo...
Comunque, niente.
Spero vi piaccia e mi perdoniate i mesi d'attesa.